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Nell’esplicazione dell’essenza della chiesa-edificio abbiamo reputato importante la comprensione dei concetti di culto e di popolo di Dio, visto che per quest’ultimo si è già offerta una definizione strutturale sufficientemente esaustiva, non rimane che proporre una trattazione teorica capace, grazie alla sua organicità, di chiarire le pecu- liarità che contraddistinguono il culto cristiano. Dobbiamo, inoltre, sottolineare che, se fino a ora il tema centrale della nostra trattazione ha riguardato in particolar modo il soggetto generale, la Chiesa cattolica, perciò universale, da ora in avanti ci occuperemo più specificamente delle sue azioni e di come queste si concretizzano nell’attività della Chiesa locale e delle assemblee liturgiche.

Il culto in genere è l’espressione attraverso la quale si esplica la religione, in quanto conoscenza e accettazione del rapporto che lega l’uomo a Dio. Questo rapporto, nascendo dalla cognizione del nostro essere creature, da una parte ci mette in posizione distinta da Dio e dall’altra ci spinge a riconoscere la nostra dipendenza da lui. Quando il riconoscimento di questa dipendenza si concretizza in atteggiamenti di adorazione, di ringraziamento e di implorazione, la religione diventa culto. Il quale, però, non può essere considerato un semplice strumento necessario a veicolare emozioni, esso al contrario si caratterizza per il suo carattere relazionale totalitario, in quanto si applica tanto sul piano interiore dello spirito quanto su quello esterno del corpo; conseguen- temente esso risiede nell’intimo, ma si manifesta necessariamente all’esterno con azioni

che, investendo tanto il corpo dell’uomo quanto lo spazio e il tempo in cui egli di fatto esiste, danno origine ad azioni cultuali e creano tempi e luoghi di culto. A causa di questo forte legame con la natura umana, le forme di culto assumono modi espressivi differenti a seconda della cultura in cui si sviluppano, anche se il vincolo più profondo viene indotto dal contenuto religioso che sono chiamate a esprimere.

Questo gioco di equilibrio tra cultura e religione assume dei connotati particolari nel caso di una religione rivelata come il cristianesimo. Nel culto che da essa deriva, la rive- lazione non riguarda in modo particolare le forme codificate, quanto il nuovo contenuto che in esse viene calato ed espresso. La rivelazione infatti, pur essendo un fatto che va oltre la storia, è sempre inserita in essa e quindi, per quanto riguarda le forme cultuali che hanno il compito di esprimerla, non ne imporrà necessariamente la creazione di nuove, ma al contrario si inserirà in quelle già esistenti, le quali conserveranno la loro matrice umana e spesso continueranno a mantenere note che tradiscono la loro origine religioso-naturalistica. Questo a patto che le forme cultuali siano capaci di contenere e mediare le realtà presentate dalla rivelazione, altrimenti saranno rigettate.

L’altalenare tra permanenza e cambiamento di ogni forma di culto è presente in modo molto chiaro anche nella rivoluzione operata da Gesù Cristo all’interno del suo mondo. Per Cristo è principio generale che l’Antico Testamento non è qualcosa che debba essere abolito, ma piuttosto qualcosa da compiersi,28in particolare attraverso la sua vita.29

MIChELANGELO, Creazione di Adamo, Cappella Sistina, Città del Vaticano, 1508-12

Per dare corso a questa volontà, Egli si impone in modo critico, ma costruttivo, nei confronti di ciò che considera incompleto e citando Isaia mette in luce alcuni concetti fondamentali: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini».30

Si tratta di una critica molto circostanziata, che definisce il culto della sinagoga come vuoto e ancora legato al valore magico attribuito sia ai gesti sia alle molte parole della preghiera, a tal punto da eludere la legge dell’Antico Testamento. Per questo Gesù Cristo, ispirato dalla necessità di un culto che sia valido per se stesso, affermerà chiara- mente che «è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità».31 Cioè con un culto che sia vero, vale a dire senza il diaframma di

forme rituali puramente sostitutive, e che sia nello spirito, ossia realizzato attraverso l’offerta interiore che l’uomo fa di se stesso a Dio.

Tutto il significato racchiuso in queste poche parole, però, sarà completamente svelato solo quando Gesù, seguendo la volontà del Padre, toglierà di mezzo tutti i sacrifici sosti- tutivi e al loro posto offrirà se stesso attraverso il segno della morte sulla croce,32

epurando così, definitivamente, il culto dalla materialità del luogo e della cultura.33Egli,

infatti, ci mostra in se stesso che il vero luogo del culto, il tempio, è quello spirituale, cioè l’uomo nella sua interezza di corpo e spirito e che il culto spirituale che aveva, come

CARAVAGGIO,

San Francesco in preghiera

Cremona, Pinacoteca del Museo Civico, 1605-1606,

in un tempio, instaurato nel suo corpo avrebbe continuato a esistere per effetto della sua resurrezione.34La resurrezione del Signore, infatti, non è stato solo il rialzarsi del

suo corpo dal sepolcro, ma è stato un risorgere del tempio rappresentato dal suo corpo, ossia un risorgere del vero culto di Dio nascosto dalle leggi degli uomini. Questa è l’es- senza del culto cristiano e sulla base di essa ogni segno o atto cultuale deve non solo ispirarsi, ma costituirsi integralmente.

In particolare i cristiani che, partecipando alla rivelazione svelata da Gesù Cristo, si costituiscono in un unico corpo,35sono chiamati a offrire la propria vita «come sacrificio

vivente, santo e gradito a Dio»;36è questo il loro culto spirituale e sulla base di esso

formeranno un «edificio spirituale»,37 un «tempio santo del Signore [...] dimora di Dio

per mezzo dello Spirito».38 La manifestazione massima del culto spirituale dei cristiani

si ha nella celebrazione dell’eucaristia, nella quale la Chiesa offre se stessa in sacrificio spirituale unendosi all’offerta che Cristo fece di sé sulla croce e che è resa sacramental- mente presente sull’altare. Ogni volta che questo avviene, non solo la Chiesa impara a offrire se stessa in quella cosa che offre, ma diventa di fatto sempre più realmente corpo di Cristo.

Bisogna sottolineare che sulla base della verità e della spiritualità del culto cristiano, la celebrazione dell’eucaristia non ha bisogno di svolgersi in luoghi particolari, opportu- namente definiti e limitati a tale scopo,39poiché al di fuori dell’interezza della persona,

essa non ha tempio che possa simboleggiarla. Siamo perciò obbligati a pensare alla chiesa-edificio in termini completamente nuovi o perlomeno non tradizionali; dobbiamo, cioè, ritrovare la coerenza tra il dato rivelato e la sua manifestazione esteriore che, in riferimento all’edificio adibito al culto, implica il superamento dell’idea di luogo

TINTORETTO, La Trinità, Torino, Galleria Sabauda, 1564-68

sacro che divide40e la totale e profonda valorizzazione dell’unico tempio che possa avere

un senso: l’uomo nel suo essere parte della Chiesa. Paradossalmente, allora, la chiesa- edificio potrebbe essere pensata come il luogo dell’aver cura dell’unico luogo sacro per i cristiani.

Intimamente connessa all’idea di culto é, come abbiamo accennato, il concreto e fattivo incontro dei fedeli che, sentendosi un unico corpo, hanno la necessità di raccogliersi nell’assemblea eucaristica detta anche liturgica in quanto espressione corale. L’assemblea della nuova comunità nel giorno di Pentecoste può considerarsi la prima in ordine di tempo e di importanza. «Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo»;41va sottolineato il valore delle parole «nello stesso

luogo», le quali indicano non solo un raggruppamento locale, ma sembrano anche espri- mere, nel linguaggio di Luca, l’unanimità tra i membri riuniti. Nel brano degli Atti sono perciò condensate le peculiarità più importanti che contraddistinguono l’assemblea litur- gica che sono rappresentate dalla diretta convocazione, dall’incontro personale in un luogo, dalla polarizzazione verso un centro comune di attenzione e di interesse. L’assemblea liturgica deve, però, a sua volta essere rivista in stretta connessione con la Chiesa, come espressione simbolica della convocazione operata da Dio in Cristo del nuovo popolo costituito per mezzo della nuova alleanza. Considerandola come segno è possibile oltrepassare il dato sociologico e arrivare alla sua realtà mistica. Essa rivela e nasconde insieme: una realtà prefigurata; una continuazione storica; una realtà attuale

ChAGALL, Esodo, Parigi, Musée national d’art moderne - Centre Georges Pompidou, 1952-66

e permanente. La Chiesa, cioé, nella sua veste sia locale sia universale, diventa presenza operante di Cristo. L’assemblea liturgica è perciò il luogo di incontro della Chiesa locale, cioè di una comunità stabile di fedeli ove normalmente si trovano esercitate le funzioni essenziali della vita cristiana: evangelizzazione, culto, carità. Nella Chiesa locale è presente tutta la complessità del mistero:

«Questa Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali dei fedeli, le quali [...] sono anch’esse chiamate chiese dal Nuovo Testamento. Esse infatti sono, nella loro sede, il popolo nuovo chiamato da Dio, nello Spirito Santo e in una totale pienezza [...] In queste comunità, sebbene piccole e povere o che vivono nella disperazione è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e aposto- lica».42

Tra la Chiesa locale e la Chiesa universale non vi può essere, perciò, alcuna opposizione: quest’ultima non è una realtà superiore, ma si realizza nel suo mistero di popolo adunato da Dio in Cristo e animato dalla sua presenza operante in ogni comunità locale. L’assemblea, in particolare quella eucaristica, è il segno normale nonché privilegiato dell’espressione della Chiesa nel mondo: «c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime cele- brazioni liturgiche, sopratutto alla medesima eucaristia, alle medesime preghiere, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri».43

Questo ci fa capire perché dal giorno di Pentecoste «che segnò la manifestazione della Chiesa al mondo [...] (essa) mai tralasciò di riunirsi in assemblea per celebrare il mistero

Le celabrazioni domestiche, Cappella della casa dello studente,

pasquale».44con la lettura delle scritture e con l’eucaristia. La Chiesa perciò, non si

riunisce in assemblea per una necessità estrinseca, né sotto la spinta psicologica, ma per una chiamata divina, per manifestare la sua natura di convocazione e per attuare l’opera di redenzione.

«Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è sacra- mento dell’unità, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi».45

L’affermazione conciliare, la quale indica nell’intera assemblea il soggetto della celebra- zione liturgica, potrebbe sembrare ovvia. Di fatto lo è, in quanto dicendo azione liturgica diciamo azione di popolo, nel nostro caso di un’assemblea ecclesiale. Eppure questo dato dottrinale è una riconquista dopo secoli di oblio, durante i quali la presenza dei fedeli è auspicata ma non ritenuta essenziale per la validità della celebrazione e non entra direttamente, sul piano rituale, nel suo svolgimento. Con il Movimento Liturgico moderno si comincia a parlare della partecipazione dei fedeli e se ne coglie il fonda- mento nel carattere battesimale e crismale, ma persiste ancora il concetto clericale o gerarchico di Chiesa attraverso il quale si viene a creare una linea discendente da Cristo, al sacerdote, ai fedeli, i quali sono perciò sottoposti a una autorità superiore.

Il passo decisivo viene compiuto dalla costituzione ‘Sacrosanctum Concilium’, la quale ci insegna che l’azione liturgica è opera di tutta l’assemblea46e non identifica più la Chiesa

come autorità. Un ulteriore progresso si ha con la ‘Lumen Gentium’, la cui ecclesiologia

Interno della chiesa di San Pietro durante una celebrazione

parte dal concetto di Popolo di Dio; basta al nostro scopo citare questa frase significa- tiva: «Il carattere sacro e organico della comunità sacerdotale viene attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù».47 In questa rinnovata concezione ecclesiologica che non

contrappone ma integra il sacerdozio gerarchico e il sacerdozio comune dei fedeli, si recupera il significato e la portata del principio che l’assemblea è il soggetto della cele- brazione. In questo modo si presenta come un gruppo unito, una comunità, un popolo sacerdotale nella sua totalità e nello stesso tempo è un corpo vivo e organico. Pertanto, senza fratture interne ma con il concorso di tutti i suoi membri, l’assemblea agisce in modo unitario. Essendo tuttavia diverso il ruolo dei singoli membri nella Chiesa, diversa sarà la loro funzione, pur nella prospettiva di un unico corpo operativo.

Ognuno dei ministeri di cui è composta l’assemblea non è una realtà autonoma e supe- riore a essa, ma si trova all’interno e al servizio della medesima. Gli stessi ministeri ordinati, i sacerdoti ad esempio, esprimono una partecipazione particolare al sacerdozio di Cristo, e il loro più importante fine è unicamente servire la comunità ecclesiale. In questo senso non è il singolo ministero che crea la comunità, ma è Dio che chiama a formare il corpo di Cristo e da Cristo il corpo riceve concordia e coesione attraverso il reale servizio offerto dai ministeri.