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Confini e passaggi nella scrittura di May Sinclair A consolidare l’amicizia fra me e Maria con una più

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 158-175)

pro-fonda intesa intellettuale, ci fu May Sinclair. Di May Sinclair, figura di spicco della stagione modernista, io avevo curato nel 1991 la traduzione italiana della long short story, The Flaw in the Crystal (L’incrinatura nel cristallo), e le chiesi di venirla a presentare a Latina, mia città adottiva (dopo Napoli) e luogo della casa editrice che all’epoca si azzardò a in-trodurre questa quasi sconosciuta scrittrice presso il pub-blico italiano. Maria accettò subito. Arrivò, accompagnata da Marcello, elegantissima, con uno smagliante tailleur color fucsia, messo apposta perché su di esso risaltasse il bruno lunare della sua pelle e il casco lucente dei suoi folti capelli corvini.

Ma come era nel suo stile amministrò l’amicizia con parsimonia. Che in lei significava rispetto dei sentimenti, solidità. Non fece elogi alla curatrice sua amica. Fece onore a quella arrischiata impresa editoriale con una esegesi in-curiosita e controllata. Con la seria attenzione che una stu-diosa riserva a un complesso riemerso organismo, un’at-tenzione per una scrittrice a lungo dimenticata, che non sarebbe finita lì. Nulla in Maria si spegneva. Tutto perseve-rava e rimaneva. Di May Sinclair prese infatti a occuparsi: pubblicò intanto su Leggere Donna (rivista alla quale spesso

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collaborava) il densissimo testo di quella sua latinense presentazione e di lì a qualche anno, nel 1997, curò per Sellerio la traduzione del romanzo Life and Death of Harriett Frean. Poi Maria venne a parlare di lì a poco ai miei stu-denti di Roma Tre: parlò della poesia di Emily Brontë in un mio corso in cui fra l’altro mi soffermavo sul rapporto fra l’innovazione modernista di May Sinclair e le tre più famo-se sorelle dell’Ottocento inglefamo-se che May Sinclair aveva omaggiato con una biografia, The Three Brontës, e con un romanzo The Three Sisters.

May Sinclair continuava a mantenere il beneficio di un’amicizia continuata negli anni, a far da tramite all’in-terno di un cerchio più ampio di affezioni.

Vorrei poter riafferrare qualche impressione legata al sentire di Maria, nel muovermi lungo il filo di queste opere di May Sincalir, The Flaw in the Crystal (1912), The Three Brontës (1912), The Three Sisters (1914), recuperare qualcosa di que-sto nostro incontrarci mediato da una scrittrice che costrin-ge a parlare di confini e di passaggi, di confronti con la tenebra e con la luce, di terrori e di ascesi, ovvero di corag-giosi gesti conoscitivi e perturbanti incontri con la verità; una scrittice che fu anche filosofa, coinvolta appieno nella ricerca delle nuove scienze della soggettività e che Maria Stella, senza esitazioni, nella sua latinense presentazione di The Flaw in the Crystal, avvicinò al Conrad di Heart of Darkness a onta dell’ambientazione assolutamente dome-stica di questa novella di May Sinclair. Perché infatti que-sta storia del soprannaturale, ambientata nel cuore della campagna inglese, ha la capacità di avvicinarci, attraverso la sua protagonista, al cuore di un interiore male novecentesco, a una occidentale macchia originaria, innominabile eppure maleficamente concreta, che la protagonista catalizza nel suo corpo e che incrina la translucida cristallina

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za del potere salvifico che ella possiede, così ribaltando, sosteneva Maria, la convinzione espressa da Marlow in Heart of Darkness che «le donne son fuori di contatto con la veri-tà».

Così sembrò a Maria, e a ragione, perché infatti la scrit-tura di May Sinclair, così tesa verso la trascendenza del limite, qui rappresentato dai confini carnali dell’umano e dalle sue nefaste insorgenze, non fa che confrontarsi in vari modi con quel limite, non temendo il rischio della negatività. Ma per assimilarla, o per espungerla e negarla, si chiedeva Maria nella sua recensione? Siamo di fronte alla proposta di un’idealizzata integrità dell’arte, «alla definitiva nega-zione del negativo», oppure di fronte a una «visione della vita e dell’arte come nodo inscindibile di creazione e cata-strofe?»1

E mi accorgo che la domanda di Maria, lasciata sulle pagine sbiadite di un numero di Leggere Donna del lontano 1991, ritorna improvvisamente a interpellarmi nel modo mai pallido con cui Maria sapeva porsi di fronte al lavoro e allo scambio intellettuali.

Dovrò risponderle in poco tempo, forse semplicemente estendendo e riproponendo in altro modo la sua domanda, ed evocando una sinclairiana genealogia di autori che erano cari anche a Maria: le Brontë e Thomas Hardy. Comincio a farlo precisando, intanto, il senso del binomio del mio titolo, il senso di ‘confine’ e di ‘passaggio’, termini che vogliono mantenere nel lessico di una poetica la psicoanalitica dina-mica, ben nota a May Sinclair, fra la repressione dell’energia libidica, con tutte le sue malattie e i suoi terrori, e le sublimate

1 Maria Stella, “L’incrinatura nel cristallo. La narrativa di May Sinclair”,

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conquiste della coscienza. In “Clinical Lecture on Symbolism and Sublimation”, un saggio del 1916, di qualche anno suc-cessivo a The Flaw in the Crystal, la scrittrice, da conoscitrice del lavoro di Freud e Jung, ne parla così:

At the present moment there is a reaction against all hushing up and stamping down […] Repression has had its chance in all conscience. Puritanism is now on its trial, if it be not already condemned. Wherever religion has aimed at the extermination of the natural instincts, wherever it has exalted repression to a positive virtue, it has failed of its redemptive end. Our clinics, and lunatic asylums and the consulting-rooms of nerve specialists are full of its failures. (They are also full of the successes of those people who resisted all repression!) And at last we are beginning to know why and wherein it has failed. You cannot attempt the destruction of the indestructible without some sinister result.2

Contro le forme esterne e interne di repressione May Sinclair affermava l’atto conoscitivo della parola, la sua capacità di strappare la coscienza ai suoi terrori, facendoli ascende-re verso le rivelazioni del simbolo, così scopascende-rendo una coincidenza fra letteratura e psicoanalisi. Il loro punto di

2 «La nostra epoca sta reagendo contro ogni forma di silenzio e di costrizione […] La repressione, a dire il vero, ha fatto il suo tempo, e il puritanesimo è alla sbarra in attesa di una definitiva condanna. Proponendosi di annientare gli istinti naturali e di innalzare la repressione a virtù positiva, la religione ha finito con il fallire nella sua missione redentiva. Le nostre cliniche, così come i manicomi e gli studi degli specialisti in malattie nervose, sono pieni dei suoi fallimenti. (Sono però altrettanto pieni dei successi di coloro che vi hanno resistito!). E finalmente stiamo cominciando a capire dove e perché ha fallito. È difficile che si possa intraprendere la distruzione dell’indistruttibile senza provocare qualche sinistro risultato.» (May Sinclair, “Clinical Lecture on Symbolism and Sublimation”, The

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confluenza è per May una comune vocazione liberatoria, la capacità di entrambe di aggirare «the Angel of Repression, the psychic Censor» e di affrontare il disturbo, la verità difficile:

The business of the psycho-analyst is to expose this censor and his work, and by exposing, remove him for ever […] The first thing the Healer (the psycho-analyst) has to do, then is to evoke the appropriate symbol. We need not go into all the details of his ritual. Enough that, if he does not know the precise word of the enigma he knows that there is a word, and that he has got to find it [… ] What he has to get at is the ‘complex’, the hidden thing, the beast that worries the psyche in its dark jungle, and is the source of all the trouble […] If he is analysing a dream, the dream itself will supply him with as many symbols as he wants, all that he has to do is to provide the interpretation. Interpretation is illumination; it is the light thrown on the golden bridge by which the psyche is to come back.3

Maria Stella coglieva dunque nel segno evocando Conrad e proponendo il suo ‘cuore di tenebra’ quale punto di rife-rimento per valutare la rilevanza di May Sinclair nell’am-bito del Modernismo, il carico di problematiche filosofiche

3 «Compito dello psicoanalista è quello di stanare questo censore e il suo

operato, di modo che, stanandolo, possa essere definitivamente rimosso […] Per prima cosa, allora, il Guaritore (e cioè lo psicoanalista) evocherà il simbolo appropriato. Non c’è bisogno di esporre nei dettagli il rituale che gli compete. Ciò che conta, se già non conosce la parola precisa dell’enigma, è che egli sappia che quella parola esiste, e che essa va trovata […] Ciò che deve scovare è la cosa nascosta, con la sua ‘complessità’, e cioè la bestia che molesta la psiche nel buio della giungla ed è all’origine del disturbo […] Se analizza un sogno, sarà il sogno stesso a mettergli a disposizione tutti i simboli che vuole. Lo psicoanalista dovrà solamente interpretarli. L’interpretazione è un’illuminazione; ed è questa la luce che illumina il ponte dorato attraverso cui la psiche ritorna a sé.» (Ibid., p. 121)

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e conoscitive proprio alla sua scrittura. Perché infatti anche May aveva azzerato ogni distanza di sicurezza dal nucleo buio dell’anima e dai mali oscuri della nostra civiltà, in-gaggiando, proprio a partire da The Flaw in the Crystal, e dunque nella scrittura creativa prima ancora che in quella filosofica, un impegnativo confronto con «the hidden thing, the beast that worries the psiche in the dark jungle». Ma lo faceva ponendo in primo piano la soggettività femminile, rifiutandosi al ruolo debole di soggetto protetto su cui il Marlow di Heart of Darkness costruisce la sua doppia ‘veri-tà’: quella per i marinai della barca ancorata sul Tamigi («the horror, the horror»), quella ‘consolatoria’ consegnata alla fidanzata europea di Kurtz, poiché, dice Marlow delle donne, «We must help them to stay in that beautiful world of their own, lest ours gets worse.»4 May rivendicava an-che per loro la necessità di un confronto con le verità per-turbanti di ciò che è celato o negato.

I confini nella scrittura di May Sinclair sono allora limiti concreti, privazioni, mancanze, contro cui cozza spesso una coartata energia femminile e sono bordi, soglie, fra la real-tà e la sua trascendenza, e fra il buio e la luce, il conscio e l’inconscio, confini e bordi che la scrittura in modo orfico, da Psicopompo (l’immagine è di May Sinclair), con un sapere pioneristicamente psicoanalitico, si impegna di attraversa-re fondendo il tema alla forma, una forma epifanica, che produce la sua verità al varco, nel passaggio, e cioè nelle brecce che essa apre, siano esse brecce salvifiche come in The Three Sisters o brecce perturbanti e orrifiche come nei suoi racconti fantastici e come in The Flaw in the Crystal.

4 Joseph Conrad, Heart of Darkness and The Secret Sharer, New York, Bantam

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Tutto si gioca in una geografia intermedia nel romanzo The Three Sisters, in una severa geografia brontiana, dove l’insufficienza può trasformarsi in vincolo metafisico con il reale, o altrimenti, in scontro potenzialmente tragico. È lo scenario, un remoto paesino dello Yorkshire al limite della brughiera, in cui May Sinclair ambienta la storia di Gwenda, Mary e Alice, figlie di un autoritario Vicario, che lì sono poste a vivere il loro confronto con la legge pater-na e le spinte del desiderio. Ma novecentescamente, con una messa a fuoco che articola secondo moderne forme di introspezione la relazione fra le circostanze e l’agire. Quando May scrive The Three Sisters nel 1914, ella ha da poco con-cluso la biografia The Three Brontës (1912). Ha anche da poco condensato nel pamphlet Feminism (scritto sempre nel 1912 per la Women Writers’ Suffrage League) la sua vicinanza alla questione femminile e la sua filosofica pas-sione per i temi freudiani e junghiani della represpas-sione e della nevrosi; temi di cui le interessavano i processi di sublimazione necessari per trasformare la privazione in pienezza.

Tutto nella sua vita così equamente distribuita fra Vittorianesimo e Modernismo (era nata nel 1863, morirà nel 1946), così equamente segnata da costrizioni e rivolte, l’obbligava del resto a occuparsene. Direttamente o indi-rettamente la sua vicenda di privazione, per tanti versi condivisibile con le donne della sua generazione, May la racconterà numerose volte, nei suoi romanzi e nei suoi saggi critici, ma non per lasciarcela segnata dalla sconfitta, quanto per interpretarla col sapere e la determinazione, ormai, della donna del Novecento, di chi vorrà trovare nella scrittura e nell’intima realizzazione dell’io, lo spazio della volontà e della trascendenza, della sublimazione e della cura.

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In The Three Sisters questa vicenda di costrizione, nevrosi e sofferta affermazione del sé, trova in un brontiano spazio limite il luogo per inscenarsi. Per inscenarsi sulla base di un effetto: secondo una cromatica essenzialità di rapporti fra esterno e interno, secondo quella selettiva coloritura emotiva, il gri-gio e un bagliore su di esso irraggiato dalla visione, che May da modernista ha letterariamente già inseguito nello scrivere la sua biografia delle Brontë. Che così inizia:

È impossibile scrivere delle tre Brontë dimenticando il luogo in cui vissero, lo spoglio paesino grigionero issato come un bastione sul bordo netto della brughiera, […] la piccola casa oblunga, spoglia e grigia, attorniata su due lati dal ci-mitero […] Ma un sentiero conduce […] verso “un verde viottolo solitario”, il viottolo di Emily Brontë che porta in aperta brughiera […] Tutta la poesia, la passione e la gioia loro è là, in questo luogo di tragedia visibile e palpabile, angusto come lo è la fossa e sconfinato.5

Confine e fuga: quel binomio sulla cui base viene allestita la scena iniziale, e che diventa principio ordinatore dei fatti della vita nella biografia delle Brontë, diventa esordio roman-zesco in The Three Sisters, ritorno modernista a un luogo scar-no ma dalla doppia geografia, visibile e invisibile, diventa possibilità di creare luoghi e personaggi dal peso alleggerito:

A nord-est, in fondo alla strada che dalla brughiera digrada a valle, lì è Garth, un paesino della regione di Garthdale. Si rannicchia lì, celato da una curvatura della valle che lo av-volge completamente, tra porte sbarrate a sud e a occidente […] La pietra dei tetti e delle mura è nuda e annerita dal vento e dalla pioggia come se fosse passata attraverso il fuoco:

5 May Sinclair, Le tre Brontë (cura e traduzione di Maria Del Sapio Garbero), Napoli, Liguori, 2000, p. 21.

Confini e passaggi nella scrittura di May Sinclair 175 le case posseggono il silenzio, l’oscurità e il mistero di ogni estremo avamposto. A nord, lì dove la strada maestra co-mincia a risalire, la canonica si staglia in tutta la sua solitu-dine.6

Come la pietra dal cui cuore tutto è stato sbozzato (case, chiesa, canonica, pietre tombali), il luogo non ha più nome. Annerito dagli elementi atmosferici, esso sembra essere passato attraverso il rito di combustione che lo fa reingoiare nel-l’oscurità materica di uno stato originario. Sì che la wilderness della brughiera verso cui tutto si approssima e sconfina diventa il limite in cui, per via di un oscuramento (o carbonizzazione) del tratto esteriore, il poco si affaccia sul troppo della sua alterità; quell’«even too much» con cui Gwenda, la donna innamorata della brughiera e della luna, riconosce il posto e lo fa proprio.

May Sinclair celebra così ciò che lei carpisce a Emily in particolare, quella pennellata essenziale per cui la topogra-fia sconfina nell’incommensurabile e che neppure Hardy, lei dice, l’unico che si possa avvicinare all’autrice di Wuthering Heights, è riuscito a eguagliare: «lui è costretto a lavorare di più, a metterci più pennellate per ottenere l’effetto vo-luto.»7 E May Sinclair stava certo pensando a quell’impres-sione possente della brughiera di Egdon Heath con cui un Hardy, attratto da Turner e dagli impressionisti, aveva dato inizio al suo Return of the Native (1878), un’‘impressione’ in cui Hardy aveva fuso molte brughiere, non ultima quella letterariamente segnata dall’erranza del Lear shakespeariano e di quei suoi compagni ‘vagabondi del buio’, facendone la

6 May Sinclair, Le tre sorelle (a cura di Maria Del Sapio Garbero, tr. it.

Francesca Galeotti), Firenze, Le Lettere, 2005, p. 5.

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condensazione del nucleo tragico del suo romanzo: non solo scena ma l’Altro agente, quasi un personaggio. Anche da Hardy, oltre che dalle Brontë, May aveva imparato a scor-gervi un ‘avamposto’, un luogo che Hardy nel primo capi-tolo del suo romanzo ci tiene a cogliere nel suo momento crepuscolare di transito verso il buio della notte, in quel glorioso momento di passaggio in cui il dorso scuro della brughiera si congiunge da titano all’indugiante linea chia-ra del firmamento. Echia-ra lì in quel momento che si capiva la brughiera. E lì, in quel notturno luogo solitario e in attesa, presago di tragedie, Hardy aveva posto a vagare la sua inquieta Eustacia, un personaggio regale, una divinità pa-gana al pari della brughiera – Artemide, Atena, Era, Cleopatra; un personaggio che si accorda con classica perfezione architettonica al luogo, che ne assorbe gli umori e la primi-tiva maestà, ma non un poeta capace di afferrarne il lin-guaggio e di vivere di quella atemporale e indomata bel-lezza. Eustacia, lei stessa indomata e insondabile, odia la brughiera ed è destinata a cozzare tragicamente contro un bordo che per lei è solo l’avamposto dell’Ade.

La lingua della brughiera nel romanzo di Hardy rimane dunque al narratore. In The Three Sisters di May Sinclair, essa passa dal narratore al personaggio. May la consegna a Gwenda, che da donna e da potenziale artista, vi trova la possibilità di dar corpo alla visione: un risarcimento, una salvezza, così come poi sarà pienamente in Mary Olivier: A Life (1918), l’autobiografico Künstlerroman della scrittrice.8 Perché, cos’è poi Garth (o Haworth), o la brughiera, per May Sinclair, se non emblema di una penuria, di una

pri-8 Su questo cfr. il mio L’assenza e la voce. Scena e intreccio della scrittura

in Christina Rossetti, May Sinclair, Christine Brooke-Rose, Napoli, Liguori,

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vazione di vita, un confine, su cui la donna primonovecentesca dovrà imparare a far leva per ribaltarla in ricchezza? Di quella dieta, «una dieta da fame», un «appannaggio mini-mo» (aveva detto May Sinclair delle Brontë), si alimentano, con accomodamenti, trascendenze e nevrosi, i nervi moder-ni delle tre sorelle: Mary, Gwenda, Alice.

Piuttosto inadempiente sul piano dell’ingombrante vittoriano senso della verosimiglianza, la scrittura in The Three Sisters, si prende tutto il tempo per dire la verità sul soggettivo rapporto che il corpo e la coscienza intrattengo-no con la vita. Dilata e condensa come vuole il tempo e lo spazio. May Sinclair vi allestisce lo scenario di una trama parentale dominata dalla figura del padre, nella cui ombra maturano i domestici appagamenti di Mary, la nevrotica malattia di Alice, le sublimazioni di Gwenda: una trama tessuta con i materiali ‘illuminanti’ del simbolo. E penso giovi alla comprensione della speciale stratificazione lin-guistica del romanzo riprendere le pagine di “Clinical Lecture on Symbolism and Sublimation”. Vi si trova espressa la lucida convinzione che la creazione artistica, e dunque il testo letterario, così come l’attività onirica analizzata da Freud e Jung, ha come suo materiale il simbolo, e che il simbolo, ‘evocativo’ e orfico nella sua natura, è il ponte attraverso cui ciò che è represso e celato ascende (trova un passaggio) verso la luce della parola.

In The Three Sisters sarà Gwenda a vedere la luce, con superbia forse, una superbia da artista come quella della protagonista di The Flaw in the Crystal, ma non per questo ‘espungendo’ la paura e il dolore, la consapevolezza di

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 158-175)