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Donne migranti, ovvero frugare fra i ritagli

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 144-158)

Nei molti week-end trascorsi con Maria e Marcello nella spaziosa e accogliente casa immersa nel verde di Senigallia, momenti di spensie-rata socialità si intrecciavano a un girovagare curioso ora per paesini e paesotti dei dintorni ora tra golose rivendite di scarpe, borse e ma-glierie disseminate nella campagna dal fiorente sommerso marchigiano. Ma c’erano anche le mattinate operose in cui ci si armava, Maria ed io, di carta e penna, più tardi di un PC portatile e si ragionava scrivendo su progetti comuni.

Ci si vedeva più spesso, a volte quasi ogni giorno, a Roma e a Napoli, ma quelle poche ore di concentrazione – con l’amatissima cagna Greta che si aggirava silenziosa per le stanze – avevano un ineguagliato sapore di intimità e di pensoso raccoglimento. Con quest’animo avevamo curato assieme il volume Viaggi di donne, sistemando il lavoro delle colleghe che vi avevano scritto e conversando degli studi, le curiosità, le passioni l’una dell’altra, in una reciproca scoperta di territori appartati.

Il viaggio, nelle sue molte accezioni, era una delle cifre esistenziali di Maria, e il suo interesse per i miei vagabondaggi sull’emigrazione mi ha accompagnato nel tratto in cui le nostre vite si sono incrociate. E inseguire le donne, stanarle e render loro la giustizia dell’esserci, del fare e del pensare era un altro dei nostri rovelli e delle ragioni dello stare insieme.

Il pezzo che le dedico qui forse le sarebbe piaciuto, e comunque l’avrebbe letto. Mi mancano le sue domande.

Potrei presentare questo breve contributo come la costola inedita di una ricerca di ampio respiro, pubblicata qualche

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tempo fa e dedicata all’impiego delle rimesse, cioè dei ri-sparmi in denaro spediti in patria dagli italiani durante e dopo il primo grande ciclo migratorio (1880-1920).1 Poiché le partenze si contarono a milioni e in molti avevano inten-zione di tornare, la massa di valuta pregiata – soprattutto dollari – che finì nelle banche e negli uffici postali per essere poi convertita in moneta corrente, ebbe una portata affatto spettacolare, «un fiume d’oro» è stata definita senza alcuna enfasi retorica. È infatti un dato ormai acquisito che le ri-messe abbiano contribuito a finanziare l’industrializzazio-ne italiana protonovecentesca. La riconosciuta importanza di questo fenomeno ne ha però limitato lo studio a ricogni-zioni macroeconomiche di carattere generale. Ricostruire gli scopi a cui questi risparmi venivano destinati è stato invece l’obbiettivo che mi sono prefissa.

Le uniche fonti utili per attingere informazioni di questo tipo – gli atti notarili – offrono un duplice vantaggio: do-cumentano l’incidenza delle rimesse nelle transazioni eco-nomiche, la composizione dei nuclei familiari interessati e fotografano in un momento ‘x’ la residenza effettiva dei loro componenti.2 Ne consegue la possibilità di gettare uno sguardo assai ravvicinato sulla vicenda migratoria e, spe-cie nei casi più fortunati, allorché i medesimi soggetti riappaiono più volte a distanza di tempo, ripercorrerne la storia di vita. In via certo approssimativa, ma molto al di là di quanto non dicano i dati aggregati più accessibili.

1 Andreina De Clementi, “Dove finiscono le rimesse. I guadagni

del-l’emigrazione in una comunità irpina”, in Donne e Uomini nei processi

migratori in età moderna e contemporanea (a cura di Angiolina Arru e

Fran-co Ramella), Roma, Donzelli, 2003, pp. 294-338.

2 La ricerca di cui alla nota precedente si fonda sullo spoglio di un

migliaio di atti notarili conservati presso l’Archivio Notarile Distrettuale di Avellino.

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Inutile dire che un approccio del genere non può che guardare a una singola comunità. Nel nostro caso, la scelta è caduta su Guardia Lombardi, un centro dell’Alta Irpinia tormentato dall’emigrazione e che nel periodo in questione contava circa 4000 abitanti, ora più ora meno.

Occorre premettere che la mobilità del paese in questio-ne era affatto conforme al modello migratorio binario, pre-valente nel Meridione, l’emigrazione permanente era cioè pari a quella temporanea, ma mentre nella prima uomini e donne erano altrettanto rappresentati, l’altra costituiva una prerogativa schiettamente maschile. Pur restando questo dato impregiudicato, cercherò di introdurre alcuni esempi di mobilità femminile temporanea.

Una grossa differenza distanziava di primo acchito quest’ul-tima dalla temporaneità maschile: gli uomini intenzionati a tornare partivano in genere da soli, i coniugati lasciavano in patria le mogli anche per lunghi periodi. Viceversa, le donne adulte espatriavano assieme al marito oppure lo raggiungevano in un secondo momento.

In questa sede, userò i rogiti notarili per collegare l’im-piego delle rimesse ai cicli di vita degli emigranti, con particolare riferimento alla mobilità femminile.

Minoranza in termini assoluti, le donne emigrate lo erano ancor più sul mercato della terra, su cui si riversarono in questi decenni, a valanga, i risparmi americani.

Marginali, ma non del tutto assenti. E gli 87 casi che le vedono all’opera in qualità di compratrici o venditrici pos-sono aggiungere ulteriori elementi utili alla conoscenza delle intersezioni del fenomeno migratorio con le dinamiche comunitarie.

Gli acquisti sono solo dieci e realizzati per metà all’in-terno della cerchia familiare. Le sorelle Lisena, Carmela,

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Gelsomina e Raffaela, tutte coniugate e residenti a Newark, comprano dal cugino Felice il dominio diretto e la rendita annua di un fondo di cui già dispongono come utiliste in S. Angelo dei Lombardi;3 Maria Rossi, moglie di Salvatore Santoli, compra nel 1912 dal suocero Vito il dominio utile di un terreno enfiteutico, la vedovanza non la indurrà ad abbandonare Scranton,4 ma a rivendere lo stesso terreno, nel 1938, a un altro Vito Santoli; Carmela Iuni compra dal suocero Generoso Compierchio una casa di un vano con mobili e orto;5 Anna Mannetti nel 1909 compra anche lei una casa da Giuseppe Fischetti.

Tutte queste donne vivono in America col marito, ma le loro mosse appaiono affatto individuali. Il fatto poi che al-cuni venditori appartengano alla famiglia maritale lascia supporre una surroga alla tendenza maschile a soccorrere i parenti rimasti in patria – in genere il padre o la madre – acquistando beni che altrimenti migrerebbero verso altri lignaggi. Questa sembra l’intenzione dei coniugi Michele e Filomena Gialanella che, nel 1917, si annettono un terreno della madre della donna. O dei fratelli Antonio e Clementina De Biasi, che comprano in comune dagli zii tre terreni nel 1908 e li rivendono nel 1920, una volta superata l’emergenza.

Ma la vicenda più emblematica vede protagonista Maria Grazia Masucci. Costei ha trascorso col marito Francesco Morano alcuni anni negli USA, da dove rientrano entrambi nel 1900. Si direbbe però che la donna abbia avuto miglior fortuna, e per più di un motivo. Francesco non ha ancora

3 Archivio Notarile Distrettuale di Avellino, notaio Santoli, 16.8.1920,

dep. 5.11.1920.

4 Centro minerario situato in Pennsylvania, assieme a New York meta

principale dell’emigrazione guardiese.

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messo piede in paese che già pensa a ripartire, un chiaro segnale di insoddisfazione sulla riuscita del soggiorno estero. Ma non dispone del denaro necessario e, per procurarselo, vende alla moglie, per 400 lire, una casa rustica e un pic-colo terreno di poco più di 20 are, «non volendo – fa met-tere per iscritto – che detta sua proprietà a vendere, vada in mani estranee», mentre la donna, dal canto suo, dichiara di comprare «con denaro suo raggranellato in America».6

Da quel momento i destini dei due coniugi si separano: Francesco riparte subito e la moglie resta in paese. Ma non ha ancora dato fondo al suo cospicuo gruzzolo; investe infatti, poco dopo, ben 2.000 lire in un orto iemale e una casa re-cente di quattro vani su due piani per sé e per la madre, pur essendo il padre in vita.7 Si direbbe che in questo modo abbia ritenuto di assicurare a entrambe un patrimonio più solido di sottaciuti cespiti del padre e delle aleatorie rimes-se del marito. Il quale si rifà vivo nelle carte del notaio a parecchi anni di distanza, quando spedisce dall’America nel 1922 2.500 lire da versare in dote, tramite la moglie, alla figlia Filomena, prossima al matrimonio. Il soggiorno americano sembra aver dato finalmente qualche frutto an-che a lui, ma Maria Grazia non si è allontanata dal paese. Senza tradire la cautela d’obbligo in presenza di dati così scarni, possiamo provare ad avventurarci in qualche dedu-zione iniziale, da sottoporre a ulteriori verifiche. Colpisce in primo luogo l’autonomia finanziaria delle donne e, connes-sa a questa, la separazione netta delle risorse dei coniugi. Le donne comprano per sé e con risorse proprie; addirittura, come vediamo fare a Maria Grazia, non provvedono solo a se stesse né si sottraggono a forme di solidarietà maritale.

6 ANDA, notaio Leone, 13.3.1900.

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Se è vero, comunque, che gli acquisti sono resi possibili dal denaro guadagnato in America, occorre interrogarsi sulla loro rarità. Se ne deve dedurre che solo una minima parte delle emigrate svolgesse oltre oceano un lavoro extradomestico? Nulla di tutto ciò. Le numerose inchieste sociologiche dell’epo-ca dicono esattamente il contrario. Le donne italiane, spe-cie a New York, erano molto rappresentate nel lavoro a domicilio ed eccellevano nella gestione delle cosiddette boarding-houses,8 mentre nei centri minori cresciuti attorno alle attività minerarie, meta privilegiata dell’emigrazione guardiese, le occasioni per racimolare qualche dollaro era-no le più disparate.9

Possiamo allora avanzare alcune congetture: a. che la stragrande maggioranza delle coniugate considerasse defi-nitivo il trapianto americano, e quindi non fosse interessa-ta a investire in Iinteressa-talia i propri risparmi; b. che la progetinteressa-ta- progetta-zione economica dell’eventuale rimpatrio, e cioè l’introito di proprietà in vista di una qualche agiatezza, venisse fatta rientrare nei doveri maritali; c. che le donne preferissero muoversi nel circuito del denaro anziché in quello della terra.

La generalizzabilità di queste ipotesi segue un ordine decrescente. E del resto la quasi universalità delle donne partiva per sempre. Quello che mi interessa indagare è, per l’appunto, il ‘quasi’, riconoscibile nell’ipotesi c.

A suffragarla, almeno tre casi. Filomena Lisena si trova in America col marito, il quale muore nell’agosto 1908. Senza

8 Sorta di pensioni di infimo ordine frequentate da compaesani senza

famiglia.

9 Sul lavoro delle immigrate italiane negli USA, Andreina De Clementi,

“Madri e figlie nell’emigrazione americana”, in Il lavoro delle donne (a cura di Angela Groppi), Bari, Laterza, 1996, pp. 421-444.

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por tempo in mezzo, appena un mese dopo, la vedova spedisce 2.000 lire al cognato perché le custodisca in Guardia. Non risulta nessun problema successorio, il denaro appartiene quindi alla donna. La quale, in conseguenza di questo de-cesso, deve aver cambiato i suoi programmi; infatti, la spedizione del denaro non fa che precedere il rientro in paese, dove si riappropria delle 2.000 lire, contrae un se-condo matrimonio e rivende al cognato la propria quota dell’eredità del primo marito.10

4.000 lire spediscono dall’America a un compaesano Concetta Frascione e Filomena Pennacchio, a titolo di de-posito gratuito. Naturalmente, l’invio di somme di denaro a se stessi non era certo una specialità femminile, ma, in termini relativi, appare più frequente tra le donne. E costi-tuiva l’ovvia premessa al rientro.

Ultima Abigailla Di Pietro – nome che allude già a tra-scorsi familiari americani. Nel 1927 la donna presta al co-gnato 8.000 lire che questi le restituirà alla scadenza, quan-do, cinque anni dopo, l’altra sarà ripartita.11

Se cerchiamo una spiegazione alla maggiore dimestichezza femminile col denaro, potremmo risalire al controverso rapporto con i beni immobili, e più ancora con la terra. Al riguardo, le clausole dei contratti matrimoniali facevano una netta distinzione: alle donne l’onere della dote, all’uo-mo terra e casa. Ma anche un altro rilevante canale d’ac-cesso alla proprietà, la successione, era per loro quantomai accidentato. I guardiesi si mostravano infatti assai restii alla devoluzione egualitaria, resa obbligatoria dal Codice Piemontese ma solo in caso di morte ab intestato12 e, pur di

10 ANDA, notaio Leone, 5.10.1909.

11 ANDA, notaio Santoli, 7.1.1927 e 12.9.1932.

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garantirsi la facoltà di favorire gli eredi maschi, il testa-mento veniva depositato con grande anticipo sulle previ-sioni del proprio decesso. Alle donne toccava così ben poco. Le morti ab intestato, che mettevano maschi e femmine su un piede di parità, erano rarissime.

Non potendo fare di meglio, queste ultime tendevano a monetizzare i loro possessi, spesso piccole frazioni, quasi indistinguibili, e perciò inutilizzabili, di fondi di poche are. Le carte notarili restituiscono 63 vendite in tutto, ma sarà bene separare dalle altre le cessioni di diritti successo-ri (38), che gli eredi tendevano a redistsuccesso-ribuire tra loro stes-si. Fedeli a un’idea di solidarietà familiare che concepiva il sostegno economico in termini di scambio – denaro contro ‘roba’ – i maschi ‘americani’, per definizione più provvisti di liquidità, versavano alle sorelle piccole somme di qual-che sollievo e consentivano a se stessi di ricomporre, del tutto o in parte, i frammenti del puzzle escogitato dal pro-prietario defunto. Secondo usanze successorie violentemente stigmatizzate dagli intellettuali meridionalisti dell’epoca.

Le donne sceglievano i loro acquirenti al di fuori dello stato coniugale. La famiglia maritale, coniuge compreso, ne erano esclusi. Le controparti naturali non erano comun-que solo i fratelli: lo sono in 18 casi, cui vanno aggiunti, tra quelli identificabili, uno zio e un nipote entrambi paterni, e quindi iscritti nella genealogia patrilineare.

Ma di altrettanto interesse sono i casi residui, in cui i diritti ereditari prendono altre strade. Due vedove, Mariantonia Iuni, nel 1912 da Niagara Falls, e Filomena Lisena, in cui ci siamo già imbattuti, vendono l’eredità del proprio marito.

metà del proprio patrimonio tra tutti i figli, maschi e femmine, in parti uguali (quota legittima) e trasmettere l’altra metà a sua totale discrezio-ne (quota disponibile).

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Nessuna delle due manca di fratelli, ma entrambe cedono ai rispettivi cognati immobili di un certo valore – la prima una casa rurale e tre terreni seminatori valutati 1.000 lire e l’altra beni per 2.000 lire – che restituiscono in tal modo al lignaggio maritale

Dunque tutti i casi, finora esaminati, di vendita dei di-ritti ereditari femminili possono essere ricondotti a un unico criterio ispiratore, la premura di non interrompere il lega-me proprietà-lignaggio.

Lo dimostrano anche, a contrario, le occasioni in cui le eredità paterne non venivano ricomposte e le quote femmi-nili scorporate: spunta regolarmente fuori l’indisponibilità oppure l’inesistenza stessa di fratelli.

Le sorelle Magnotta, Giuseppina e Maria Grazia, entrambe residenti a Scranton con i rispettivi mariti, probabilmente consapevoli di apprestarsi a concludere lì la loro esistenza, si risolvono nel 1935 a disfarsi dell’eredità del padre, mor-to nel 1910. I diritti di loro spettanza non sono granché, visto che raggiungono appena le 2.000 lire. Il compratore è il secondo marito della madre, lo stesso a cui, in quell’an-no, un fratello delle donne, Antonio, residente a Dunmore con la moglie, vende un terreno seminatorio per 3.000 lire, dopo essersi sbarazzato tempo prima di una casa di due vani ricevuta dal padre. Dell’altro fratello Alessandro sap-piamo soltanto che risiede anche lui a Scranton. Si direbbe quindi che i Magnotta, femmine e maschi, abbiano matura-to la convinzione che un rimatura-torno in Italia non sia più all’or-dine del giorno – ma ce n’è voluto, se tra la morte del padre e questa decisione passano all’incirca venticinque anni – che stiano perciò procedendo allo smaltimento dei beni guardiesi e che quindi nessuno dei fratelli possa avere in-teresse a comprarne.

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In un frangente analogo troviamo impegnate le sorelle Forgione, Angela, Felicita e Filomena. Le ultime due vivo-no con i rispettivi mariti a Clyde, N.Y., dove abita anche l’unico fratello Lorenzo. Di comune accordo i quattro si risolvono a vendere l’eredità paterna a cui quindi Lorenzo non può aspirare.13

Occorre anche mettere nel conto che fratelli non ce ne fossero proprio, o fossero premorti. Delle quattro sorelle Santoli – Isabella, Maria, Anna e Angiolina – solo Anna non si è mossa da Guardia, mentre il padre è deceduto in America nel 1906, quando Angiolina aveva solo otto anni. Le donne, tutte accasate, si liberano poco a poco, nel 1924-26, delle eredità del padre e del nonno. Su qualche sempli-ce compaesano ha la meglio uno zio paterno, e due delle tre dismissioni rifluiscono così nel ramo maschile.

Quando viceversa non di successione si trattava, ma di beni posseduti ad altro titolo, il vincolo del lignaggio per-deva ogni valore. Su 25 vendite in totale, solo tre coinvol-gono un fratello, due un nipote e altre due, rispettivamen-te, un cognato e uno zio.

Ricapitolando, a differenza di quanto assodato per gli uomini, le vendite femminili superavano di molto gli ac-quisti.14 Vale a dire che la liquidazione, parziale o totale, dei beni soverchiava le strategie acquisitive. Rimesse fem-minili, insomma, spedite in paese per evitare un esproprio, pagare un debito o convertirle in un immobile, ce ne erano ben poche. In termini sintetici, potremmo raggruppare le transazioni maschili nella formula D-M, quelle femminili in M-D.

13 ANDA, notaio Leone, 18.6.1911.

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Per tornare alla mobilità, l’espatrio femminile, si è det-to, segnalava in linea di massima il trapianto americano di un nucleo familiare. La temporaneità secca si addiceva solo alla mascolinità.

Queste regole celavano anche le loro eccezioni: a. ben-ché partiti insieme, i coniugi non avevano affatto rinuncia-to a rinuncia-tornare; b. rivedevano il loro progetrinuncia-to originario, op-pure c. le mogli rompevano la solitudine guardiese con qualche scampolo di vita coniugale americana, come suggeriscono le non rare nascite americane senza trapianto familiare o, infine, d. sia la moglie che il marito si concedevano a vi-cenda soggiorni più o meno brevi in paese.

Insomma, la comunità d’origine continuò a lungo a rap-presentare il polo magnetico degli interessi e del rimugina-re della popolazione mobile; in pratica, nessuna decisione era mai irreversibile e l’emigrazione assumeva il suo con-notato definitivo soltanto al termine del ciclo di vita.

Di questa fluidità recano tracce certe le carte notarili, dove uomini e donne da tempo lontani figurano presenti in carne e ossa, in veste di testimoni, eredi, venditori, compratori.

In effetti, cessioni, acquisti e qualsiasi altro contratto relativo a beni immobili andavano stipulati in loco e se uno dei due contraenti risiedeva in Guardia e l’altro all’estero quest’ul-timo doveva farsi rappresentare da un emissario di sua fiducia; se, viceversa, i soggetti potevano incontrarsi altrove, il contratto andava comunque depositato nel sito dei beni. In entrambi i casi, poiché, per esperienza comune, gli stessi consangui-nei, padre e fratelli inclusi, non mancavano di riservare brutte sorprese, l’esecutrice più fedele delle volontà del-l’assente era la moglie. Ma, contro ogni aspettativa, in questa veste compariva anche il marito.

I coniugi Giordano, Angelo e Antonina, discendenti da famiglie un tempo assai benestanti, si erano trasferiti nel

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Michigan e, a quanto pare, non avevano rinunciato all’idea del rientro perché si prodigavano in acquisti. Angelo co-mincia con l’assicurarsi nel 1923 la terza parte di una casa di due vani per 3.500 lire e ne incarica il padre; svariati anni dopo, le fortune dei Giordano appaiono in ascesa, i due comprano separatamente, nel 1938, dai fratelli di lei, uno solo dei quali in Usa, oltre 11 ettari di terreno, per 10.000 lire. Nulla di insolito, se non fosse che a varcare la soglia dello studio notarile guardiese è proprio Angelo. La moglie gli ha firmato una procura in Detroit e non si è mossa dalla loro residenza di Pontiac.

Francesco e Isabella D’Ambrosio gareggiano in mobilità. Francesco parte verso il 1925 alla volta di Scranton e acqui-sta lì stesso i diritti ereditari di alcuni compaesani. Il suo

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