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Elizabeth Bowen, molto tempo fa Un ringraziamento e un omaggio, per cominciare

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 92-101)

Il ringraziamento va a Simonetta de Filippis, per la gene-rosità e l’intelligenza che ha messo nel pensare e organizzare questa giornata in ricordo della nostra straordinaria amica.

L’omaggio va a Napoli: questa città, approdo di Maria in anni difficili, moltissimo tempo prima mi aveva lasciato addosso un segno molto forte, indelebile. Ho avuto la for-tuna di vivere qui negli anni del ginnasio e del liceo, pro-venendo da tutt’altro scenario, una famiglia toscana da generazioni. L’impatto fortissimo si trasformò in un rito di passaggio faticoso ma felice, sufficiente a fare sì che io mi considerassi, da quel momento in poi, figlia adottiva di Napoli e che sentissi nei confronti di essa un debito di gratitudine per avermi – molto semplicemente – insegnato a vivere e a guardare il mondo con occhi diversi. Questa città è stata un altro raccordo prezioso e sorprendente nel dialogo fra me e Maria. Innumerevoli volte, nel corso degli anni, capitava che mi parlasse del senso di sorpresa nella scoperta di questa città antica e speciale, osservata con quello spirito curioso e generoso che le apparteneva così tanto. Quanto profondo e mai banale sia stato il suo sguardo sulla cultura e la civiltà di Napoli ci viene oggi rivelato nelle pagine finali del piccolo volume postumo Accompagnarti.

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Sarebbe stato bello se avesse potuto scrivere ancora di questo suo apprendistato.

Quel certo modo di raccontarmi le sue avventure in un territorio sconosciuto risuonava in me come qualcosa di già noto, mi diceva di un complicato itinerario intellettuale e sentimentale – quello dell’approccio a Napoli – che ripercorrevo grazie ai suoi occhi, mi rivelavano insomma una linea di pensiero che correva parallela alla mia, resa più intensa da quella ‘convergenza degli sguardi’ profon-dissima e ‘familiare’, ereditata dalla generazione preceden-te (sua madre e mio padre erano cugini, e cresciuti insieme in anni felici e difficili) e capace di segnare in modo molto particolare, sotto traccia, la nostra amicizia.

Napoli dunque, e idealmente al suo centro questa Uni-versità che le ha dato così tanto e che lei ha ricambiato con uguale generosità. Nonostante la malattia, che centuplicava la fatica del pendolare, gli anni di Napoli hanno visto esplodere la straordinaria intelligenza critica di Maria, ne hanno af-finato la curiosità, moltiplicato gli interessi e la voglia – forse proprio la necessità – di lasciare un segno. Più che testimone, l’Orientale è stato il catalizzatore di questa ‘energia’ – parola chiave, mi sono sempre detta, per comprendere la nostra amica e il segreto della sua forza. Di tutto ciò Maria è sempre stata consapevole, continuando a nutrire, dopo il suo ritorno a Roma, una grandissima nostalgia di questa università e del mondo di affetti, progetti, sinergie che si era lasciata alle spalle: del piacere di lavorare insieme che è un dono sempre più raro, se non definitivamente perdu-to, nel nostro mondo accademico.

Vorrei che lo sapeste bene, il debito fortissimo che Maria ha sempre sentito per voi di Napoli. Moltissimo ha ricevu-to, moltissimo ha dato.

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E vorrei ora tornare indietro di parecchi anni, e fermarmi sul momento in cui l’amicizia con Maria diventò anche un momento di collaborazione critica. Era il 1984-85. Tengo molto al ricordo di quel periodo e lo consegno a queste pagine perché mi sembra un momento importante della biografia intellettuale di Maria Stella. Accadde che entram-be, per vie del tutto autonome e con la dote di cui ci van-tavamo spesso insieme, e cioè ‘il fiuto’, ovvero la necessità di rivedere a modo nostro il canone e di riflettere sulla marginalità o banalizzazione di alcune figure letterarie, scoprissimo i racconti e i romanzi di Elizabeth Bowen. Avevamo già cominciato a lavorare – scrivendo lei su Henry Green ed io su Ivy Compton-Burnett – intorno a un certo filone della narrativa novecentesca: il percorso di indagine comu-ne era chiaro e si rendeva sempre più evidente comu-nel corso delle nostre lunghe conversazioni. Bowen era stata dimen-ticata e sopravviveva alquanto polverosamente, come spes-so nel sistema letterario inglese, sugli scaffali delle biblio-teche e nella menzione distratta, concentrata in poche ri-ghe, delle storie letterarie. In Italia, con l’eccezione di un illuminante articolo di Giorgio Melchiori del 1955 e di un paio di contributi di Sonia Bertolotti, era passata del tutto inosservata. Maria ed io avevamo, indipendentemente l’una dall’altra, cominciato a leggerla, rimanendo incantate da quella sua scrittura inconfondibile e capace di trasformarsi acquistando spessore e astrattezza al tempo stesso; dal suo aver attraversato, e aver contribuito a definire, almeno tre momenti cruciali del Novecento letterario, intellettuale e sociale; dal suo essere stata protagonista di una complessa stagione post-woolfiana, e tanto ancora. Molti dei problemi della narrativa novecentesca, che in quel momento prende-vano forma nella figura di Elizabeth Bowen, stanno all’ori-gine di quella analisi della raffigurazione del femminile

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che negli anni successivi impegnò tanto l’energia, la curio-sità e la ricerca di Maria. Ripensando più tardi a quel no-stro primo lavoro comune mi sono detta che quella scrittri-ce in penombra era, agli occhi di Maria Stella, una sorta di paradigma lungo cui si andavano declinando tanti percorsi critici che l’avrebbero impegnata negli anni a venire: la necessità di una revisione del canone per la narrativa degli anni Venti-Quaranta; la doppia identità anglo-irlandese; «le funzioni e disfunzioni dell’immaginario», come lei le defi-niva; la attenzione costante ai registri stilistici; il grande interesse nei confronti della short story, forma preziosa e contaminata, luogo di sperimentazioni tematiche e formali su cui avevamo dialogato a lungo insieme nel corso degli anni. Molto tempo dopo fu anche per questo che dedicai a Maria una mia piccola introduzione a un racconto di Elizabeth Gaskell, ‘invadendo’ il territorio entro cui ci aveva guidato tempo prima Marisa Sestito. L’avevo letto, quel racconto, con gli occhi di Maria, già malatissima.

Ci mettemmo al lavoro. Avevamo voglia di guardarla con più attenzione, questa Bowen, e attraverso la sua scrittura provare a ripercorrere un tragitto complesso, capace di segnare almeno tre decenni di intensa sperimentazione e rielaborazione tematica e formale, nel contesto di un sistema culturale e intellettuale inglese in continua trasformazione.

Fu un lavoro felice. Eravamo spesso insieme, preparan-doci con molto impegno al concorso di associato. La mia vita era molto più disordinata e centrifuga della sua e così finiva che ero io ad andare a Via Montezebio. Lo facevo volentieri, sedotta da quell’ordine rigoroso e felice, dalla serenità – di nuovo rigorosa – che Maria metteva in tutte le cose. Tornava da scuola una piccolissima e imbronciata Anna, tornava Matteo. Ogni tanto compariva Mila: vigile, severa,

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affettuosa. La sera arrivava Marcello e questo significava fine del lavoro: una sigaretta, un bicchiere di vino.

Fu un periodo felice. E così sempre Maria lo ricordava. Trovammo – a dire il vero fu Maria che lo trovò – un edi-tore anzi una editrice che decise di scommettere su questa avventura: dopo aver selezionato insieme i racconti, im-presa non facile vista la gamma molto ampia di temi, modalità di scrittura, forma narrativa, ci spartimmo i compiti. I titoli che demmo alle due sezioni in cui fu divisa la raccolta sono già indicativi di come ci stessimo muovendo su un terreno comune di indagine, e anche con strumenti molto simili: “Ritratti in un interno” fu il titolo che detti alla mia introduzione; “Territorio di guerra” fu la sua scelta. Da queste sue pagine vorrei riportare qui un frammento che bene il-lumina il procedimento critico di Maria e il suo stile di scrittura:

Se la short story era stata da lei definita di volta in volta, rispetto al romanzo come «acuta pressante impressione», come «crisi», come «flash», come «domanda posta», come «possessione ad opera di un’unica scena, episodio o volto isolato», il suo potenziale suggestivo e irrazionale – ora drammatico («a trance-like spectacle») ora poetico («the amazement of poetry»), sempre comunque disgregativo di ogni narrazione lineare e «a combustione lenta» – sarà come evidenziato dall’esser posto contro questo fondale di guerra. La serie di choc, ca-tastrofi, crolli e piccole guerre personali che ognuno di que-sti racconti registra diventa così, più che contenuto riflesso dal reale all’immaginario, forma che riflette su se stessa: sui propri tratti costitutivi come sui propri vuoti destrutturanti, sulle proprie capacità etico-connettive (il forsteriano «only connect») come sulla propria frammentazione. È, quello della Bowen, un racconto che sempre più – fino ai limiti di quel

silenzio che sapientemente incorpora in sé come resistenza

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contemporanea del raccontare. (E per quanti autori – da V. Woolf a D. Thomas a J. Cary – questi saranno gli anni dell’im-possibilità del dire, del ripiegamento nella dimensione auto-biografica, nella lontana memoria personale?). Affrontando di petto la superficie della guerra, descrivendola con la sua complessa arte di «visual writer» fino a farne un paesaggio

con figure ricco di echi pittorici e grafici contemporanei, la

Bowen compie in realtà un’indagine radicale nel profondo della propria scrittura, definendone l’atto stesso come do-manda inquietante sulla funzione-disfunzione dell’immagina-rio in un sociale devastato.1

Questo nucleo originario di riflessioni proseguì poi nel lavoro successivo su Elizabeth Bowen dedicato da Maria a The House in Paris, romanzo del 1935 che chiude la pri-ma e importante fase della ricerca narrativa di questa scrit-trice. Nella sua prefazione Maria metteva in luce un per-corso singolare, che partendo dalla riscrittura del Voyage Out woolfiano arrivava altrove, allontanandosi dal mo-dello originario «per percorrere non già le strade dell’ap-profondimento psicologico, dello scavo nel flusso della coscienza […] quanto piuttosto per imboccare i più ester-ni, realistici intrecci di un “tema internazionale” alla Henry James», e poi vedeva con molta chiarezza come Bowen rielaborasse entrambe queste ombre necessarie e ingom-branti:

Ma la lucida memoria di entrambe quelle scritture moderniste in Elizabeth Bowen si fa subito, consapevolmente, distanza, abbassamento: come era già avvenuto per le prime short stories nel drammatico confronto con quelle,

contempora-1 Maria Stella, “Territorio di guerra”, in Elizabeth Bowen, È morta Mabelle

(a cura di Benedetta Bini e Maria Stella), Verona, Essedue edizioni, 1986, pp. 107-108.

Elizabeth Bowen, molto tempo fa 103 nee, di Katherine Mansfield («e ora diranno che ho copiato da lei»), la scrittrice percepisce, paventa e infine, coraggio-samente, affronta il proprio destino di tardiva comparsa sulla scena del romanzo novecentesco. Spezzato ogni fluire del tempo, perduta ogni centralità della coscienza a se stessa, le profondità psicologiche sono, per Bowen, tutte alla superfi-cie, graffite sulla pelle dei personaggi, sui loro comporta-menti esterni, sullo smalto stilizzato e crudele dello scambio di battute.2

Elizabeth Bowen continuò a essere un punto di riferimen-to importante per Maria, che in seguiriferimen-to offrì al letriferimen-tore italia-no, con la consueta finezza, la sua analisi di un romanzo difficile e ambizioso come A World of Love, espressione del complicato intreccio di invenzioni e revisioni dei modelli narrativi tipici di quegli anni Cinquanta inglesi che ci ave-vano sempre affascinato. Ma la crucialità dell’origine irlan-dese di questa scrittrice non fu mai dimenticata da Maria. In uno dei suoi ultimi saggi fu proprio questa caratteristica a diventare oggetto autonomo di esplorazione, in cui il signi-ficato della appartenenza a due culture e due isole rivelava «la profonda integrazione tra i vari livelli di figurazione spaziale – storica, retorica e psicologica – maturata nella sua travagliata prospettiva di anglo-irlandese».3

Fu la tenacia, e ancora una volta, l’‘energia’ di Maria a voler ripensare una serie di temi, figure, prospettive storiche che hanno rappresentato il suo ultimo progetto:

2 Maria Stella, “Prefazione”, in Elizabeth Bowen, La casa a Parigi (a cura

di Maria Stella), Verona, Essedue, 1991, pp. 8-9.

3 Maria Stella, “Isole: spazi della narrativa in Elizabeth Bowen”, in Continente

Irlanda. Storie e scritture contemporanee (a cura di Carla De Petris e Maria

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quel convegno sulle Ex-centric Ladies cui Maria Stella te-neva moltissimo e in cui aveva coinvolto Carla De Petris e me stessa. Sarebbe stato il suo omaggio alla Facoltà di Lettere e al Dipartimento di Anglistica dove tornava dopo gli anni faticosi ma felici di Napoli: un modo di ripercor-rere, ampliare, arricchire una traiettoria la cui origine era stata proprio, molti anni prima, quel lavoro seminale su Elizabeth Bowen.4

Nello sgomento e nel dolore seguiti alla sua scomparsa nessuno ha voluto o potuto raccogliere questa indicazione preziosa.

Riferimenti

Elizabeth Bowen, È morta Mabelle, a cura di Benedetta Bini e Maria Stella, Verona, Essedue edizioni, 1986.

Elizabeth Bowen, La casa a Parigi, a cura di Maria Stella, Verona, Essedue edizioni, 1991.

Elizabeth Bowen, Un mondo d’amore, a cura di Maria Stella, Mi-lano, La Tartaruga, 1994.

Maria Stella, “Isole: spazi della narrativa in Elizabeth Bowen”, in

Continente Irlanda. Storie e scritture contemporanee, a cura di

Carla De Petris e Maria Stella, Roma, Carocci, 2002. Giorgio Melchiori, “Elizabeth Bowen”, Spettatore Italiano, VIII, 5

maggio 1955.

Sonia Bertolotti, “Elizabeth Bowen”, Letteratura Inglese - I

contem-poranei, a cura di Vito Amoruso e Francesco Binni, Roma,

Lucarini, 1977.

4 La proposta di Maria Stella è riportata nel “ricordo” di Carla De Petris

Elizabeth Bowen, molto tempo fa 105 Sonia Bertolotti, “Studi su Elizabeth Bowen”, Cultura, 15-1, 1977. Benedetta Bini, “Il gatto sulle ginocchia”, introduzione a Elizabeth

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 92-101)