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Invalidità della memoria Cara Maria,

ti scrivo questa lettera soprattutto per raccontarti come tu vivi dentro di me. Come tu ‘vivi’: e dunque come con-tinua a cambiare, dentro di me, la tua immagine. Il mio è un racconto senza conclusione, per forza di cose, ma credo che tu lo avresti amato, e soprattutto riordinato, con quella tua intelligenza serena che mi era tanto d’aiuto, mentre a me esso appare molto confuso, pur se urgente. Probabil-mente perché non finito. E ovviaProbabil-mente non ‘finibile’.

Dunque, all’inizio io non ‘sapevo veramente’ che tu non c’eri, all’altro capo del telefono. Più rapida del mio pensie-ro, l’abitudine mi anticipava, suggerendomi il gesto di sollevare il ricevitore per comporre il numero: da Roma o da Londra, o da dove mi capitava di trovarmi. Ma naturalmente que-sto avveniva in un tempo per me incalcolabile, meno che millesimale, perché nella quotidianità empirica, non anco-ra composta in abitudine, lo sapevo fin troppo bene che non ti avrei trovata dall’altra parte a rispondermi. Così tu ancora vivevi in me – come sempre accade tra persone vive – secondo due ritmi del tempo, e due memorie: quello in-volontario dell’abitudine, e quello in-volontario della coscienza e del ricordo. Già un po’ doloroso però quest’ultimo, per-ché tiranneggiato dal calendario. In effetti era già da

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che tempo che, pur senza dircelo esplicitamente, avevamo incominciato a sentire fra noi due il calendario. Ora però la cesura delle date era implacabile.

Per esempio: tu eri stata ultimamente nella mia casa di Londra, per un paio di settimane. L’avevi deciso all’im-provviso, da Senigallia, e io, che ero all’estero a mia volta, ti avevo spedito le chiavi e qualche sommaria istruzione per l’uso. Non potevamo andare tutt’e due, ma intanto tu avevi voluto approfittare di quei giorni liberi. Durante il tuo soggiorno lì, mi avevi comperato un ricordino: uno di quegli esemplari di bric-à-brac domestico che tanto amavi andare a scovare sulle bancarelle di cianfrusaglie. Ovvia-mente io poi, trovandolo alla mia successiva andata, l’ave-vo lasciato proprio dove l’avevi collocato tu, quel piccolo portadolci, perché mi piaceva l’idea che tu potessi pensar-mi il più possibile nel dettaglio, quando pensar-mi trovavo in quella casa che per troppo tempo non avevi conosciuto, e dove peraltro ci ripromettevamo di tornare assieme, non appena fosse stato possibile. Ma così non fu. Il tema delle case – della incessante revisione, anche solo ideale, degli spazi da noi abitati – era un filo continuo nei nostri discorsi. Tanto che tu – ma questo l’ho appreso solo ‘dopo’ – in una delle tue poesie volesti esprimere proprio il turbamento che ti procurò, in occasione di un mio cambiamento di casa, qui a Roma, il dovermi ricollocare su altro sfondo e tra altri gesti rispetto a quelli consueti.

Così, per un certo tempo, quel piccolo oggetto che avevi voluto donarmi, pur crudelmente mantenuto alla periferia del mio sguardo – giacché con una parte di me stessa lo sapevo, che in esso si celava un tranello, e che dunque era meglio evitarlo – conservò il potere di suscitare in me, quando mi trovavo a Londra, l’impulso di quella chiamata telefo-nica che non poteva più esserci. In questo senso dico che tu

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per me eri ancora viva. Che ancora abitavi i luoghi senza tempo dell’abitudine e della memoria involontaria, e con-servavi, quasi intatto, il potere di passarvi attraverso fuggevolmente, e quasi inespressivamente, secondo il regi-stro brutalmente fattuale della vita di tutti i giorni. Quel tuo passaggio si concludeva per me immancabilmente con uno scacco, è vero, ma ancora non avevo fatto l’abitudine a quello scacco.

Intanto il tempo passava, e un giorno – non so dire quale, né perché – mi ritrovai, nel mio riordinare e spolverare, ad aver riposto quel vassoietto dentro una piccola credenza, in compagnia di bicchierini da liquore e scatole di biscotti. Lì per lì non ci feci caso, ma ora so che fu proprio in quel momento che tu per me cambiasti stato: uscisti dal tempo del telefono e entrasti in quello del ricordo. Del ricordo, intendo, come memoria volontaria.

Quello agito dalla memoria volontaria è un tempo irre-ale, perché finito: lento, a volte addirittura lentissimo, esso appare regolabile e dettagliabile a piacere, come in una zoomata o un ralenti. Ma questa sua innegabile arrendevolezza al nostro desiderio è proprio ciò che lo derealizza, facendone un tempo in moviola, metastorico, appartenente alla sfera della vita riprodotta. Ora, è vero che noi viviamo in un’epoca di sempre più estesa e perfezionata riproducibilità tecnica della vita stessa, tuttavia è anche chiaro che proprio la familiarità con le ineliminabili, sofisticate tecnologie ripro-duttive ci conduce prima o poi a prendere atto del fatto che, sempre più integralmente, l’accendersi del ricordo – ovvero la sua ‘emozione’, come insegna quel Wordsworth che ti era caro – si distacca dal contenuto del ricordo stes-so, dal suo ‘narrato’, per andarsi a collocare sull’atto, o attimo, immediatamente precedente: quello in cui ‘decidia-mo’ di ricordare. Come sto facendo io in questo momento,

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mentre scrivo sul mio laptop. Ma si sa che la riproduzione è sempre in scacco rispetto alla vita. Nel ricordare, io mi proietto dentro la testa un mio piccolo film, che ha tutta l’aria della completezza, anche se io so che in realtà esso è inaffidabile, e lacunoso, se non addirittura guasto, almeno in qualche sua parte, la cui visione mi è ovviamente pre-clusa. Nonostante la sua apparenza dolce e consolante, il ricordo finisce dunque col dividermi da me stessa.

Ecco, io ora rispetto a te sono entrata nella fase di divi-sione da me stessa, quella in cui mi devo accontentare del ricordo volontario: finito, invalido e insufficiente com’è.

È da questa secca del tempo, allora, che ritorno col pen-siero a un’estate passata a Londra, una trentina di anni fa. Avevamo preso in affitto una casina – sempre le case! – a Hampstead, che affacciava proprio su Hampstead Heath, dalla parte del laghetto. Su quel verde non pettinato, unico a Londra. Una vera casina delle fate, dove ci raggiunsero alcune nostre colleghe, e care amiche: Benedetta, Nadia, Marisa … Due volte, all’andata e al ritorno per e da Stratford, passò di lì anche Agostino che, da noi invitato a cena, au-torevolmente rifiutò gli zucchini pagati a caro prezzo che gli avevamo preparato: la Londra dei primi anni ’70 non era quella della odierna, massificata gastronomia fusion. Lì per lì ci rimanemmo male, ma subito poi ci ridemmo tutti assieme, su quelle sue fisime alimentari. E la cena fu un successo. C’era anche mio figlio Claudio, bambino: tu non avevi ancora Matteo, e anzi una volta mi dicesti che pro-prio da quell’estate avevi desiderato un figlio, accorgendo-ti che la cosa non era poi così terribile.

Tutti i giorni, da Hampstead, muovevamo verso la British Library: un piccolo viaggio alla conquista del sapere. Tu traducevi Ted Hughes, un poeta che amavi, e io preparavo un corso su Jane Austen. Ma la vera scoperta di quelle

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settimane non furono i libri, bensì, più prosaicamente, le stoffe: i tessuti, anzi i ritagli, delle cotonine e dei velluti a coste finissime disegnati da Laura Ashley. Spentesi le luci un po’ troppo sgargianti di quella che era stata la swinging London degli anni ’60, nell’aria si respirava, in quel mo-mento, accanto a tanti altri fermenti, una specie di ritorno alla tradizione, anche nella moda dei giovani. Il marchio Laura Asheley stava proprio allora sperimentando la pos-sibilità di immettere la tradizione – il British heritage – nel consumo di massa di indumenti e arredamenti. E lo faceva con successo: tant’è vero che subito lo si vendette anche all’estero. Noi eravamo affascinate dalla semplicità, dalla facilità, e anche dalla relativa poca costosità, con cui ci sembrava di poter accedere a quel passato racchiuso nel design tessile, avendo quasi l’impressione di entrarci den-tro. Sicché ci tuffavamo con gioia nella fiction di una merry England appena trascorsa e ancora recuperabile. Ricordo che tu, non potendo resistere, ti comprasti anche un abito lungo: una specie di scamiciato color indaco, a piccoli fiori, che ti donava molto, bella, bruna e abbronzata com’eri. Ma il vero divertimento di quei giorni fu il patchwork. Diven-tammo subito esperte: era una gioia, la sera, accostare co-lori e geometrie, come in un caleidoscopio di pezza. Face-vamo le ore piccole chiacchierando e cucendo. Conservo ancora due copriletto, iniziati nella casa di Hampstead e completati poi a Roma.

A volte ci sentivamo persino un po’ in colpa per quel-l’impegno così poco accademico: infatti non erano ancora maturati – si stavano solo rapidamente avvicinando – i tempi in cui di ‘cultura materiale’ si sarebbe parlato dalle catte-dre universitarie. D’altra parte ci era impossibile ignorare quel forte richiamo del presente. Bisognava per forza ar-rendersi. Non sapevamo che anche, o forse proprio,

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ponendo quei disegni, noi entravamo – non senza sofferen-za, come è giusto – in un sapere del presente. Del nostro presente di allora. Né in seguito ce lo siamo mai detto, e me ne dispiace, che fu il patchwork la vera esperienza cono-scitiva di quella lontana estate.

Ma ora di questo non ti posso parlare se non con questa lettera che tu non leggi.

Con affetto,