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Verso il teatro romantico: ‘Intimations of change’ Temo che le mie riflessioni, dal taglio professionale e

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 114-129)

acca-demico, seguano un tracciato anomalo in questo clima di ricordi personali e di intense emozioni. Il loro senso è innanzitutto quello di un omaggio alla ricchezza e origina-lità della scrittura critica di Maria Stella, che – sono con-vinta – rappresenta un capitolo importante nella storia re-cente dell’anglistica italiana. Maria non ha fatto in tempo a ricevere il riconoscimento che le spettava come critico letterario e che sapeva di meritare, sia per la varietà degli argomenti da lei trattati, canonici e non, sia per la rottura che il suo punto di vista produceva sempre nel confronto con le letture ufficiali e le interpretazioni consolidate. Lo sguardo di Maria era sempre un altro sguardo, quello del poeta e della donna che vivevano in lei. Perciò le era natu-rale rispondere alla chiamata di Ted Hughes, di Thomas Hardy, dei romantici, sia con la pulsione a tradurne i ver-si, sia con la lucida e appassionata urgenza interpretativa.1

1 L’inno e l’enigma: saggio su Ted Hughes, Roma, Editrice Ianua, 1988;

Momenti di Visione. Identità poetica e forme della poesia in Thomas Hardy: ottanta liriche con testo a fronte, Milano, FrancoAngeli, 1992. Della poesia

romantica, avvicinata attraverso diversi autori, a me pare che l’analisi più estesa, ricca e feconda riguardi l’opera di Wordsworth (cfr. lo

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Ma la sua parte femminile tendeva a costruire nell’univer-so della critica uno spazio ibrido, aperto a figure e a temi ‘minori’: alle donne naturalmente e all’infanzia (l’intrec-cio è fortemente indagato nelle pagine dedicate a Emily Brontë);2 alla scrittura di viaggio al femminile;3 a culture, come quella irlandese, ferite dall’esperienza della subalternità;4 a scrittori e scrittrici idiosincratici segnati dalla pazzia (Mary Lamb).5 Un insieme che confluiva in un suo interesse ori-ginale per forme espressive brevi, per una prosa per lo più ritenuta di second’ordine come la saggistica, la diaristica e la short story, di cui scopriva invece il carattere sperimen-tale (da Mary Lamb a Elizabeth Bowen, fino al recente, splendido, studio sui racconti di Virgina Woolf).6

dio articolato in quattro saggi in Cultura e educazione, anno IX, nn. 1-4, 1996-97). Maria è tornata più volte su questi autori a lei cari, come te-stimonia la bibliografia dei suoi scritti nel presente volume.

2 “Il potere della parola in Emily Brontë”, in Annali-Anglistica, Napoli,

XXXVI, 1-3, 1993; “«Another clime, another sky»: spazi della poesia in Emily Brontë”, in Per una topografia dell’Altrove. Spazi altri

nell’immagina-rio letteranell’immagina-rio e culturale di lingua inglese (a cura di Maria Teresa Chialant

ed Eleonora Rao), Napoli, Liguori, 1995; “Emily Brontë: voci dalle Heights”, in Le poetesse romantiche inglesi. Tra identità e genere (a cura di Lilla Maria Crisafulli e Cecilia Pietropoli), Roma, Carocci, 2002.

3 Viaggi di donne (a cura di Andreina De Clementi e Maria Stella),

Napo-li, Liguori, 1995.

4 Continente Irlanda: storie e scritture contemporanee (a cura di Carla De Petris e Maria Stella), Roma, Carocci, 2001.

5 Mary Lamb, La scuola della signora Leicester (cura e traduzione di Maria

Stella, Palermo), Sellerio, 1987.

6 “Undiscovered Countries: i taccuini di Dorothy Wordsworth e Katherine

Mansfield”, in Viaggi di donne, cit.; Elizabeth Bowen, È morta Mabelle (a cura di Benedetta Bini e Maria Stella), Verona, Essedue Edizioni, 1986 (dei due saggi introduttivi Maria è autrice dell’inquietante “Territorio di guerra”); “Oggetti solidi e romanzi non scritti: Virginia Woolf e il rac-conto”, in La tipografia nel salotto: saggi su Virginia Woolf (a cura di Oriana Palusci), Torino, Tirrenia Stampatori, 1999.

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In questo contesto va collocato l’avvicinamento di Maria al teatro romantico, tema che ho scelto di trattare qui. Un teatro escluso dal grande canone, nonostante recenti tenta-tivi di rivalutazione in ambito femminista e anglosassone;7 ancora rifiutato in Italia dai critici che contano, compreso il nostro maestro Agostino Lombardo. Ma anche un teatro di poeti.

L’indagine sul teatro del Romanticismo iniziò alle soglie del 2000, insieme a Isabella Imperiali e a me nell’ambito di una ricerca nazionale (Cofin) coordinata dall’Università di Bologna. Il titolo generale del progetto era “Il teatro ro-mantico inglese (1770-1830): testi, teorie, pratiche sceniche”, parallelamente oggetto di studio da parte di una studiosa di spettacolo, Paola Degli Esposti.8 Lo spazio che noi ci

7 Fra gli altri, gli studi di Catherine B. Burroughs, Closet Stages: Joanna

Baillie and the Theatre Theory of British Romantic Women Writers (Philadelphia,

University of Pennsylvania Press, 1997) e Women in British Romantic Theatre.

Drama, Performance and Society, 1790-1840 (Cambridge, Cambridge University

Press, 2000); quelli di Jeffrey N. Cox, In the Shadows of Romance: Romantic

Tragic Drama in Germany, England and France (Athens, Ohio, 1987) e Seven Gothic Dramas, 1789-25 (Athens, Ohio, 1992); e ancora Tracy C. Davis and

Ellen Donkin (eds.), Women and Playwriting in Nineteenth Century Britain, Cambridge, Cambridge University Press, 1999; Michael Harrison, “Closet

Drama”, Theatre, 56, 1993; Judith Pascoe, Romantic Theatricality: Gender, Poetry and Consciousness in the Romantic Age, University Park and London, The

Pennsylvania State University Press, 1997; Marjean Purinton, Romantic Ideology

Unmasked. The Mentally Constructed Tyrannies in Dramas of W. Wordsworth, Lord Byron, Percy Shelley and J. Baillie, Newark, University of Delaware Press,

1994; Alan Richardson, A Mental Theatre, Poetic Drama and Consciousness in

the Romantic Age, University Park and London, The Pennsylvania State University

Press, 1988; Michael Simpson, Closet Performances: Political Exhibition and

Prohibition in the Dramas of Byron and Shelley, Stanford, Stanford University

Press, 1998; Thomas C. Crochunis, “The Function of the Dramatic Closet at the Present Time”, in Romanticism on the Net 12, 1998.

8 Cfr. Paola Degli Esposti (a cura di), La scena del Romanticismo inglese

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eravamo ritagliate, come unità di Roma, era quello, tutt’al-tro che facile e scontato, ma proprio per questo eccitante, del cosiddetto closet drama (traducibile forse come “teatro da camera”): un tipo di produzione che, nella sua defini-zione canonica, tuttora correntemente usata in ambito cri-tico, designa un complesso di testi drammatici assai etero-genei, conosciuti prevalentemente come testi per sola lettu-ra. Una forma, piuttosto che un genere. E un filone non certo nuovo, se si pensa a Seneca e a Milton, ma rilanciato dai romantici in epoca di teatri di largo consumo: e per ragioni estetiche, non più etiche o religiose. Di queste la prima – e forse più importante – era la riproposizione della centralità della parola (e della poesia) nell’azione scenica, generando il pregiudizio dell’antiteatralità, il cliché del dramma ‘da leggere’ – per definizione irrapresentabile. Il fatto però che alcuni di quei drammi venissero talvolta rappresentati (e anche con successo, come nel caso della tragedia di Coleridge Remorse),9 faceva questione. Metteva in gioco, innanzitutto, il significato di termini come ‘teatralità/drammaticità’,10 ‘leggere’, e naturalmente anche ‘closet’: spazio privato, con-notato per lo più al femminile; in senso debole rispetto a quello maschile del potere, la biblioteca. Tuttavia proprio nel closet lo spazio domestico si presenta carico di ambi-guità: il closet può essere codificato come erotico, ma anche in senso devozionale, per l’esercizio della confessione e della

9 Composto nel 1797 con il titolo di Osorio, Remorse andò in scena al

Drury Lane nel 1813 e arrivò a venti repliche; un evento per una trage-dia esterna al canone classico e shakespeariano. Cfr. Jeffrey N. Cox and Michael Gamer (eds.), The Broadview Anthology of Romantic Drama, Toronto, The Broadview Press, 2003.

10 Su questo punto l’O.E.D. cita Margaret Oliphant, 1883: «Sheridan’s

art, from its very beginning, was theatrical, if we may say the word, rather than dramatic».

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preghiera; riservato a un vissuto di emozioni sia solitarie, sia condivise. Il senso del closet drama romantico chiamava perciò a uno sforzo di contestualizzazione, di storicizzazione. E anche di selezione, che per noi fu quella di circoscrivere la ricerca agli anni fra la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche. Anni di terrore e di guerra, nei quali la rap-presentazione dell’identità nazionale britannica si andava spostando da paradigmi settecenteschi di tipo metropolita-no e cosmopolita (legati alla circolazione e scambio delle merci) verso la naturalizzazione della cultura britannica come Inglese e Cristiana. Con Shakespeare, il bardo, al centro del canone.

La nostra interrogazione/revisione del canone romanti-co avveniva sulla scia di un movimento di risromanti-coperta e di studio – già avviato e particolarmente forte negli Stati Uniti – di aspetti finora considerati marginali, del Romanticismo inglese: la poesia delle donne a esempio, che stava portan-do alla riscoperta di una ricca produzione femminile di testi drammatici (come quelli di Joanna Baillie).11 Testi non esclusivamente femminili però: poiché ad autrici discrimi-nate dalla sfera pubblica per questioni di gender si affian-cavano autori solitari; isolati per ragioni politiche (William Godwin per fare un nome) ma anche per esplicita presa di distanza dai codici culturali dominanti. Intorno al 1797-98 si concentravano nel closet drama, sotto il segno della marginalità, esperimenti nella forma tragica di giovani che si chiamavano William Wordsworth, Samuel T. Coleridge, Charles Lamb, Joanna Baillie: drammi come The Borderers, Remorse, John Woodvil, Plays on the Passions: testi irregolari, comunque atipici rispetto ai prodotti del coevo teatro di

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consumo, tuttora poco conosciuti. Maria guardava a Lamb, Isabella a Baillie, io ai padri del Romanticismo, nel mo-mento di autofondarsi come tali.12 Ci univa l’interesse per una scrittura drammatica che si definiva per differenza anziché per contrasto, e qui le pagine di Maria sulla questione ro-mantica dell’identità dell’io poetico (in Blake, Wordsworth, Shelley, Byron, Keats; ma da lei percepita come radicale in Emily Brontë) ci facevano da guida. E ci incuriosiva il fatto che questi drammi non fossero necessariamente vincolati alla messa in scena: talvolta per espressa intenzione del-l’autore («without any view to its exhibition upon the stage» scrive Wordsworth,13 un enunciato poi ripreso da Byron a proposito del suo Manfred), talvolta per indisponibilità del manager del teatro (The Borderers fu respinto quando Wordsworth cambiò idea per ragioni di lucro; John Kemble rifiutò a Lamb il suo John Woodvil). Per altri autori, invece, riuscire a incontrare l’audience – una audience sconosciuta e dunque sfuggente – era una questione cruciale: lo era per Coleridge che prese a prestito le convenzioni del (da lui) disprezzatissimo teatro gotico e cambiò persino nome alla sua tragedia Osorio, che ebbe un successo strepitoso (più di venti repliche) quando, forse per influenza di Joanna Baillie, fu ribattezzato Remorse. La questione era cruciale anche per Joanna Baillie, che per affrontarla si ispirò alla feconda politica culturale dei dissenters, mutuando dai dissidenti religiosi alcune efficaci strategie per dar voce alla propria

12 Cfr. Rosa Maria Colombo, “Closet drama on the stage of Revolution:

Language on Trial in The Borderers”, in Romantic Theatre and Drama: Theory,

Texts, and Stage Practices (edited by Lilla Maria Crisafulli and Keir Elam),

Manchester University Press (in corso di stampa).

13 Cfr. The Borderers (edited by Robert Osborne), Ithaca and London,

Cornell University Press, 1995 (1982), “Introduction”, p. 4 («senz’alcuna intenzione di esibirlo sulla scena»).

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differenza. (Incidentalmente erano molti i romantici che con Coleridge, Baillie e Lamb provavano interesse, negli anni che qui ci riguardano, per non conformisti radicali come gli unitariani, intellettuali liberal che proponevano il valore educativo delle emozioni, coniugando l’impegno sociale e religioso con i piaceri dell’immaginazione).14

Per quella via andavamo scoprendo che negli anni No-vanta del XVIII secolo la drammaturgia del closet drama fa-ceva parte di un progetto globale d’avanguardia per la rifor-ma del gusto nazionale, lontana tanto da un’idea di tradi-zione scenica ‘alta’, percepita ormai come sclerotizzata, quanto dalle innovazioni scenografiche della drammaturgia popola-re tedesca, ampiamente sfruttata dai teatri londinesi (e non solo) di largo consumo, facendo leva sulle ‘grossolane emo-zioni’ del gotico o del melodramma. Di questa riforma este-tica il closet drama si presentava come laboratorio, e lo testi-monia l’apparato prefatorio di Baillie ai suoi Plays on the Passions,15 che peraltro precede di due anni la famosa ‘Pre-fazione’ di Wordsworth alle Ballate liriche. Ma questo lo ca-pimmo dopo mesi di studio e di discussione, di impegno critico: sulla pagina per me e per Maria (ciascuna a suo modo); per Isabella anche sul piano della rappresentazione scenica, firmando la regia di Scene da De Monfort, adattamento di una tragedia di Joanna Baillie, da lei stessa curato.16

14 L’importanza degli intellettuali della Warrinton Academy, fra cui gli

Aitkin, oggi ricordati soprattutto tramite Anna Laetitia Barbauld, è tema affrontato da Isabella Imperiali in “From Darkness to Light: Science and Religion on Joanna Baillie’s Stage”, in Women’s Romantic Theatre and Drama:

History, Agency and Performance (edited by Lilla Maria Crisafulli and Keir

Elam), Ashgate, Aldershot, U.K. (in corso di pubblicazione).

15 Cfr. Isabella Imperiali, Le passioni della mente nel teatro di Joanna Baillie, Cassino, Lamberti, 2006.

16 In occasione di un convegno sul teatro romantico tenutosi

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Intorno a Maria ciascuno sempre trovava lo spazio più congeniale ai propri interessi; rispettosa, com’era, dell’au-tonomia intellettuale degli altri. Gelosa soltanto, com’è proprio dei poeti, dell’originalità del suo stile, della voce che sape-va intonare ai suoni che percepisape-va nella pagina – anche in quanto traduttrice.

Il punto al quale approdammo fu comunque che il tea-tro da camera lavorava consapevolmente in direzione di una rinnovata tipologia di consumo culturale. Le convenzioni dei testi correntemente definiti come closet drama, scoprim-mo, sono da considerarsi ‘antidrammatiche’ soltanto in rife-rimento alle consuetudini teatrali dell’epoca, fra spettacolari e naturalistiche. I lunghi monologhi, la concentrazione sull’in-teriorità del singolo personaggio in quanto ‘carattere’ (dota-to cioè di spessore psicologico) più che sull’interazione tra i vari personaggi, significavano scarso interesse per l’azione scenica solo in mancanza di un circuito di palcoscenici ade-guato. Certi drammi che si pretendevano pensati esclusiva-mente per la pagina scritta erano in realtà destinati a un uso nuovo. Un uso che doveva però attendere il Novecento: vale a dire l’estensione del concetto di teatro a teatro della men-te, e del concetto di lettura a potenziamento delle facoltà percettive del lettore. Lettura come pratica carica di imma-ginario, atto nel quale l’io si sdoppia, si teatralizza: insom-ma lettura come teatro mentale, come monodraminsom-ma. Qui il nostro coinvolgimento si intensificava, attratte da una forma espressiva che cresce nella contaminazione fra la vocazione monologica dell’iolirico e la pulsione dialogica dell’io a mettersi in scena. Non a caso il monodramma (da non confondersi

tori professionisti, fra cui Francesca Muzio e Andrea Peghinelli. La re-gistrazione in DVD della rappresentazione è acclusa al volume di I. Imperiali, Le passioni della mente nel teatro di Joanna Baillie, cit..

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con il monologo drammatico, anche se ad esso contiguo)17 era caro ai romantici: inventato da Rousseau nel suo Pygmalion (1762), lavorato da Byron in un dramma regolare come Manfred (si pensi all’adattamento di Carmelo Bene); poi portato a stilizzazione estrema da Beckett, fino alle tante rivisitazioni contemporanee: di Cocteau e di Alan Bennett, di Sarah Kane, e comunque di tante proposte radiofoniche e televisive. Una volta di più i romantici si confermavano i primi artisti d’avan-guardia della storia europea.

Alla luce della drammatizzazione del leggere come atto performativo, e in quanto tale, sì, costitutivo del closet drama, cade il paradosso canonico del Romanticismo come epoca che fece di un drammaturgo il suo mito e passò alla storia come essenzialmente antiteatrale. D’altronde alcuni studi recenti – sempre in riferimento alla prima generazione ro-mantica inglese – hanno provato che la frattura fra stage e closet, fra teatro teatrale e teatro invisibile non era poi così netta, che fra lettura e messinscena v’era un rimando, uno scambio continuo, problematizzato a esempio nelle ‘Prefa-zioni’ di Elizabeth Inchbald alla sua raccolta di British Theatre (in 25 voll, 1808). Così come nonostante le norme e le leggi che regolavano le recite, di fatto non fu mai netta la sepa-razione fra i teatri ufficiali – quelli regi di Drury Lane e

17 Cfr. lo studio fondamentale di Dwight Culler, “Monodrama and the

Dramatic Monologue” (PMLA, 1975), che approfondisce il tema affron-tato a suo tempo da Kirsten Gram Holmström, Monodrama, Attitudes,

Tableaux Vivants. Studies on Some Trends of Theatrical Fashion 1770-1815,

Stockholm, Almquist and Wiksell, 1967. Un importante approccio suc-cessivo a questa forma drammatica si deve a Jeffrey N. Cox, Melodrama,

Monodrama and the Forms of Romantic Drama, in Karelisa V. Hartigan (ed.) Within the Dramatic Spectrum, Lanham, MD, UPs of America, 1986, pp.

20-34. Vedi anche, di chi scrive, Forme brevi del teatro romantico, Cassino, Lamberti, 2005.

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Covent Garden – e i cosiddetti teatri illegittimi, popolari e sperimentali, dei quali una giovane studiosa, Jane Moody, ha ricostruito di recente una mappa.18 La serata teatrale tipo, ci veniva detto, prevedeva una sorta di intertestualità fra un ‘dramma’ nobile, di tradizione alta – mainpiece in cinque atti – e un afterpiece – il ‘pezzo’ breve in un atto, farsa o pantomima – che seguiva, insieme con una varietà di altre forme minori di intrattenimento, tutte ‘illegittime’, ma di grande successo. Almeno nella prima stagione del Romanticismo la sequenza mainpiece-afterpiece non è da leg-gere in senso statico, sequenza che sfocia in un finale mo-mento di salutare relief, ma come interazione fra i due momenti, con l’afterpiece a rimodulare e persino rigenerare il potere della gerarchia (a esempio mettendo in sequenza il tragico di Remorse e il comico di The Quaker, Coleridge e Charles Dibdin).19 La serata ‘tipica’ dell’epoca conduceva il pub-blico all’esperienza dell’emozione tragica (paura, vendet-ta, odio, gelosia) e subito dopo gliela faceva ‘vedere’ in un’altra chiave di lettura: uno shift del punto di vista che serviva a ribaltare e relativizzare i valori e i contenuti edi-ficanti del mainpiece. L’efficacia di una simile ‘inside out strategy’ era ovviamente maggiore quanto più v’era affi-nità tematica tra il dramma nobile e il pezzo bastardo. L’analisi di Jeffrey Cox della sequenza Remorse-The Quaker, entrambi concentrati sul tema della gelosia, indica un percorso vitale di studio e di sperimentazione sulla scena, frequentato assiduamente ancora da Dickens negli anni Sessanta del-l’Ottocento, quando già era entrata in uso la serata a opera unica, il cosiddetto “long run”.

18 Jane Moody, Illegitimate Theatre in London, 1770-1840, Cambridge,

Cambridge University Press, 2000.

19 Cfr. Jeffrey N. Cox e Michael Gamer (eds.) The Broadview Anthology of

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Se questo è vero, non sorprende che la lettura critica di Maria Stella si fosse inizialmente concentrata su Charles Lamb, saggista e critico teatrale notoriamente avverso alle pratiche sceniche del suo tempo, ma anche disposto al con-fronto diretto con la pratica di drammaturgo.20

John Woodvil. A Tragedy appariva a Maria un puzzle, il compendio delle ambivalenze di fondo nel rapporto fra i romantici e il teatro, testimoniate dal personale rapporto di attrazione e repulsione di Lamb: l’incantamento provato da bambino assistendo agli spettacoli nei teatri popolari di Londra, poi il disincanto della maturità di fronte allo Shakespeare degli attori, infine la nostalgia e il rimpianto per la perdita della capacità infantile di abbandonarsi al gioco dell’illusione: questo piacere giovanile, questo senso di chiarezza lo paghiamo poi a caro prezzo per tutta la vita. Passata la novità scopriamo a nostre spese che invece di realizzare un ideale, abbiamo solo reso materiale e de-gradata una bella visione portandola al livello della carne. Abbiamo lasciato andare un sogno per metterci alla ricerca di una sostanza irraggiungibile.21

A tutto questo Maria aveva dedicato un saggio molto fine– “Charles Lamb’s Theatre of Mind”22 – iniziando poi a tradurlo nelle ultime settimane della sua vita, traduzione che abbiamo incaricato Riccardo Duranti di completare.23

20 Uno dei suoi saggi più citati pubblicato nella rivista The Reflector (IV, ottobre-dicembre 1811) porta il titolo “Sulle tragedie di Shakespeare analizzate dal punto di vista della rappresentabilità sulla scena” (cfr. tr. it. in Piera Degli Esposti, op. cit., vol. I, pp. 116-136).

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 114-129)