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La scrittura delle donne: il racconto sentimentale a Napoli

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 129-144)

Costretta dal lavoro a continui spostamenti tra Roma e Napoli, Maria Stella rielaborava dentro di sé le impressioni che Napoli le forniva, sia pur nel percorso minimo che la portava dalla stazione centrale alle sedi universitarie dell’Orientale e viceversa. Sui mezzi pubblici si ritrovava tra utenti senza biglietto e imperturbabili ragazzini, seduti ovunque, a osta-colare entrate e uscite e parimenti, quando attraversava a piedi il degradato centro storico, notava per le vie affollate l’insofferenza degli abitanti verso qualsiasi esigenza di disciplina e di ordine. Le sue “Prime note per un diario napoletano”, tra gli scritti postumi di Accompagnarti (Valverde, Il Girasole Edizioni, 2004, pp. 59-60), ne testimoniano gli inevitabili stupori e le spontanee perplessità.

Le avventure dello sguardo, però, in una città esplicita e plateale, diventavano soprattutto un’occasione di più attente riflessioni per Maria, catturata dalla rete dell’antica e am-bigua gestualità dei napoletani e intenta a registrare, oltre agli atteggiamenti di spavalderia delinquenziale dei più giovani, soprattutto gli straordinari segni di empatia o tol-leranza verso il bisognoso o il debole e quei comportamen-ti che definiremmo ‘umani’ e che altrove, in una città

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siasi, apparentemente civile e moderna, forse sarebbero introvabili, perché da tempo cancellati.

Non c’è arroganza, camuffata da efficientismo, nell’af-follato bar di piazza San Domenico: «dai la coca cola alla bambina» ordina, dietro la cassa, la Signora Iovanka al barista impegnato a servire i clienti, come se la ‘pezzentella’ fosse una di casa o avesse pagato al pari degli altri; e ancora lì, pochi giorni dopo, nello stesso bar, sotto gli occhi di Maria, la situazione si ripete, a vantaggio, però, stavolta, di una dimessa vecchina cui è offerto il caffè da un avventore, intenerito dalla richiesta della donna, finora rimproverata dai presenti, non per la mancanza di denaro, ma perché è il quarto della mattina: «ti fanno male!».

Maria Stella si incantava di fronte a questi accadimenti minimi del quotidiano, rivelatori di caratteri e umori. Era-no le tessere attestanti l’inarrestabile decadenza della città, incapace di assimilare il progresso, o le prove di una sua effettiva superiorità, spesso fraintesa, perché oggettivamente troppo complessa risultava la locale tendenza a voler co-niugare valori antichi ereditati dalla cultura del passato con esigenze di globale razionalizzazione?

Nel suo interrogarsi sull’inevitabilmente perduto – «il senso di un destino comune che lega a Napoli il ricco al povero, l’adulto al bambino, il dentro al fuori» – Maria poteva talvolta far suo l’abito della straniera evoluta, pronta a indignarsi della diffusa apatia e indifferenza, ma più spesso tentava di ritrovare in ciò che apparentemente era per lei anomalo le tracce di un’identità smarrita e la possibilità di orientarle grazie a una innovativa capacità progettuale. In nome di un esigente impegno civile, andavano per lei lette e interpretate le contrastanti valenze della ‘normalità’ del-la vita a Napoli, una città-mondo ove tutto e il contrario di tutto hanno spazio, ove gli esiti della realtà autorizzano

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angoscia e paura; ma anche speranza ed euforia; ove il fastidio per i luoghi comuni di maniera sulla città si tramuta spes-so nei suoi migliori rappresentanti in consapevole autoironia e talvolta in orgoglio intellettuale della proprie radici euro-pee.

Dobbiamo molto dunque alla intelligente sensibilità di Maria Stella, e alla sua capacità di scrivere della ‘moderni-tà distorta’ degli scenari urbani partenopei e della loro particolare aggressività.

Sembra opportuno tornare a parlarne, desiderando ora ricordare l’amica e l’intellettuale prematuramente scom-parsa. Nell’affrontare la descrizione della città, attraverso il punto di vista fornito dalle donne, chi scrive tenterà di ricollegarsi ancora una volta alle indagini care a Maria, a tal fine individuando una campionatura adeguata, il meno possibile esposta al rischio del ‘pittoresco’ e della geogra-fia immaginaria. Ecco perché si focalizzerà l’attenzione su una precisa forma letteraria, aderente al vissuto delle don-ne: quella breve della novella di ispirazione sentimentale. Inoltre, i distanziamenti temporali esistenti tra i testi esa-minati (dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri) permette-ranno di cogliere le variazioni apportate al ‘linguaggio della passione’ dal mutare delle modalità di vivere l’esperienza amorosa e soprattutto dal rafforzarsi dell’autocoscienza fem-minile. Infatti, nei tre racconti scelti, la città spesso è sullo sfondo, ma i personaggi vi agiscono, condizionati da men-talità e culture, rifiutate o subite, misurandosi con il pro-prio mondo familiare o con la durezza di un sistema che crea asimmetrie nei rapporti uomo/donna e vuole figure femminili perdenti o rinunciatarie; sì da provocare gradual-mente, nel confronto col contesto, reattive strategie comportamentali.

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Gli scritti in prosa che qui si vogliono analizzare, tutti di ambientazione napoletana e in qualche modo tra di loro collegati, sono: “O Giovannino o la morte” di Matilde Serao; “Interno familiare” di Anna Maria Ortese; e infine “Diritto diritto negli occhi” di Valeria Parrella. Sono tutti e tre individuabili in raccolte di racconti piuttosto note: il primo fa parte di All’erta sentinella! (Milano, Treves, 1889); il se-condo de Il mare non bagna Napoli (Torino, Einaudi, 1953); l’ultimo di Mosca più balena (Roma, minimum fax, 2003). In tutti e tre i casi le autrici – veri talenti letterari – si affidano a una scrittura di grande immediatezza e mostrano di pre-diligere un rapporto diretto con il pubblico, influenzate dalla propria esperienza di giornaliste, in vario modo impegnate nel sociale e capaci di scritture di denuncia.

Quanto ai titoli dei racconti, mentre quello di Ortese ha prevalentemente funzione descrittiva rispetto all’argomen-to, il primo e il terzo sono titoli-etichetta in quanto ripro-ducono espressioni salienti, interne al testo narrativo. Si tratta nel primo caso di una frase, colta dalla viva voce di Chiarina, la protagonista, che con un esplicito aut aut di-chiara la sua perentoria inadattabilità a compromessi e il suo romantico diritto all’amore; nell’altro, di un lucido pensiero della vitale Guappetella, sfrontata nella sua ricerca di nor-me comportanor-mentali che le garantiscano il successo nella sua vita di relazione.

In tutti e tre i racconti ci imbattiamo in orfane, come si addice a favole o a racconti di formazione. Ha perduto la madre e poi il padre l’adolescente Chiarina, sola, in balìa della strega-matrigna; senza padre sono le altre due donne, anche da ciò obbligate a una autonomia economica, resa possibile ora dal lavoro (nel caso della piccolo-borghese Anastasia Finizio), ora dalle lusinghe della seduzione (nel caso di Guappetella, irresistibile nella sua ascesa, da

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tenuta di un delinquente comune, a rispettabile moglie, nella Napoli bene).

Ma per meglio rilevare le analogie e le differenze biso-gnerà procedere con ordine.

“O Giovannino o la morte” si apre con un paesaggio sonoro: è il suono stridulo del campanello d’argento, agi-tato dal sagrestano della chiesa dei SS. Apostoli a richia-mare l’attenzione del lettore sui rituali religiosi della do-menica. Puntualmente li rammenta tutti l’autrice che intanto si affida allo sguardo, nel rappresentare gli animati interni domestici e il fervore dei preparativi per il pranzo della festa.

Del palazzo antistante la chiesa, sono infatti descritti, piano per piano, gli abitanti: coniugi attempati e tranquilli, misere madri di famiglia, affaticate da lavori domestici e gravidanze continue, studenti fuorisede, impiegati abitudi-nari e, infine, l’immancabile usuraia, fiera dei gioielli e delle belle vesti che ostenta, nell’avviarsi alla messa, incurante dell’astioso risentimento dei vicini. Per esperienza perso-nale o per sentito dire, è a loro ben nota l’assenza di scru-poli di donna Gabriella. Nella Nascru-poli ottocentesca, come si sa, l’usura è spesso gestita da donne, ma nel racconto, per renderne più odiosa la figura, oltre alle vittime create dal suo denaro prestato a interesse, c’è anche la figliastra, mortificata dall’esibizione di un lusso di cui ella avverte la colpevolezza e, per la giovane età, in totale dipendenza da chi su di lei svolge funzioni parentali.

Ingenua portatrice di valori morali, tra liti continue, Chiarina vive l’angoscia della solitudine in una casa ove deve con-dividere, suo malgrado, spazio e tempo con una nemica. La passione amorosa per un giovane studente sembra l’unica via di uscita da una situazione di totale chiusura e incom-prensione; ma il fidanzamento, dapprima contrastato per

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ragioni economiche, poi accettato, complica la vicenda del-la protagonista, persuasa dal suo uomo ad accettare i doni dell’usuraia: stoffe e oggetti per il corredo di sposa, co-munque ottenuti dalla donatrice grazie ai suoi loschi traf-fici e alla sua vergognosa speculazione sulla miseria. Del resto Giovannino, ammesso finalmente in famiglia, si la-scia conquistare prima dal fascino dei libri contabili dell’usuraia, poi da quello della donna, trasformandosi da potenziale eroe-salvatore in un insospettabile aiutante dell’an-tagonista. La scoperta dell’autentica identità di ‘magnaccia’ dell’amato e poi quella della incestuosa relazione ribadirà in modo definitivo la solitudine morale e materiale della protagonista, tradita nel suo stesso desiderio di amore. Disperata ella si lascerà cadere nel pozzo, sconvolgendo con un gesto irreversibile la vita del palazzo, testimone di una tragedia gradualmente maturata sotto gli occhi di tut-ti. Per i lettori è la fatale conclusione di un disagio psichico più volte segnalato nel corso della vicenda e cresciuto at-traverso il ritmo veloce delle melodrammatiche sequenze finali, la corsa furiosa verso l’orlo del pozzo, lo sbatter delle porte, le grida dalle finestra, l’urlo della colpevole matrigna cui, in chiusura, farà eco il pianto corale, estesosi dall’interno verso l’esterno del palazzo, fino ai vicoli circo-stanti: «Morta, morta, morta!»

Se il desiderio amoroso muove la vita psichica della fi-gliastra tra i poli dell’angoscia della perdita e quello della gioiosa prospettiva di gratificazioni, anche nel caso di Ortese, centrale è la descrizione psicologica della protagonista, scissa tra il qui e ora del suo corpo e il desiderio, ancorato a esperienze di vita precedenti e disgregate. Si tratta però stavolta di una donna adulta, solo per caso risvegliata dalla sua esistenza di servitù e sonno dalle parole di un’amica che la informa del ritorno in città dell’uomo di cui un

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po era innamorata e le cui parole – «Se vedi Anastasia, falle un saluto particolare» – mettono in subbuglio il cuore, suscitando pensieri remoti e rimossi, turbano fino a far affiorare in lei, ingrigita in una torpida esistenza, l’amara consape-volezza di sé e del proprio limitato mondo.

Ancora una volta, come nel caso di Serao, la novella napoletana si apre con un riferimento alle ritualità religio-se del giorno di festa, perché Anastasia è descritta nell’in-terno della sua casa, al rientro dalla messa solenne del Natale, mentre dall’esterno continuano a giungere gran colpi di campana da due o tre chiese insieme.

Nascosta agli altri, nel chiuso della sua stanza, la donna si concede sogni e fantasticherie. La vita che finora sem-brava condurla a un campo sterrato, improvvisamente tor-na per lei ad aprirsi come «in utor-na piazza pietor-na di gente, con la musica che suona». Il riferimento all’onda sonora della musica, nel testo di Anna Maria Ortese, è rivelatore, perché sono le informazioni auditive, percepite attraverso voci, rumori o suoni, reali o immaginari, a determinare la costruzione stessa del racconto, consentendo che agli occhi della protagonista subentri, in modo imprevisto, alla realtà condizionata dalla necessità, il discontinuo del reale, ani-mato dal desiderio. Del resto è proprio la voce a risvegliare in lei l’ansia di sapere e di ascoltare, mentre musiche di campane risuonano nella sua testa e arie di canzoni napo-letane, con indifferenza, canticchiate al pianoforte, amplifi-cano, attraverso le frante parole di Core ’ngrato, la presa di coscienza della ‘impossibilità’ del sogno amoroso, rammen-tandole che davvero «tutto è passato».

Al troppo esplicito dei riferimenti visivi che, nell’inter-no di un palazzo, consentonell’inter-no al lettore il riconell’inter-noscimento di luoghi, abitudini e circostanze, spaziali e temporali, e riconfermano il peso di una tradizione descrittiva ancorata

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ai canoni ottocenteschi del genere (da Serao a Di Giacomo), l’autrice affianca una più raffinata maniera di rappresenta-re il rappresenta-reale nella quale allusioni e sottintesi importanti sono rivelati attraverso gli scarni dialoghi dei personaggi e ren-dono possibile uno sguardo impietoso sul loro egoismo senza scampo, come sulle loro frustrazioni. Nel confronto con i suoi familiari, la mortificante esistenza di Anastasia appare con chiarezza al lettore e soprattutto a lei stessa, che, da sempre, nelle vesti di capofamiglia, deve lavorare e sacri-ficarsi per gli altri, divenendo incapace di vedere e di ve-dersi: «Mai, mai si era accorta che visi e che voci avessero la madre e la gente. Per questo i suoi occhi erano pieni di lacrime».

La verità esistenziale di Anastasia e dei parenti che vi-vono con lei e con il suo sostegno economico è colta in quel retroterra di parole non dette, perifrasi o ammiccamenti su cui l’autrice porta l’attenzione. Ella profitta dei preparativi che accompagnano il lungo pranzo di Natale, per evidenziare, attraverso gesti e tempi rallentati, la sottile trama delle ansie materne, di fronte al possibile realizzarsi dei sogni della figlia ormai anziana, da sempre vinta dalla vita, ma per un attimo sorpresa dall’illusione di una sua autonomia perso-nale.

Del resto le euforie e i trasalimenti emotivi della prota-gonista sono di breve durata, finiscono schiacciati da quel pensiero calmo, freddo e inerte con cui la donna ha finora costruito la sua identità, rinunciando a se stessa, conten-tandosi del poco; convinta che la vita non la riguarda, perché per lei rimane comunque una cosa strana, tutt’al più un rumore fioco.

Mentre dall’esterno, fino alle ultime sequenze del rac-conto, continuano a provenire echi di vita (sono le voci animate dei vicini di casa, squilli di campanello, o, come è

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d’obbligo a Natale, nenie di zampogne), la loro forza di richiamo su Anastasia è sempre minore. Diventa infatti incolmabile la distanza che, ripensando alle proprie gior-nate senza eventi, ella ha messo verso quei vibranti segnali di possibili alternative; tutto cancellando dalla memoria e di tutto attenuando l’incidenza nei propri pensieri.

La battuta finale – «vengo» – con cui Anastasia esce definitivamente di scena, obbedendo alla madre che la ri-chiama ai suoi doveri domestici, chiude in modo laconico il racconto. Rende esplicita però la distorsione linguistica creata dalla falsità dei rapporti interpersonali e dalle ne-cessità pratiche della famiglia. È il suo ‘un girare le spalle’ a quanto avrebbe potuto mutare il destino; per ribadire la logica della rinuncia a vivere per sé che guidava le scelte delle cosiddette ‘monache’ di casa, a Napoli, ancora negli anni Cinquanta, presenze frequenti e spesso indispensabili nei difficili equilibri della sopravvissuta famiglia patriarca-le. Del resto nel medesimo ambito geografico è ancora alla zitella che Domenico Rea dedica la sua attenzione di testi-mone delle trasformazioni dei costumi locali. Si pensi alla raccolta Tentazione e altri racconti (Napoli, Società Editrice Napoletana, 1976) ove figura la trilogia caratterizzata da donne sole nel ruolo di protagoniste: “La zitella (anni cin-quanta)”, “Tentazione (anni sessanta)”, “L’americana (anni settanta)”.

Alla cecità elettiva del personaggio ortesiano, tanto vici-no a quelli del disilluso e amaro teatro dei De Filippo, si oppone in modo drastico la forza trasgressiva della più moderna Guappetella, proiettata entro una dimensione di-namica dell’esistenza. A lei, protagonista del racconto “Di-ritto di“Di-ritto negli occhi”, la giovane autrice napoletana Valeria Parrella affida il compito di narrare in prima persona le avventure di cui ella è contemporaneamente artefice e

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trice. Con tale scelta, diversamente dai racconti in terza persona di Serao e di Ortese, Parrella si ricollega alla tra-dizione della scrittura autobiografica, ampiamente pratica-ta dalle donne, utilizzandola in quanto codificapratica-ta maniera letteraria, idonea a efficacemente dar la parola a un perso-naggio privo di cultura e di precisa collocazione sociale. Guappetella è infatti una sorta di ‘cattiva ragazza’, uscita da quartieri infernali, se non dagli Inferi della città di cui ella incarna il lato notturno. È cattiva non tanto perché voglia fare del male, ma perché istintivamente desiderosa di sopravvivere a un mondo spietato che la rende capace di qualsiasi cosa.

C’è poco da essere schizzinosi: Napoli è piena di perso-ne così, esuberanti e sguaiate. La novità del racconto è pertanto quella di non meravigliarsi di nulla, ma di prestare una disinvolta attenzione alla spregiudicatezza di creature sen-za freni o inibizioni, vissute per strada, abituate, nei vicoli o nelle sciatte periferie, ad ascoltare e cantare le canzoni dei neomelodici; o a inseguire, per le vie del passeggio, dietro il miraggio delle merci, i simboli del consumismo e del presunto benessere: il telefonino, il motorino, il jeans più o meno firmato; adolescenti e adulti, uomini o donne ben riconoscibili nei loro gesti eccessivi, figure che rappre-sentano la dimensione sgangherata di una città ‘cannibale’ e, attraverso i fatti della cronaca contemporanea, visibil-mente allo sbando.

Senza mezzi toni, Valeria Parrella sfrutta con grande maestria le più espressive possibilità del dialetto nei so-prannomi («’O stuort’») o nei modi di dire («che tene megli’ e me?»; «C’e mettimm’ int’o sacchino»), mentre alterna ai modi dell’italiano regionale («In città un’altra azienda come la mia la tiene solo Barbaro») quelli gergali («con lui facevo la tosta»; «Non sono cazzi miei»). Né mancano nella

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na parole straniere, spesso accolte in una più complessa strategia di rivisitazione ironica: «’O stuort’ fece la conva-lescenza a casa con la moglie. Quando si sparse la voce del proiettile in petto il quartiere lo ribattezzò Higlander» (p. 21). Da tale pratica di ibridazione deriva una impressione di oralità e di immediatezza che rende verosimile (e credi-bile) il racconto dell’eroina dei nostri tempi; tanto più che alla trasgressione linguistica si associa quella comportamentale. Convince il lettore il ritmo veloce del racconto che ben si adegua all’istintiva sicurezza della protagonista, ansiosa di nulla mitizzare e di veder chiaro in tutto, per calcolare i propri vantaggi e agire in modo opportuno.

Nella giungla che è intorno, ella pretende di gestire al meglio la propria circostanza. Decisa nel divenire l’amante di un uomo dal doppio lavoro – nelle ferrovie è un impie-gato; nella malavita, un trafficante di merci rubate – la ra-gazza ne condivide il cinismo e l’ansia di godimento. Non soffre di gelosie e lascia alla moglie di lui tanto la pienezza del ruolo sociale quanto lo stipendio delle ferrovie, mentre, senza sensi di colpa, fa sua la parte della mantenuta riser-vando per sé i più sostanziali vantaggi derivanti dai meno leciti guadagni dell’uomo, fino a ottenere da lui, in regalo per i suoi diciotto anni, un appartamentino. Dando retta ai prudenti consigli materni – «Fatte mettere a casa ’nfaccia» – se lo farà intestare, per ricavarne «’na bella mesatella», fittandolo a studentesse. È il primo segno della sua riuscita sociale, in un ambiente per cui conta il denaro e non la sua provenien-za; ma è rivelatore anche della sua oculatezza. La giovane non ama rischi inutili, la casa è un investimento; e ai buoni guadagni che potrebbe fare con inquilini immigrati di colore (tanti in città fittano ai neri!) preferisce quelli altrettanto soddisfacenti con ragazze non residenti, ritenute più attente alla buona conservazione del suo immobile.

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Al di là del bel «corpo che fa girare i preti», la protago-nista rivela una lungimiranza di tipo mercantile, una capa-cità di ottimizzare i profitti, degna di più ambiziosi proget-ti. Da qui l’empatia dell’autrice col suo personaggio, di cui

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