• Non ci sono risultati.

In ricordo di Maria

Non è stata coincidenza o contiguità di interessi scientifici a farmi conoscere Maria Stella, e ad unirmi tanto a lei. Sono una accademica sì, ma economista, e dunque molto lonta-na. L’accademia peraltro, in quanto appartenenza a una istituzione comune, raramente ha rappresentato parte del nostro discorrere. Maria non aveva alcun interesse all’eco-nomia, io ne avevo alquanto alla letteratura inglese: dun-que, sì, parlavamo spesso di ‘anglistica’. Ma, soprattutto, condividevamo ampi spazi di vita. Quando mi è stato chie-sto di parlare di Maria, e dunque di attingere ai ricordi, ho a lungo navigato nella nostra storia comune, e l’atto stesso della ripresa del filo della memoria ha costituito emozione indicibile. La ricerca del ricordo da donarvi in sua memo-ria mi faceva tornare sempre più spesso su alcuni tratti, sempre di più sugli stessi, e alla fine il frammento è emer-so e si è imposto. Ho deciemer-so di raccontarvi come Maria ed io ci siamo conosciute. Una storia nella storia. Che credo quasi nessuno sappia, e che di Maria molto racconta, per chi l’ha conosciuta bene.

Si era verso il maggio del 1982. Avevo appena finito di allattare la mia bambina, ed ero stanca. I nostro mariti si conoscevano, noi no. Loro, i mariti, si accordarono per una

Anna Soci 66

visita: noi saremmo andati a trovare Marcello e Maria al Tombolo delle Giannelle, nella casa al mare in cui stavano passando un inizio di estate assieme a pezzi di famiglia e amici, in quella amabile confusione che avrebbe tanto ca-ratterizzato da allora in poi le mie vacanze: figli, cani, parenti, dade, dattiloscritti.

La casa aveva un cancellino di legno che si apriva diret-tamente sulla spiaggia, dove la gente era poca e dispersa. Ricordo ancora l’azzurro di quel mare, il sole sulla schiena, il profumo dei fritti di verdure di una signora filippina che si prendeva cura di noi. Ricordo Anna con i capelli cortis-simi che gattonava sul vialetto, Matteo già ben solido sulle gambe che giocava con Leo, il cane trovatello raccolto al-l’aeroporto, Luigi di passaggio dalla Germania.

La breve vacanza fu piacevole, molto piacevole. Io e Maria parlammo di tante cose, ci unì senza che ce lo dicessimo la situazione comune: giovani studiose che la nuova respon-sabilità genitoriale aveva portato in un’altra fase della loro vita, e che si trovavano ancora all’inizio di un cammino che intuivano complesso e faticoso. Parlammo degli Stati Uniti, pezzo di vita in comune. Io ne ero tornata da qual-che anno, lei da qualcuno di più, ma la nostra spensierata e costruttiva fase americana ancora riemergeva piena e viva. Noi presto ritornammo a Bologna, senza appuntamenti particolari. Un generico «ci si vede in autunno».

In autunno ricevo una lettera: la busta reca chiaro il mio nome, cognome e indirizzo. Il triangolo davanti riporta il suo: Maria Stella, via Montezebio 30, Roma. La lettera è in inglese, la cosa mi stupisce, ma non tanto: era la sua lingua di studio, e lei sapeva che io lo capivo e la parlavo. La lettera racconta del suo periodo americano, la felicità, la spensieratezza, gli amori, accenni a varie esperienze. Un po’ di sogni messi da parte, qualcosa che non tornerà.

In ricordo di Maria 67

Ciò che leggo è talmente comune a me e alla mia espe-rienza, che non perdo tempo e le scrivo, sempre in inglese. Se questa era la lingua che lei aveva scelto, era la lingua che desiderava: forse la lingua che studiava e amava era la lingua privilegiata per il racconto del suo profondo o di una parte del suo profondo. Nella risposta anch’io scendo nella sfera dell’intimo: mi era stata offerto e quasi richie-sto, non si poteva restare insensibili.

Non ricevo nessuna risposta.

Il tempo passa, ora non ricordo se ci vedemmo in feb-braio, o all’inizio di primavera. Ma ricordo che io ero a Roma, a casa di Marcello e Maria, quella casa di via Montezebio che tante volte mi avrebbe ospitata, ricordo dove eravamo sedute, e ricordo che le dissi «ma scusa, perché mi scrivesti quella lettera così intima così allettante, in inglese, col pericolo che magari non ne coglievo tutte le pieghe, chissà mai…, e poi nemmeno mi rispondi?»

E lei allargò la bocca, piegando in giù gli angoli del lab-bro superiore, e inarcando nello stesso modo il lablab-bro in-feriore, come faceva nel suo largo sorriso, e mi disse: «ma non l’avevo scritta a te, era per Manijeh». «Scusa, ma l’in-dirizzo sulla busta?»

«L’inconscio mi ha tradito», sorridendo siglò.

Maria non parlava volentieri dell’inconscio. Lei, donna colta e raffinata, aveva un difficile rapporto con la psicoa-nalisi. Ben sapeva che pensieri inconfessati ti tradiscono ed emergono nonostante te, ma non amava ricordarlo. Il suo bisogno di dominare la vita, di esserne padrona in tutte le sue pieghe, la manteneva a rispettosa distanza da questa sfera interiore. Ma l’inconscio esiste. E quella volta – la più eclatante, ma non l’unica – in cui colsi Maria in balia del suo inconscio, lei aveva agito come nel più classico esem-pio da manuale: lapsus di scrittura, lo chiama banalmente

Anna Soci 68

Freud in Psicopatologia della vita quotidiana. Voglio comuni-care una cosa a te, ma non posso, dunque scambio le per-sone: con Manijeh, amica intima di allora, posso ricordare, dunque scrivo a Manijeh, ma è a te che voglio parlare, dunque indirizzo la busta a te.

Maria voleva entrare in contatto con me a un livello immediato di grande intimità, ma ne era impossibilitata, inconsciamente, dalle regole di normale condotta: ci cono-scevamo appena, i mariti vicini per motivi di lavoro. Dun-que, il suo inconscio aveva prodotto il trucco, dopo il quale non si poteva più tornare indietro.

Questa fu la prima avvisaglia delle due Marie. Lo stu-pendo, felice, inimitabile, suo sdoppiamento.

Il tono, le situazioni, gli accenti della lettera erano, in-fatti, ben diversi dall’immagine che avevo avuto nella casa al mare. Maria mi stava dicendo: futura amica mia – se tu vorrai – io non sono tutta qui, pur nella indiscussa ed eter-na forza dei legami affettivi che l’avrebbero sempre avvin-ta agli amatissimi figli, a Marcello, e alla famiglia tutavvin-ta. Correva parallela una seconda Maria: quella degli autori che ha amato, Yeats, Hardy, Hughes, autori dalle tinte for-ti; quella della scrittura pubblica e professionale, una scrit-tura tonda, suggestiva, penetrante, che sorregge il pensiero – mai impaurito e banale – e ne è sorretta. La Maria fanta-siosa, irriverente, trasgressiva, e la Maria tradizionale, at-tenta alle convenzioni, la famiglia, i regali di Natale, le feste comandate, il vestire rassicurante. Ma contrariamente agli effetti nefasti che spesso la compresenza di personalità diverse operano in chi li ospita, in Maria questi due aspetti convivevano con uguale spessore, e l’uno dava respiro e corpo all’altro. La Maria ‘borghese’ poteva esistere solo se sostenuta e nutrita dalla Maria ‘dissidente’, e questa Maria trovava nella prima la sua ancora, la sua salda radice,

sen-In ricordo di Maria 69

za le quali si sarebbe svaporata in un agire sfrangiato come spesso accade nell’autoreferenzialità dell’intellettuale. Io, sua amica, avevo un buon rapporto con la prima perché ero innamorata della seconda, ma non sarei stata tanto presa dalla seconda se non fosse esistita la prima, che ne aumen-tava la verità, la complessità, lo spessore.

Sono felice che più di venti anni della mia vita si siano così strettamente intrecciati con la sua.