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Ricchezza e destino dell’artista

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 181-195)

Maria e Babette 1. Perché Maria e Babette

2. Ricchezza e destino dell’artista

Come si sa, altre due storie scritte da Blixen immediata-mente prima e immediataimmediata-mente dopo “Il pranzo di Babette”,

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affrontano la questione, centrale in tutta la scrittura narra-tiva dell’autrice danese, della ricchezza aristocratica del vero artista; la prima, intitolata “Il pescatore di perle” e pubbli-cata originariamente nel 1954, mostra la sofferta commistione fra realtà e finzione attraverso la vicenda dello studente di teologia Saufe, incapace di relazionarsi alla realtà circostante, preso come è dall’attrazione per il mondo dei sogni e della fantasia, dalle creature alate (uccelli o angeli) al punto da dedicare la sua vita a costruire ali per sé e per gli altri e a vivere con gli uccelli.9 Egli non sa vedere nella danzatrice Thusmu (che a lui sembra volare proprio come un uccello, o come un angelo) la coesistenza di spiritualità e di carnalità; ed è importante che sia proprio mentre è insieme a Thusmu che egli scopra, drammaticamente, che quelle ali che era andato così faticosamente costruendo per potersi elevare fino al mondo degli angeli non solo non fanno più per lui, ma sono del tutto ridotte in rovina:

Il giorno seguente, per farle piacere, egli la condusse, tutta velata, nel suo laboratorio. Allora vide che i topi avevano mangiato le penne da volo delle aquile, e che i telai delle sue ali erano spezzati e sparpagliati qua e là. Li guardò, e ricordò il tempo in cui vi aveva lavorato sopra. Ma la dan-zatrice piangeva.10

Naturalmente, la danzatrice si sente in colpa in quanto era stata inviata specialmente dal ministro del re con il compito di convincere il giovane «ragazzo volante»11 dell’ine-sistenza degli angeli. Ella stessa non è un angelo, come invece si ostinava a pensare il giovane:

9 Karen Blixen, “Il pescatore di perle”, in K. Blixen, Capricci del destino, cit., pp. 50-53.

10 Ibid., p. 50.

Maria e Babette 193 “Ma io, amore,” ella disse, “non so volare, sebbene mi dicano che quando danzo sono di una straordinaria levità. Non essere in collera con me, ma ricorda che Mirzah Aghai e i suoi amici sono potenti, e una povera ragazza nulla può contro di loro. E sono ricchi, e posseggono cose stupende. E tu non puoi pretendere che una danzatrice sia un angelo.”12

La seconda storia, intitolata “Tempeste”, esprime la ne-cessità – sia pure tormentata dai molti turbamenti emotivi cui è sottoposta la vita di Malli, la diciannovenne protago-nista – per la fanciulla che vuole essere una vera artista, di lasciare la vita della quotidiana normalità per divenire at-trice al seguito del suo maestro di recitazione, il capocomico Herr Soerensen.

L’arte, la vera arte, non può fare a meno di rappresen-tare anche l’aspetto brutale della vita, perché un racconto non può esistere senza il suo lato oscuro, senza quel terri-torio di ombre in cui il diavolo può fare la sua parte. È così per tutte le storie di Blixen: in “Carnival”, per esempio, l’oscurità e il nero occupano una parte di rilievo, proprio come nel “Pranzo di Babette” o in altri suoi racconti. E, del resto, per una scrittrice che adorava Degas il colore nero aveva un sapore sacro;13 non è perciò del tutto irrilevante

12 Ibid., p. 54.

13 In una lettera del 1938 scrive di una particolare impressione di un non

identificato dipinto di Degas: «I remember a painting by Degas … it was one big declaration of how glorious, deep, divinely black – the colour black – is. It has been of great joy and comfort to me in life» (in Karen

Blixen in Denmark: Letters, 1931-62, edited by Frans Lasson and Tom

Engelbrecht, Copenhagen, Gyldendal, 1996, vol. I, p. 278: «Ricordo un dipinto di Degas … era una grande affermazione di quanto glorioso, profondo, divinamente nero – sia il colore nero. Mi è stato di grande gioia e conforto nella vita.»)

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che, in “Carnival”, la figura fittizia di un pittore osservi, sviluppando una sua teoria dei colori:

I know that there is, somewhere, a theory that black will make your colouring heavy. It is a very great mistake. On the contrary, it makes for lightness and does away with greasiness, which is the most deadly danger for a painter: the clay, as you know, before the baking is also greasy, soft and heavy, but in the burning pottery becomes black, and grows at the same time hard, dry and light. Thus life. It is necessary to get black into it somehow. You young people know of no black, and what is the result? Alas, that your existence becomes every day more flat and greasy.14

Nel racconto “Il pranzo di Babette”, Babette – mediante la sua grandiosa arte culinaria – mette insieme divino e demoniaco: questa fusione è ottenuta mediante l’introdu-zione del colore nero in un ambiente che è grigio, arido e piatto ed è manifestazione di un’arte aristocratica, in gra-do di muoversi elegantemente senza sbavature fra celestiale e infernale.

Maria, come Babette, introduce un qualcosa di prezioso e insolito – artistico, in fondo – in un ambiente e in

un’at-14 Karen Blixen, Carnival – Entertainments and Posthumous Tales, London,

Heinemann, 1978, p. 71: «So che da qualche parte c’è una teoria secondo la quale il colore nero rende l’arte di dipingere pesante. È un errore davvero grande. Al contrario, il nero contribuisce alla leggerezza eliminando il grasso, che è il pericolo più grande che ci sia per un pittore: come sai, prima della cottura l’argilla è anche grassa, soffice e pesante; mentre cuoce diventa nera e, nello stesso tempo, dura, secca e leggera. Così è anche per la vita. In qualche modo è necessario metterci un po’ di nero. Voi giovani non sapete nulla del colore nero. E quale è il risultato? Ahimé! Che la vostra esistenza diventa ogni giorno più piatta e grassa.»

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mosfera che divengono, inevitabilmente e quotidianamen-te, inquieti, «more flat and greasy». Maria, come il pesca-tore di perle e il narrapesca-tore dello stesso racconto e come la giovane Malli della storia “Tempeste”, si è tenacemente impegnata a produrre una terza possibilità di elaborare la propria storia personale intrecciandola, concretamente e simbolicamente, alle storie degli altri soggetti, soprattutto femminili (ma non solo), del suo mondo. Nel lavorio della tessitura, Maria sembra porsi nella consapevole visione e nella profonda prospettiva del softa Saufe di Shira, famoso e invidiato pescatore di perle, «capace di restare in fondo al mare più a lungo» di tutti gli altri;15 Maria, «capace di restare in fondo al mare più a lungo», sembra accogliere la filosofia che la vecchia sirena con gli occhiali cerchiati di corno ha insegnato al solitario pescatore di perle, offrendo-gli la sua prospettiva di animale marino, un pesce fra i pesci:

“Noi pesci siamo sostenuti e sorretti da ogni lato. Noi posiamo fiduciosi ed armoniosi sul nostro elemento. Noi ci muoviamo in tutte le dimensioni, e qualunque sia la rotta che prendiamo, le acque potenti, in ossequio alla nostra vir-tù, mutano forma per adeguarsi alla nostra.

“Non abbiamo mani, e non possiamo quindi costruire nulla, e non siamo mai tentati dalla vana ambizione di alterare ciò che fa parte dell’universo del Signore. Noi non seminiamo e non lavoriamo, quindi nessuna valutazione di noi può risul-tare falsa, e nessuna speranza essere delusa. I più grandi di noi hanno raggiunto, nelle loro sfere, il buio perfetto. Leg-giamo agevolmente il disegno della terra, perché lo vediamo da sotto.

“Noi ci portiamo dietro, navigando qua e là, ragguagli su avvenimenti che sono perfettamente in grado di provarci la

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nostra posizione privilegiata e di mantenere viva la nostra reciproca solidarietà.”16

È, però, indubitabile che una vita completamente im-mersa nel mare, elemento oscuro e privo di orientamento, fa perdere la possibilità (che l’uomo ha, ma non i pesci) di possedere le ‘mani’ e, quindi, di costruire qualunque cosa sia definibile come rispondente alle aspettative umane. Saufe non sa ancora realizzare quella fusione fra luce e ombra su cui, al contrario, si basa l’arte del raccontare del narratore Mira Jama, che così si rivolge a Saufe:

Ma, molti anni dopo, quando, da giovanetto, cominciai a narrare favole per deliziare il mondo e renderlo più saggio, intrapresi lunghi viaggi verso le rive sabbiose, e i villaggi dei pescatori di perle, perché volevo udire le avventure di quegli uomini, e imparare a raccontarle.

Tante cose accadono, infatti, a coloro che si tuffano in fondo al mare. Le stesse perle sono frutto del mistero e dell’avventura: chi segua la carriera di una perla raccoglie tanto materiale da trarne cento favole. E le perle sono come le favole dei poeti: un malanno trasformato in bellezza, e allo stesso tempo trasparente e opaco, segreti del profondo portati alla luce per piacere alle giovani donne, che vi rico-noscono i più profondi segreti racchiusi nel proprio cuore.17

La vita personale (come quella collettiva) sempre si muove fra gioia e dolore. E quando uno scrittore, una scrittrice, trasforma la propria esperienza privata o le amare espe-rienze di altri in arte, quelle espeespe-rienze sono piene di quel-la bellezza che è propria di un’opera letteraria, che è irrispettosa

16 Ibid., pp. 60-61.

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della tragicità degli eventi che dispiega davanti agli occhi di chi se ne appropria leggendola e decifrandone i sensi molteplici che possiede: ché, anzi, la tragicità della storia narrata si sviluppa magnificamente, rivelando in tal modo lo splendore dell’arte del raccontare. I racconti che ne sca-turiscono gettano una luce liberatoria su chi narra e, pari-menti, su chi legge. Come afferma Hansen, infatti, i raccon-ti allentano le tensioni e sciolgono le repressioni, perché portano alla luce i segreti liberandoli dalla profondità abissale in cui sono sepolti.18

Maria, come le figure fittizie del primo racconto, sembra aver seguito una filosofia analoga a quella di Blixen nel costruire il suo sistema narrativo su Donne e proprietà: non so se ciò accadesse con la sua piena consapevolezza o se l’introiezione dell’universo blixeniano fosse talmente pro-fonda che automaticamente venisse messa in atto.

Per una ulteriore riflessione sull’analogia dell’artista di Blixen e dell’artista Maria Stella, basti vedere più da vicino il secondo racconto, quello scritto dopo “Il pranzo di Babette”. In “Tempests” di nuovo Blixen discute una visione aristo-cratica dell’arte mediante la scelta, sofferta e tempestosa, che Malli deve compiere fra l’universo, piatto e arido, del-la casa deldel-la famiglia borghese dei genitori di Arndt (suo fidanzato), l’intermezzo tragico dell’amore e della morte di Ferdinand (il marinaio insieme al quale Malli ha posto in salvo la nave in naufragio e tutti coloro che trasportava, che apparteneva alla famiglia di Arndt – ma Ferdinand è anche il nome del principe della Tempest shakespeariana in cui Malli recita la parte di Ariel) e l’universo artistico

rap-18 Franz Leander Hansen, The Aristocratic Universe of Karen Blixen. Destiny

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presentato dalla magica compagnia teatrale di Herr Soerensen. Malli non può sottrarsi al suo destino che la porta a espri-mere, crudelmente in una lettera d’addio a Arndt, il suo desiderio e la sua passione di essere un’artista, un’attrice. Scrive Malli:

Ecco, l’ora è finita. Intanto ho pensato a due cose. La prima delle due è questa: quando salperò di nuovo da qui potrò nuovamente capitare in una tempesta come quella del Kvasefjord. Questa volta, però, capirò chiaramente che non è una commedia in teatro, ma è morte. E mi sembra che allora, nell’ultimo momento prima di affondare, io potrò essere tua in tutta verità. E penso che sarà bello e superbo lasciare che il battito dell’onda copra il battito del cuore. E in quel-l’ora dire: “Mi sono salvata perché t’ho incontrato e t’ho guardato, Arndt!”

Ma l’altra delle due cose è questa: se ora udissi i tuoi passi sulle scale dell’ufficio, e tu venissi in questa camera, da me! Ora mi sembra che i momenti in cui ho udito i tuoi passi sulle scale sono stati i più felici di tutta la mia vita […]

Addio, allora. Addio, Arndt.

Tua, respinta e senza fede sulla terra, ma fedele nella morte, nella risurrezione, nell’eternità.19

La fedeltà all’impulso artistico è ciò che spinge Malli a lasciare e a tradire la casa degli Hosenwinckel e l’amore di Arndt, per trovare conforto nel vecchio e saggio capocomico, come una figlia che trovi consolazione e sostegno fra le braccia del genitore:

Herr Soerensen si affacciò tre volte sopra al paravento, via via che s’insaponava e si radeva, per osservarla attenta-mente. Ma non disse una parola.

Maria e Babette 199 Alla fine entrò nella stanza raso di fresco e con la parruc-ca, avvolto in una vestaglia la cui imbottitura schizzava fuori qua e là. Malli si alzò e si buttò nelle braccia di lui e trema-va tanto che non riuscitrema-va a parlare. Herr Soerensen non fece alcun tentativo per calmarla e non la abbracciò nemmeno, ma lasciò che gli si aggrappasse contro come chi sta per annegare si aggrappa a un pezzo di legno.20

Di nuovo, l’immagine del naufragio e della ricerca della salvezza, dell’ancoraggio in un porto sicuro – quello del-l’arte – entrano a far parte del mondo di Malli e del mondo di Babette, la comunarda che (dopo il massacro di marito e figlio nel bel mezzo della rivolta a Parigi) ha perduto ogni cosa, è costretta a farsi esule e a lasciare dietro di sé la sua rinomata posizione di cuoca al Café Anglais di Pa-rigi; ugualmente, Babette è come una naufraga travolta da una tempesta che l’ha condotta a Berlevaag, nella casa delle due pie sorelle Martina e Filippa (che non potevano che essere chiamate con nomi che richiamano quelli di Martin Lutero e Filippo Zelantone) succubi dell’autorità repressiva del diacono, loro ferreo padre. Qui, nella casa gialla di Berlevaag, l’esule francese Babette soffre in silenzio per dodici anni a governare un luogo in cui tutto ciò che ha a che fare con il piacere del cibo è escluso e condannato come pecca-to.

3. Babette

Ma è solo dopo che Babette ha ottenuto il permesso di al-lestire il sontuoso banchetto (che è un vero e proprio pec-cato, collettivo e individuale, per l’intera comunità di Berlevaag e, ancor di più, per la casa delle due sorelle, che hanno

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rinunciato alla vita fin dall’età di sedici e diciassette anni) che ci si rende conto pienamente del significato di questa figura di ribelle, costretta dal destino a reprimere i suoi istinti di libertà artistica e di possibilità di arrecare piacere a se stessa e agli altri, anche a coloro contro i quali aveva duramente e tragicamente combattuto. In primo luogo, le due sorelle non capiscono perché Babette abbia dato via tutti i soldi vinti in una lotteria per un pranzo, anche se un magnifico pranzo:

“Cara Babette,” disse [Filippa] con dolcezza, “Non dove-vate dar via tutto quanto avedove-vate per noi.”

Babette avvolse le sue padrone in uno sguardo profondo, in uno strano sguardo: non v’era, in fondo ad esso, pietà, e fors’anche scherno?

“Per voi?” replico. “No. Per me.”

Si alzò dal ceppo e si fermò davanti alle sorelle, ritta. “Io sono una grande artista,” disse.

Aspettò un momento, poi ripeté: “Sono una grande arti-sta, mesdames.”

Poi, per un pezzo, vi fu in cucina un profondo silenzio.21

In secondo luogo, non si capacitano di come Babette possa rimpiangere i tempi in cui entravano al Café Anglais proprio quei signori contro i quali ella aveva combattuto e che risuonano assai familiari all’orecchio della sorella mi-nore, Filippa, che aveva rinunciato a divenire una famosa cantante di opera proprio a Parigi:

“Ma tutte le persone che avete ricordato, quei principi, quei gran signori di Francia che avete nominato voi, Babette? Voi stessa avete combattuto contro di loro. Eravate una

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Communard! Il generale che avete nominato ha fatto fucilare

vostro marito e vostro figlio! Come potete piangerli?”22

Babette risponde con fierezza:

“Sì,” disse, “ero una Communard. Grazie a Dio ero una

Communard! E tutte le persone che ho nominato, mesdames,

erano malvage e crudeli. Hanno fatto morire di fame il po-polo di Parigi, hanno oppresso i poveri e li hanno trattati ingiustamente. Grazie a Dio, sono stata su una barricata, e ho caricato il fucile per i miei compagni uomini! Ma tutta-via, mesdames, non tornerò a Parigi ora che le persone di cui ho parlato non ci sono più.”23

È una consapevolezza di classe, di appartenere a un lato della barricata, quella che ancora affiora dal ricordo dolo-roso di Babette. Di più, Babette sa che la sua vita di artista al Café Anlglais era stata apprezzata e resa possibile pro-prio da quelle persone detestabili. Eppure:

“Perché, mesdames,” disse, alla fine, “questa gente mi apparteneva, era mia. Era stata allevata ed educata, con una spesa molto maggiore a quella che loro, mie graziose signo-re, potranno mai immaginare o credesigno-re, a capire quale grande artista sono io. Potevo renderla felice. Quando facevo del mio meglio riuscivo a renderla perfettamente felice.”24

Più che una contraddizione, la posizione cui Babette dà vita sembra esser espressione di una possibilità di superare i confini di classe in un gioco universalizzante che si

muo-22 Ibid., pp. 44-45.

23 Ibid., p. 45.

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ve fra ironia e rassegnazione; infine, essa si configura come rivolta insopprimibile nei confronti di coloro che non san-no assaporare il gusto della vita. Anche nei confronti delle sorelle, che in lei trovano, dopo il padre, un altro punto di riferimento, un’altra autorità quasi ‘materna’, che fa loro recuperare il mondo di una fanciullezza e di un’adolescen-za ormai perdute per sempre. Il piacere nascosto, l’aspetta-tiva malcelata di un’evocazione demoniaca che possa esse-re vero e proprio esordio per un sabba di stesse-reghe e la cer-tezza di star commettendo un gravissimo peccato sono gli elementi con i quali gioca l’arte di Babette, un’arte che era stata paragonata una volta dal colonnello Gallifet (le cui parole ora erano ricordate con stupore dal generale Loewenhielm, durante il pranzo di Babette) a una vera e propria seduzione d’amore:

Gli aveva poi spiegato che quel piatto era stato inventato dal cuoco dello stesso café in cui stavano pranzando, perso-na nota in tutta Parigi come il più grande genio culiperso-nario dell’epoca, e – tanto più sorprendente – quel cuoco era una donna! “Infatti,” diceva il colonnello Galliflet, “questa don-na sta ora trasformando un pranzo al Café Anglais in udon-na specie di avventura amorosa – una di quelle avventure amorose nobili e romantiche in cui non si distingue più tra la fame, o la sazietà, del corpo e quella dello spirito!”25

Di nuovo, il superamento dei confini fra profano e sacro sembra essere al centro di questa storia e al centro di ciò che la papista Babette dimostra di essere e di fare con la sua presenza a Berlevaag nella casa gialla delle due signo-rine puritane Martina e Filippa, con il suo sontuoso

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chetto francese, preparato nello spirito della pétroleuse che era stata a Parigi dodici anni prima e, cosa alquanto diffi-cile da accettare per le due sorelle, i cui ingredienti sono acquistati con i diecimila franchi che Babette ha vinto alla lotteria:

Ma aveva altro da dire. Voleva, disse, cucinare un pranzo francese, per questa volta. Martina e Filippa si guardarono. L’idea non piacque loro, non riuscivano a prevederne le conseguenze. Ma la stranezza stessa della richiesta le disar-mò. Non avevano argomenti per opporsi alla proposta di

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