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Patrizia Fusella

Nel documento Maria Stella(foto di Marcello Mochi Onori) (pagine 195-200)

Educare, accompagnando:

M. B., Mrs. Leicester e Mary Lamb

Per Mary Lamb, mai sposata, che convisse con il fratello per la maggior parte della sua vita,1 dopo che fu uscita dalla casa di cura in cui era stata rinchiusa per aver ucciso sua madre in un attacco di follia; per Mary Lamb, che in-sieme al fratello scrisse la maggior parte dei suoi lavori, pubblicati prevalentemente sotto il nome di lui o anonimi, l’esperienza della maternità fu ignota, non ebbe mai una

1 Per la biografia di Mary Lamb vedi: P. Fitzgerald (ed.), The Life, Letters

and Writings of Charles Lamb (The Temple Edition), London, Gibbins Co.

Ltd./Philadelphia, J. B. Lippincott Co., 1903, 6 vols.; E. W. Marrs (ed.),

The Letters of Charles and Mary Lamb, Ithaca, Cornell University Press,

1976, 3 vols.; K. Anthony, The Lambs: A Story of Pre-Victorian England, New York, Knopf, 1945; M. Kirlew, Famous Sisters of Great Men. Henriette

Renan, Caroline Herschel, Mary Lamb, Dorothy Wordsworth, Fanny Mendelssohn,

London, Thomas Nelson & Sons, 1905; H. R. Ashton & C. K. Davies, I

Had a Sister: A Study of Mary Lamb, Dorothy Wordsworth, Caroline Herschel, Cassandra Austen, London, Lovat Dickson, 1937; M. Polowetzky, Prominent Sisters: Mary Lamb, Dorothy Wordsworth, and Sarah Disraeli, Westport, Conn./

London, Praeger, 1996; S. Burton, A Double Life: A Biography of Charles &

Mary Lamb, London, Viking Penguin Inc., 2003. Egualmente utili e

inte-ressanti si rivelano due romanzi biografici: uno degli anni ’30 e uno recentemente pubblicato: E. Thornton Cook, Justly Dear: Charles and Mary

Lamb. A Biographical Novel, London, John Murray, Albemarle Street, W.,

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figlia cui potersi rivolgere, dicendo, come fa Maria Stella, in “Accompagnarti”: «figlia mia misteriosa/piccolo ago/ penetrato/e uscito/dalla mia carne».2 Eppure, con i suoi scritti per l’infanzia, Mary Lamb tentò di costruire un «filo» simile a quello di cui parla Maria Stella, un filo che, srotolandosi, venisse preso, «all’altro capo», dalle sue let-trici e costituisse un punto di riferimento nel loro processo di crescita.

Nei versi appena citati dalla bella poesia di Maria Stella (non ‘la più bella’, perché io riservo questa preferenza per “Elastico”) l’uso ripetuto del possessivo «mia» più che in-dicare possesso (della figlia e del proprio corpo) rimanda a quel senso di accoglienza e ospitalità che un certo femmi-nismo ha indicato come specificamente femminile:3 la car-ne della donna accoglie il corpo dell’altro, che la pecar-netra, e il corpo, che – nato e sviluppatosi dentro di essa – da essa uscirà. Il corpo femminile viene prestato. Questa aperta disponibilità nei confronti dell’altro si ripropone nei versi subito successivi, nella relazione che la madre intesse con la figlia; il piccolo ago, ormai uscito dalla sua carne, vi rimane legato per un filo, un filo che si srotola e che potrà essere tagliato via solo a un certo punto, solo quando, come avviene per il cordone ombelicale, non sarà più necessario alla figlia:

2 Pubblicata postuma, la raccolta delle poesie di Maria Stella –

Accom-pagnarti, Valverde (CT), Il Girasole Edizioni, 2004 – ha svelato un suo

aspetto ignoto e proprio la poesia che dà il titolo al bel volumetto ha ispirato questo mio contributo; la poesia occupa le pp. 33-34.

3 Si tratta di una tematica del discorso critico femminista che ne

trascen-de e attraversa i diversi settori; valga per tutti menzionare l’opera di Luce Irigaray e, in particolare, la sua divulgazione della teoria della biologa Hélène Rouch su “La placenta come terzo”, in Io, tu, noi. Per una

Educare, accompagnando: M. B., Mrs. Leicester e Mary Lamb 207 Che non si spezzi

il filo che tiri via veloce dietro di te che all’altro capo

io resti ancora nodo fermo

nella gugliata della tua vita che almeno ti accompagni finché

libera infine la cruna sappia

da sola

pungere il mondo.

Attraverso questa densa immagine del filo e dell’ago – tipicamente femminile, perché si basa sulle occupazioni del cucito, del ricamo e del tessere che la tradizione ha a lungo connesso con le donne4 – Maria Stella dice molte cose e condensa la sua idea sul legame madre-figlia e sul delicato compito materno di far diventare i figli soggetti autonomi ed equilibrati: i tre ottativi in successione indicano sia il graduale processo con cui la madre sarà via via meno pre-sente nella vita della figlia, sia la speranza che ciò avvenga nel modo giusto, sia il timore che ciò non si verifichi.

Il verbo ‘spezzare’, nel primo ottativo, implica che il filo è mantenuto stretto a entrambi i capi: esso può spezzarsi proprio perché né figlia, né madre lo lasciano andare; è la prima fase del rapporto: la ragazzina non è pronta a lascia-re andalascia-re la plascia-resa, nonostante scalpiti per lascia-rendersi

autono-4 Più che Aracne, voglio ricordare che la Lamb, sarta in gioventù, nel

1814 pubblicò un saggio intitolato “On Needlework”; cfr: E. V. Lucas (ed.), The Works of Charles and Mary Lamb, London, Methuen, 1903-5, 3 vols., I, pp. 176-180.

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ma; la mamma, consapevole di essere ancora necessaria alla figlia che tira via il filo veloce dietro di sé, lo fa srotolare, mentre, però, lo mantiene stretto. Ma il pericolo che il filo si spezzi, tuttavia, non dura a lungo perché, con gli ottativi successivi, si rende evidente l’ambizione materna a essere una presenza non ingombrante nella vita della figlia. In effetti, ciò che colpisce di più in questi versi è il profondo rispetto dell’autonomia della figlia: innanzitutto, l’autrice dice «il filo che tiri via veloce ‘dietro’ di te» e non ‘da me’, che avrebbe implicato non solo la focalizzazione del verso sulla madre, ma anche un evidente dispiacere della mam-ma rispetto all’allontanamento della figlia. Inoltre, nell’auspica-re di nell’auspica-restanell’auspica-re nodo fermo, la madnell’auspica-re dice: «nella gugliata della ‘tua’ vita» e questa metafora accavalla il filo del lega-me dei versi precedenti con il filo della vita, una vita che è durata un certo tempo (la gugliata è la quantità di cotone che si infila di volta in volta nella cruna dell’ago per cuci-re) e che appartiene alla figlia, ago nella cui cruna c’è sia il filo della vita che il filo del legame con la madre; que-st’ultima, però, non tiene più stretto a sé l’altro capo del filo e si è tramutata in un nodo simile a quello che si fa al cotone, quando si cuce: la figlia, cioè, è ormai in grado di tessere la tela della sua vita, salvo la necessità, ove si veri-fichi, di trovare nella madre un punto fermo o, almeno, una presenza rassicurante, una compagnia, una compagna. La disponibilità materna ad abbandonare anche quest’ulti-mo ruolo educativo e a tramutarsi in un filo, che non an-nodato, potrà essere sfilato dalla cruna dell’ago, coincide con il raggiungimento della piena autonomia della figlia, capace «da sola» di «pungere il mondo».

In questi versi, però, come ho già accennato, si legge anche il timore di non ‘saper’ essere accanto alla figlia nel modo giusto o, anche, la paura di non ‘poterle’ essere vicina, di

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venir meno, prematuramente, al proprio compito e al bellis-simo legame.5 Con il primo ottativo si fa presente anche la possibilità che la bambina/ragazzina dia uno strattone trop-po forte o che la mamma non faccia srotolare il filo con la necessaria e sufficiente rapidità; inoltre, il filo – che come abbiamo visto, tre versi dopo, si accavalla e si confonde con il filo della vita – potrebbe spezzarsi perché si spezza la vita. L’evocazione di quest’ultimo pensiero viene rafforzata dai due avverbi dei versi successivi – «ancora», «almeno» – il primo, espresso insieme alla paura di non avere le forze per essere nodo fermo6 e il secondo che si collega alla proposi-zione temporale introdotta dalla congiunproposi-zione «finché»: la madre spera di vivere almeno fino a quando la figlia sarà in grado di vivere la sua vita da sola. Invece, rispetto al timore di non essere all’altezza del compito, la presenza dei due avverbi chiama in causa la difficoltà del compito stesso; la mamma teme di non saper aggiornare la propria posizione rispetto al passare del tempo e alle esperienze della figlia, non è dato per scontato che ella sarà sempre in grado di rappresentare quel nodo fermo, spera di esserlo «ancora», ma subito ridimensiona l’offerta: di fronte al mondo che cambia e che ora vede anche attraverso lo sguardo della figlia, spera di saperla almeno accompagnare.7

5 Non conosco la data di composizione di questa poesia e non sono in

grado di dire, dunque, se vi siano implicazioni autobiografiche relative alla malattia di Maria; sono convinta, però, che se anche ci fossero, lo sforzo dell’autrice è stato di tendere all’universalità e all’impersonalità e, pertanto, avrebbe giustamente ritenuto restrittiva una lettura biografica.

6 Come è tipico del linguaggio poetico, questo verso, da un lato,

acca-valla la ‘fermezza’ del nodo alla ‘forza’ della persona che sta bene in salute e, dall’altro, esprime contemporaneamente la paura di non aver le forze e la speranza di averle.

7 C’e anche un altro livello di lettura di questi bellissimi versi che mi

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La profondità e complessità dei pensieri e sentimenti relativi alla maternità in “Accompagnarti” si riaffaccia, qua e là, negli altri scritti creativi di Maria Stella: la tolleranza e l’ospitalità dei napoletani nelle sue “Prime note per un diario napoletano”; i dubbi della professoressa in “Distanza” che, non più giovane, avverte ormai la distanza che la vita ha creato tra sé e gli studenti, non sa cosa offrire, ma sente il desiderio di accarezzarli maternamente; il timore di assu-mere posizioni inconsapevolmente rigide, di ‘annodare la molla’ «in un’immota/compatta spirale», in “Scatto”; l’in-no all’elasticità all’interl’in-no della vita e del rapporto d’amo-re in “Elastico”.8 Ed è da analoga prospettiva che Maria Stella deve aver scelto alcuni ambiti di ricerca che hanno

non si collega con il discorso sulle tre donne che compaiono nel titolo di questo mio saggio. I due avverbi evocano, infatti, anche la difficoltà del distacco della mamma dalla figlia, e i versi risultano così pervasi, per quanto in tono minore, sia da un lieve senso di nostalgia per quel legame iniziato nella carne materna, sia dalla difficoltà di accettare supinamente il desiderio di distacco della figlia che crea una distanza sempre maggiore: «che […] io resti ancora», «che almeno ti accompa-gni», si caricano, così, anche di un tono di implorazione dovuto, questa volta, non alla preoccupazione che la figlia si ritenga autonoma quan-do, in effetti, ancora non lo è, ma alla nostalgia per l’ormai lontano legame di totale dipendenza filiale in cui la madre era garante principa-le del benessere della piccola. La densità e compprincipa-lessità delprincipa-le emozioni connesse con l’esperienza della maternità mi appare egregiamente espressa da Maria Stella, tanto che il verso con cui abbiamo cominciato, «piccolo ago penetrato e uscito dalla mia carne», evoca anche, per un attimo fuggevole, quella sovrapposizione di significati tra ospitalità e ostilità a lungo indagata da Derrida: l’ospite è anche nemico, ago che penetra e esce, che se ne va via dopo essersi servito, che pensa a sé tirandosi via il filo, che si allontana incurante di chi lo ha ospitato, di ciò che si lascia alle spalle (cfr. J. Derrida, Sull’ospitalità, a cura di A. Dufourmantelle, tr. it. I. Landolfi, Milano, Baldini & Castoldi, 2002).

8 Questi scritti sono tutti contenuti nel volume già citato, Accompagnarti;

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