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Critiche alla nozione di essenza

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 106-112)

Manuele Dozzi

3. Critiche alla nozione di essenza

L’esistenza di essenze nella realtà non è qualcosa su cui ci sia un consenso ge-nerale. Un esempio attinto dal panorama filosofico contemporaneo è costituito dal noto filosofo naturalista Willard Van Orman Quine6 (1990, 140). Le sue ragioni principali per rigettare la nozione di essenza dipendono da una diffi-denza, derivante da considerazioni humiane, nei confronti dell’idea di necessi-tà. Come si è visto in precedenza, le cose particolari possiedono necessariamen-te la propria essenza poiché questa contribuisce a denecessariamen-terminare la loro identità

6 Quine è anche noto per essere stato fortemente critico rispetto alle logiche modali quan-tificate e alla modalità de re che queste consentivano di esprimere, ma tale avversità si spiega a partire dal suo rigetto della nozione di necessità. Si veda a tal proposito Oderberg (2007).

e le loro condizioni d’esistenza. Lo stesso non vale tuttavia per tutte le proprie-tà che un individuo possiede. Sembra infatti plausibile che la proprieproprie-tà di esse-re abbronzato possa esseesse-re acquisita o persa da un individuo senza che ciò in-fluisca sulla sua identità. Ne segue che un essere umano possiede necessaria-mente la sua umanità ma non la sua abbronzatura. Negare che abbia senso parlare di necessità, comporta quindi mettere in discussione la nozione di es-senza. Se infatti tutte le proprietà essenziali sono necessarie, non ci sono pro-prietà necessarie, allora non ci sono neanche propro-prietà essenziali.

Nel corso della storia della filosofia, alcuni pensatori si sono mostrati scetti-ci rispetto al fatto che le essenze delle cose siano in effetti conosscetti-cibili. In altre parole, anche ammettendo che le essenze esistano, noi non saremmo in grado di conoscerle. Questa è la posizione sostenuta da John Locke (1975, III.iii.15) secondo il quale le essenze reali sarebbero appunto inconoscibili poiché nasco-ste. Tutto ciò di cui disponiamo sono solo essenze nominali, ovvero idee astrat-te costruiastrat-te metastrat-tendo assieme alcune caratastrat-teristiche sensibili degli oggetti della nostra esperienza. Tali idee costituiscono il significato di termini generali come, ad esempio, ‘essere umano’, ‘cane’, ‘ciliegio’, ‘mammifero’, ecc… Le essenze nominali sono così creazioni dell’intelletto umano e sono costituite dalle pro-prietà che noi consideriamo essenziali. Le essenze reali, quelle che rendono ogni oggetto ciò che è, ci sarebbero invece sconosciute poiché al di fuori della nostra portata conoscitiva.

Un’ulteriore prospettiva che si pone in contrasto con l’idea per cui gli esse-ri umani sarebbero ciò che sono in virtù della loro essenza è quella di Jean-Paul Sartre (1946). Di per sé la posizione di Sartre non è incompatibile con l’affer-mazione che nel mondo ci sono essenze, tuttavia nega che ci sia un’essenza umana. Da questo punto di vista, l’uomo è il risultato delle sue scelte e delle sue azioni, l’uomo è ciò che si fa. In questo senso quindi, ciò che l’uomo è non precede la sua esistenza, ma la presuppone; l’uomo prima di farsi sarebbe nul-la (Sartre 1946, 28). Sartre propone l’esempio di un fabbricante che produce un tagliacarte. Il fabbricante in questione concepirebbe l’idea del tagliacarte al fine di realizzarlo concretamente, tale idea sarebbe l’essenza del tagliacarte il quale, una volta realizzato, inizierebbe a esistere. Tuttavia, nel caso dell’uomo non ci sarebbe una figura analoga al fabbricante e di conseguenza non ci sareb-be un’essenza che ne preceda l’esistenza. Se le cose stanno così, conclude Sar-tre, l’uomo non ha un’essenza e può fare di sé ciò che desidera.

La prospettiva di Sartre implica che l’identità di un certo individuo non sia dipendente dalla sua essenza. Sembrerebbe infatti presuppore che una stessa persona sia inizialmente qualcosa di indeterminato e divenga successivamente ciò che essa stessa si fa. L’identità dell’individuo sembra quindi permanere al variare della sua essenza. Va specificato che la posizione essenzialista, come si è visto, non comporta che un essere umano non possa subire alcun tipo di

Identità

mutamento, anzi, è in virtù della nostra umanità che possediamo le potenziali-tà tipicamente umane. Nella posizione di Sartre invece, sembra venire meno la distinzione tra un’identità metafisica e una individuale, ma in tal modo viene meno anche il ruolo normativo della prima rispetto alla seconda. Se le cose stanno così, non è ben chiaro come sarebbe possibile ritenere sbagliato l’iden-tificarsi, come nell’esempio visto precedentemente, come membro di un grup-po neo-nazista.

Un’altra posizione tradizionalmente considerata anti-essenzialista e che ha esercitato una grande influenza sui filosofi di area analitica è quella attribuita a Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche (1953). L’anti-essenzialismo di Wittgen-stein consisterebbe nell’affermazione che l’apparenza che nella realtà ci siano essenze sarebbe una sorta di illusione generata dalla grammatica del nostro linguaggio. Nella prospettiva wittgensteiniana, le essenze sarebbero, con le parole di Peter Hacker (1990, 438), «un’ombra proiettate dalla grammatica sulla realtà». La nozione che Wittgenstein chiamerebbe in causa per giustifica-re l’applicabilità di uno stesso termine generale a individui numericamente di-versi sarebbe quella di somiglianza di famiglia. La somiglianza di famiglia è una relazione che sussiste tra un gruppo di oggetti senza che tuttavia ci sia un insie-me di proprietà che tutti possiedono. Siano a, b e c tre oggetti appartenenti alla famiglia F, la somiglianza tra a e b potrebbe essere dovuta, secondo la prospettiva wittgensteiniana, al fatto di condividere una proprietà che non è la stessa che rende simili b e c o c e a. L’appartenenza di a, b e c a F è determinata dal fatto che essi si somigliano fra loro, ma ognuno è simile all’altro in modi diversi. Queste somiglianze risultano quindi piuttosto vaghe, il che rende il nostro uso di termini generali come ‘uomo’, ‘cane’, ‘cavallo’, ecc… in qualche modo arbitrario. L’uso di uno stesso termine per individui diversi genera l’illu-sione che ci sia un’essenza a essi comune.

Sebbene quella illustrata sopra sia l’interpretazione più diffusa della posizio-ne di Wittgenstein rispetto alle essenze, non è l’unica7. Chi difende l’idea se-condo cui la posizione wittgensteiniana non sarebbe anti-essenzialista basa la sua tesi sulla considerazione del passo delle Ricerche Filosofiche (#361) in cui si legge che «l’essenza è espressa nella grammatica». In effetti, affermare che l’essenza è espressa nella grammatica non equivale ad affermare che l’essenza è un prodotto della grammatica o un’illusione da essa generata. La realtà non sarebbe, secondo questa interpretazione, un ammasso informe che noi suddivi-diamo arbitrariamente mediante l’uso del linguaggio. Se infatti l’essenza è espressa nella grammatica, sembra plausibile supporre che in qualche modo sia

7 Per un’interpretazione alternativa a quella predominante si vedano Ring (2019), Pouivet (2014) e Anscombe (1981).

già presente nel mondo indipendentemente dalla grammatica. Secondo questa lettura, il linguaggio si ancora alla realtà in virtù di un certo grado di isomorfi-smo tra la sua struttura grammaticale e quella delle cose nel mondo. Ciò tutta-via implica che la realtà possiede una struttura che non solo precede il linguag-gio, ma che è la condizione di possibilità dell’esistenza di qualsiasi linguaggio. Linguaggi diversi potranno avere strutture diverse, ma per riferirsi alle cose nel mondo, dovranno comunque possedere un certo grado di isomorfismo con esse. Il fatto che il significato dei termini consista nel loro uso non implica un abbandono dell’essenzialismo, ma anzi, secondo la prospettiva appena illustra-ta, lo presuppone. In questo senso, nota Pouivet (2014, 462), ci sarebbe una certa analogia tra l’approccio adottato da Aristotele nelle Categorie relativa-mente alla predicazione e l’idea wittgensteiniana per cui l’essenza è espressa nella grammatica.

Se la posizione per cui il linguaggio necessita di riprodurre certe caratteri-stiche essenziali della realtà per poter funzionare è corretta, allora è possibile considerare l’esistenza stessa del linguaggio come un indizio della presenza nel mondo di certi aspetti essenziali. I termini che utilizziamo hanno un significato che è in parte costituito dal loro uso e questo uso, regolato dalla grammatica, riproduce certe caratteristiche essenziali delle cose nel mondo. In un certo senso quindi, saper utilizzare un termine come ‘essere umano’ implica possede-re un’idea, seppupossede-re vaga, dell’essenza dell’uomo. Se, come si è affermato ppossede-re- pre-cedentemente, la dignità umana è strettamente legata alla natura umana, allora non è assurdo supporre che ciò emerga anche sul piano linguistico nell’utilizzo del termine generale ‘essere umano’. Dal momento che l’umanità è costitutiva dell’identità di ogni singolo essere umano, è legittimo supporre che il legame tra umanità e dignità emerga anche nell’uso dei nomi propri come ‘Carola’ o ‘George’. Se la tesi per cui il linguaggio funziona perché riproduce nella sua sintassi certi aspetti essenziali della realtà è corretta, allora la constatazione che parliamo e comprendiamo una lingua costituirebbe una contro argomentazio-ne a tutte la posizioni anti-essenzialiste considerate argomentazio-nelle righe precedenti.

4. Conclusione

In conclusione, l’identità risulta rilevante rispetto al tema della dignità umana poiché l’identità di ogni individuo è determinata dalla sua umanità. Riconosce-re l’identità è quindi necessario per riconosceRiconosce-re a ognuno il rispetto che gli spetta in quanto essere umano, ma questo significa che il rispetto è dovuto in virtù di ciò che un individuo è. Ciò che un individuo è risulta determinato dalla sua essenza e di conseguenza il riconoscimento di ciò che è essenziale nell’uomo sembra anche essere indispensabile per il riconoscimento della sua

Identità

dignità. Se quanto è essenziale nell’uomo è ciò da cui deriva la sua dignità e ciò da cui deriva la sua dignità è necessariamente posseduto da ogni uomo, allora ogni uomo è necessariamente degno. Sebbene quindi i singoli esseri umani si-ano tutti numericamente diversi gli uni dagli altri, c’è un senso in cui sono in-vece tutti uguali. Sono tutti esseri umani. Il riconoscimento che l’umanità in ognuno di noi è qualcosa di essenzialmente degno di rispetto pone anche certi vincoli sul modo in cui ci dobbiamo rapportare gli uni con gli altri. Riconosce-re l’umanità altrui equivale a vedeRiconosce-re nell’altro ciò che Riconosce-rende noi stessi degni di essere rispettati.

Riferimenti bibliografici

Anscombe, The Question of Linguistic Idealism, in From Parmenides to Wittgenstein, 1. The

Collected Philosophical Papers of G. E. M. Anscombe, Oxford, 1981, 112 ss.

Hacker, Wittgenstein: Meaning and Mind, 3. An Analytical Commentary on the Philosophical

Investigations, Oxford, 1990.

Locke, An Essay Concerning Human Understanding, Nidditch (ed.), Oxford, 1975 [1689]. Oderberg, Real Essentialism, New York-London, 2007.

Pouivet, Wittgenstein’s Essentialism, in Dutant, Fassio, Meylan (eds.), Liber Amicorum Pascal

Engel, Geneva, 2014, 449 ss.

Quine, Quiddities, London, 1990.

Ring, Wittgenstein on Essence, in Philosophical Investigations, 2019, 1, 3 ss. Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo, Mursia Re (trad. it.), Milano, 1946.

Wittgenstein, Philosophical Investigations, Anscombe, Rhees (eds.), Anscombe (trad. ing.), Ox-ford, 1953.

Inclusione

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 106-112)