Paola Di Nicola Travaglini
1. Una storia di dominio e sopraffazione
Se parliamo dell’‘uomo’ intendiamo l’intera umanità, costituita da uomini e donne. L’uomo è misura di tutte le cose, è il modello unico cui aspirare e su cui plasmare il mondo e le persone. Se parliamo della ‘donna’, invece, non possiamo che riferirci a un singolo individuo appartenente al genere femmini-le, privo di universalità; al più, se utilizziamo questa parola, ci viene alla men-te chi fa le pulizie in casa (la donna). Tutto quanto riguarda il genere maschile rimanda al potere, al coraggio, alla storia, al pensiero; tutto quanto riguarda il genere femminile restituisce minorità, fragilità, singolarità, istintualità. È una storia millennaria.
Nell’antica Roma e ad Atene, immediatamente dopo il parto, il neonato veniva deposto in terra: se il pater familias lo sollevava, il rito del riconoscimen-to era compiuriconoscimen-to e quel piccolo entrava a pieno tiriconoscimen-tolo nella famiglia e nella so-cietà; altrimenti veniva esposto, cioè abbandonato. Questo era spesso il destino dei bimbi deformi o illegittimi e delle femmine, anche se sane.
Il commediografo greco Posidippo nel 270 a.C. scriveva «un figlio maschio lo si alleva sempre anche se si è poveri. Una femmina la si espone anche se si è ricchi» (Posidippo, frammento 11 K). Quando la neonata sopravviveva, doveva corrispondere al modello della Tacita Muta (Cantarella 1985), divinità romana che per la leggerezza di avere parlato era stata punita da Giove con il taglio della lingua e poi violentata da Mercurio approfittando del suo obbligo al si-lenzio. Rendere la donna priva di espressione pubblica è stato il più potente strumento sociale e culturale per confinarla nello spazio privato, senza capacità trasformative e rappresentative: inesistente. Il mito latino e greco, su cui si plasma la nostra cultura occidentale, ci rimanda una donna silente, tacitata con la recisione della parte del corpo necessaria a trasmettere il suono ai pensieri e, al più, in grado di replicare senza autonomia, come Eco, la parola altrui. Poi c’è la religione le cui scritture, tradizionalmente, sono state interpretate per legitti-mare la denigrazione e la sottomissione femminile attraverso l’immaginario simbolico di Eva, derivata dalla costola di Adamo, che ruba il frutto proibito e che si trasforma nell’archetipo della tentatrice, trascinando con sé ogni donna futura (Maggi 2020, 31). Questi racconti, mitologici o religiosi, non sono favo-le, ma specchi di una precisa struttura culturale che si radica tanto profonda-mente nel nostro tessuto sociale da trasformarsi in quello che ciascuno di noi ritiene un vero e proprio ‘ordine naturale’.
Invece, mettere a fuoco la millenaria impalcatura di questi meccanismi di dominio ce ne rivela il carattere contingente e storico, liberandoci dalla prede-stinazione di massa. Le organizzazioni simboliche e sociali sono costruite, a li-vello globale, intorno a un nucleo fondato sulla gerarchia dei generi: a) con una rigida esclusione delle donne da tutti i settori (dai luoghi del gioco e dello sport a quelli della politica e della finanza); b) con una loro assegnazione, pressoché esclusiva, alla sfera domestica, unica che consente la liberazione dal peccato originale del tradimento di Eva.
Per compiere questa operazione è indispensabile un lavoro sottile e conti-nuo di sistematica svalutazione della dignità delle donne e delle loro capacità, a partire dall’autorevolezza del loro pensiero e della loro parola. Pensiamo alla Prima lettera a Timoteo, attribuita dalla tradizione all’autorità dell’apostolo Paolo: «La donna impari in silenzio, con perfetta sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. In-fatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia essa si salverà mediante la generazione dei figli, a condizione però di perseverare nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia» (I, Timoteo, 1, 11-15). In que-sto modo il genere femminile, deprivato di istruzione, denaro, potere e rappre-sentazioni simboliche, abbandona l’agorà e si rinchiude nell’unico ruolo am-messo di mogli e madri che si prendono cura degli altri senza ricevere nulla in
Donna
cambio e senza che il loro accudimento riceva riconoscimenti. Per questo, in tutte le epoche, è stato necessario che le donne fossero private del loro statuto giuridico di persone. Non potevano studiare, votare, insegnare, recitare, giudi-care, difendere e tante altre infinite attività.
La dignità femminile è stata rinchiusa in una costellazione di soli divieti in-scritti nella cultura e poi sanciti in norme e codici, civili e religiosi. È l’esperien-za giuridica romana, considerata il modello universale del diritto, a disciplinare in modo organico uno statuto di legittima discriminazione nei confronti delle donne attribuendo loro, come privilegio, quello di custodire e trasmettere la tradizione imposta dagli uomini della minorità femminile, dell’assenza di liber-tà e diritti paritari (Cantarella 1989, 606; Mercogliano 2011). L’intuizione ge-niale di questo sistema è quello di escludere l’indipendenza giuridica delle donne, rendendo ogni esercizio di diritti vincolato all’autorità di un uomo (il sistema della tutela), ma, allo stesso tempo, assegnare al genere femminile il ruolo di depositario della morale e del sistema patriarcale che lo assoggetta, tanto da ‘promuoverlo’ a protagonista della sua stessa subordinazione. Ecco che il diritto conia dei termini specifici per le caratteristiche delle donne:
infir-mitas, imbecillitas, levitas, rimasti saldi nella nostra cultura giuridica per
millen-ni e ripresi, oltre che per vietare a Lidia Poët l’iscrizione all’Ordine degli Avvo-cati, nell’aprile 1884, anche per escludere l’iscrizione delle donne dalle liste elettorali nel 1906 da parte della Corte d’Appello di Firenze con questi pregiu-dizi: «la donna ob infirmitatem sexus non ha né può avere la robustezza di ca-rattere, quella energia fisica e mentale necessaria per disimpegnare come l’uo-mo le pubbliche cariche».
Neanche la Rivoluzione francese scardina questo sistema di annientamento della dignità femminile: Olympe de Gouges nel 1791 scrisse la Déclaration des
droits de la femme et de la citoyenne perché i rivoluzionari, uomini,
nell’enun-ciare e sancire il principio di uguaglianza avevano escluso le donne. Nell’aprile 1793 la Convenzione le privò formalmente dello statuto di cittadine e il 3 no-vembre dello stesso anno de Gouges fu ghigliottinata per avere sottolineato l’incoerenza di un’uguaglianza universale costruita solo per gli uomini. Nel necrologio apparso sul giornale dell’epoca, Le Moniteur, fu scritto: «Ricordate-vi dell’impudente Olympe, che per prima fondò dei circoli riservati alle donne. Ha voluto essere uomo di Stato e la legge ha punito questa cospiratrice per aver trascurato i doveri propri del suo sesso» (Pasciuta 2011).
Le Rivoluzioni non scalfiscono la condizione di minorità imposta alle don-ne. Il diritto costituisce, dunque, la cartina in tornasole per enunciazioni che valgono solo per il genere maschile nonostante l’apparente pretesa di riguarda-re l’intera umanità. Ma è la parola stessa umanità che disvela il trucco o l’ipo-crisia, peraltro illudendo le donne di essere titolari di diritti come gli uomini. Il Codice napoleonico del 1804, modellato sul diritto consuetudinario francese,
prevedeva la totale subordinazione della moglie al marito. In Italia il Codice civile unitario del 1865 con l’art. 134, rimasto in vigore fino al 1919, imponeva l’autorizzazione maritale: «la moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito». Il matrimonio rendeva le donne come bambini, dovevano chiedere sempre il permesso.