• Non ci sono risultati.

I quadri regolativi internazionale ed europeo

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 42-47)

Matteo Borzaga

3. I quadri regolativi internazionale ed europeo

Venendo quindi all’analisi del quadro normativo attuale, preme preliminar-mente mettere in luce come in questa sede ci si limiterà – per ragioni di spazio, ma soprattutto perché quello di dignità è un concetto universale – al versante sovranazionale e dunque, essenzialmente, ai provvedimenti normativi emanati da OIL e UE.

Si tratta, come si vedrà tra un momento, di provvedimenti normativi che, fino a tempi recenti, sono stati piuttosto simili, nei contenuti e negli esiti. Negli ultimi anni, peraltro, l’OIL ha adottato una serie di politiche intese a includere

maggiormente i Paesi emergenti che potrebbero avere delle ricadute anche sul significato che la dignità dei bambini assume in un mondo oramai globalizzato.

Se di quest’ultimo aspetto si parlerà nel prossimo paragrafo, vale qui la pena soffermarsi, anzitutto, sulla Convenzione n. 138 del 1973, dedicata all’età mini-ma di accesso al lavoro, adottando la quale l’OIL ha di fatto consolidato la propria produzione normativa anteriore in materia, al fine sia di fare ordine che di adeguarla a un quadro economico e sociale in continuo mutamento (Creighton 1997, 371 ss.).

L’atto scaturitone ripropone, rafforzandoli, i contenuti delle Convenzioni più avanzate tra quelle che erano state emanate in precedenza, sotto diversi punti di vista.

Anzitutto, dopo aver affermato che ciascun Paese membro che ratifichi la Convenzione deve mettere in campo una politica nazionale volta all’elimina-zione del lavoro infantile e all’aumento progressivo dell’età minima di accesso al lavoro (art. 1), il suddetto provvedimento normativo procede a definire quest’ultima. Stabilisce, in proposito, l’art. 2, co. 3, che «l’età minima specifi-cata ai sensi del paragrafo 1 del presente articolo (ovvero contenuta nella di-chiarazione allegata all’atto di ratifica) non dovrà essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo, né in ogni caso inferiore ai quindici anni» (CEACR 2012, 161 ss.). Con questa definizione il legislatore internazionale procede, da un lato, a confermare che, in linea di massima, l’età minima di accesso al lavoro non può essere inferiore ai 15 anni e, dall’altro, rinvigorisce in modo significativo la connessione tra età minima e frequenza scolastica, in-troducendo un’importante novità: essa fa infatti riferimento non più soltanto alla scuola primaria (come faceva invece la Convenzione n. 60 del 1937), bensì invece, in termini generali e senza dubbio più tutelanti nei confronti dei bam-bini (e della loro dignità), alla scuola dell’obbligo (Borzaga 2008, 47). A ben vedere, tale collegamento è concepito in modo molto stringente, come si evince sia dai lavori preparatori della Convenzione (Rubin 2005, 646), sia dall’inter-pretazione che ne è stata data dagli organismi di monitoraggio, rappresentanti anzitutto dalla Commissione di Esperti sull’Applicazione delle Convenzioni e Raccomandazioni (CEACR) (Creighton 1997, 371 ss.; CEACR 1981, 38; 2012, 162 s.), che ha il compito di valutare la corretta implementazione, a livello na-zionale, degli standard prodotti dall’organizzazione e dà vita, nel farlo, a quella che molti definiscono la «quasi-giurisprudenza» dell’organizzazione (Wisskir-chen 2005, 253 ss.).

In secondo luogo, la Convenzione n. 138 del 1973 procede ad affinare le clausole di flessibilità che, già negli strumenti normativi precedentemente adot-tati, la Conferenza Internazionale del Lavoro (il ‘Parlamento’ dell’OIL) aveva elaborato (seppure in forma assai rudimentale) per facilitare la ratifica della Convenzione stessa. Tali clausole di flessibilità sono numerose e variegate e

Bambino

sembrano voler rispondere all’esigenza di convincere i Paesi membri a dare attuazione a un atto particolarmente prescrittivo, atteso l’obbligo, di cui si è detto poco sopra, di fissare un’età minima di accesso al lavoro connessa al completamento della scuola dell’obbligo (Borzaga 2018, 38 ss.). Non stupisce, allora, che molte di tali clausole siano riservate ai Paesi emergenti, che in quegli anni stavano iniziando a divenire membri dell’organizzazione e presentavano, rispetto al tema dell’età minima, una serie di problemi di implementazione, tanto oggettivi (ovvero legati al livello di sviluppo di essi), quanto soggettivi (e cioè relativi al fatto che i medesimi faticavano a riconoscere, in capo ai bambi-ni, un diritto al non lavoro inteso in senso assoluto). Non è un caso, allora, se la clausola di flessibilità più utilizzata, nel corso degli anni, sia stata quella prevista dal già citato art. 2 (al co. 4) della Convenzione n. 138 del 1973, alla stregua della quale i Paesi emergenti possono stabilire, in prima applicazione, un’età minima pari a 14 anni.

Tra gli strumenti di flessibilità stabiliti dalla medesima Convenzione spicca altresì, ai nostri fini, la distinzione tra attività lavorative per così dire standard, attività lavorative pesanti e attività lavorative leggere, alle quali corrispondono età minime diverse. Se infatti per quanto riguarda le prime vige la regola, già richiamata, di cui all’art. 2, co. 3, in merito alle seconde si applica il successivo art. 3, il quale prescrive che, relativamente ad esse, l’età minima non possa es-sere inferiore ai 18 anni. In proposito, è interessante riportare il concetto di attività lavorative pericolose, che il co. 1 del suddetto articolo definisce come quelle che possono «compromettere la salute, la sicurezza o la moralità degli adolescenti» (Creighton 1997, 379 ss.). Si tratta di una clausola generale (andrà poi riempita di contenuti ad opera dei legislatori nazionali) che utilizza, a giu-dizio di chi scrive, termini tutti riconducibili al concetto di dignità: laddove quest’ultima sia minacciata da attività lavorative tanto pesanti da essere poten-zialmente in grado di lederla, l’età minima deve essere necessariamente elevata. Un discorso analogo può farsi anche in merito alle attività lavorative leggere. Sul punto, l’art. 7 stabilisce che i giovani di età compresa tra i 13 e i 15 anni (tra i 12 e i 14 nel caso di quei Paesi emergenti che abbiano fatto ricorso alla clau-sola di flessibilità di cui all’art. 2, co. 4) possano svolgere le suddette attività, ma solo se risultano rispettate specifiche condizioni, ovvero che tali lavori: «a) non danneggino la loro salute e il loro sviluppo; b) non siano di natura tale da pregiudicare la loro frequenza scolastica, la loro partecipazione a programmi di orientamento o di formazione professionale approvati dall’autorità competente o la loro attitudine a beneficiare dell’istruzione ricevuta» (CEACR 1981, 72 ss.). Come si vede, in questo caso a rivestire particolare pregnanza, oltre alla tutela della salute, è la salvaguardia della frequenza scolastica, che non deve in alcun modo essere messa in discussione dall’eventuale svolgimento di attività lavorative, seppure leggere. Torna dunque a emergere, anche qui, il riferimento

a tale concetto quale tassello fondamentale (accanto al diritto al non lavoro) del rispetto della dignità dei bambini. Se cioè al di sotto dei 13 (ovvero eventual-mente, nei Paesi emergenti, dei 12) anni di età il divieto di lavorare è assoluto, perché il legislatore internazionale ritiene che, in caso contrario, la salute e la frequenza scolastica (ovvero la dignità) dei bambini sarebbe senza dubbio lesa, al di sopra di tale soglia i Paesi membri possono, facendo valutazioni ispirate ai criteri poco sopra citati, procedere a ponderate eccezioni, nel rispetto, ancora una volta, della dignità dei soggetti coinvolti.

Se queste sono, seppur molto brevemente, le soluzioni elaborate dall’OIL (in prima battuta, come si vedrà più diffusamente nel prossimo paragrafo) al fine di contrastare il lavoro infantile e di preservare così la dignità dei bambini, si ritiene a questo punto opportuno soffermarsi sugli atti normativi adottati in proposito dall’UE che, lo si accennava già all’inizio del presente paragrafo, vanno senza dubbio nella medesima direzione.

Ci si riferisce, in particolare, alla direttiva n. 94/33/CE, che costituisce il primo strumento normativo vincolante emanato in sede europea con riguardo al contrasto al lavoro infantile (Borzaga 2018, 189 ss.). Le istituzioni comunita-rie avevano infatti dedicato al tema, fino a quel momento, unicamente atti di

soft law (una Raccomandazione della Commissione e una Risoluzione del

Par-lamento), a cui era seguita, nel 1989, la Carta comunitaria dei diritti sociali

fondamentali dei lavoratori, anch’essa peraltro rimasta priva di vincolatività

giuridica, che se ne occupa ai punti da 20 a 23.

Del resto, la base giuridica per poter procedere all’adozione di provvedi-menti di hard law in materia fu introdotta nell’articolato del Trattato di Roma del 1957 molto tardi, nel 1986, con il c.d. Atto Unico Europeo. Si trattava, in particolare, di quanto prescritto dal ‘nuovo’ art. 118 A, il quale consentiva l’a-dozione di direttive a maggioranza qualificata in merito all’ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Tale base giuridica consentì al legislatore comunitario di introdurre, in linea con quanto stabilito dalla Convenzione OIL n. 138 del 1973, l’età minima di accesso al lavoro (oltre a tutelare in modo stringente quello degli adolescenti). A giudizio di chi scrive, è un fatto senza dubbio significativo che la direttiva n. 94/33/CE sia fondata proprio sulla necessità di salvaguardare la salute e la si-curezza dei giovani (e dei bambini in particolare), in quanto come si evince dalle riflessioni già proposte in merito al versante internazionale tale necessità ha storicamente determinato il sorgere del diritto al non lavoro in capo a costo-ro ed è dunque strettamente collegata alla tutela della locosto-ro dignità.

Venendo, seppur molto brevemente, ai contenuti del provvedimento nor-mativo in esame, si segnala come la disposizione più significativa ai nostri fini sia rappresentata dal suo art. 1, ai sensi del quale (co. 1) «Gli Stati membri prendono le misure necessarie per vietare il lavoro dei bambini. Essi

provvedo-Bambino

no, secondo le condizioni previste dalla presente direttiva, affinché l’età mini-ma di ammissione all’impiego o al lavoro non sia inferiore all’età in cui cessano gli obblighi scolastici a tempo pieno imposti dalla legislazione nazionale né, in ogni caso, ai 15 anni» (Hartwig 2008, 245 ss.). Si tratta, a ben vedere, di una norma in tutto e per tutto simile all’art. 2, co. 3 della Convenzione n. 138 del 1973, sia con riguardo alla necessità di vietare (in ogni caso e salve eccezioni) agli infraquindicenni di lavorare, sia in merito alla stringente connessione che, pure a livello comunitario, viene stabilita tra età minima e obbligo scolastico. Lo stesso può dirsi anche con riguardo alle eccezioni che la direttiva n. 94/33/ CE prescrive alla propria regola generale e che consistono in un possibile ab-bassamento dell’età minima nel caso di svolgimento di attività lavorative legge-re e di un suo innalzamento laddove invece si tratti di impegnarsi in attività lavorative pericolose.

Che le politiche comunitarie in materia di contrasto al lavoro infantile con-vergano con quelle di cui alla Convenzione OIL n. 138 del 1973 è confermato dall’art. 32 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ai sensi del cui co. 1 «Il lavoro infantile1 è vietato. L’età minima per l’ammissione al lavoro non può essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo, fatte salve le norme più favorevoli ai giovani ed eccettuate deroghe limitate». La disposi-zione che si è appena riportata, in realtà, non soltanto conferma la suddetta convergenza, ma rafforza altresì la connessione tra età minima e obbligo scola-stico, tant’è vero che, nel testo, viene meno qualunque riferimento all’età ana-grafica (Borzaga 2018, 228 ss.).

A ciò deve aggiungersi che, essendo siffatta connessione prevista da una norma primaria del diritto UE, essa non potrebbe mai essere messa in discus-sione né da una regolamentazione di diritto derivato (ad esempio una modifica della direttiva n. 94/33/CE), né, tanto meno, da disposizioni nazionali di tra-sposizione di una tale regolamentazione (Savy, Delfino 2017, 626). La decisione di cui all’art. 32 della Carta di creare una connessione così stringente tra età minima e compimento dell’obbligo scolastico e, ancor più, di considerare il secondo come elemento imprescindibile per la fissazione della prima, costitui-sce in altri termini un’acquisizione pressoché irreversibile per il diritto eurou-nitario del lavoro e conferma che, nella relativa area geografica, il diritto all’i-struzione assume una centralità senza precedenti nella definizione del concetto di dignità dei bambini.

1 La traduzione ufficiale della Carta parla di ‘lavoro minorile’. Ritenendosi peraltro che tale traduzione sia scorretta (il lavoro minorile non è infatti vietato) si è deciso liberamente di sostituirla con quella di ‘lavoro infantile’.

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 42-47)