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Violenza e stereotipi di genere

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 64-70)

Paola Di Nicola Travaglini

4. Violenza e stereotipi di genere

La violenza maschile è l’altro strumento di lesione quotidiana della dignità femminile e, nonostante questo, ritenuta in Italia un vero e proprio diritto del

pater familias, fino agli anni ’50, di educare le donne ribelli (ius corrigendi). Il

nostro Codice penale, risalente al 1930, ha avuto bisogno di decenni di inter-venti normativi, interpretazioni evolutive della giurisprudenza e adeguamenti alle fonti sovranazionali a tutela delle donne, come la CEDAW (Convenzione ONU del 1979 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei con-fronti delle donne, ratificata dall’Italia il 10 giugno 1985) e la Convenzione di Istanbul (Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei con-fronti delle donne e la violenza domestica), per contrastare la violenza di gene-re e cgene-reagene-re una nuova rappgene-resentazione dei diritti. Questi, infatti, anziché esse-re declinati in termini statici, in quanto riferiti all’intero geneesse-re umano, sono diritti riconosciuti al solo genere femminile nella sua specificità e differenza: fa ingresso nel mondo giuridico la soggettività delle donne (Di Nicola Travaglini, Menditto 2020).

La conseguenza di questa rivoluzione, giuridica e culturale, però, non è stata piena per due ragioni: il soggetto portatore dei diritti, cioè il genere fem-minile e le singole donne che lo compongono, non sempre ha la consapevolez-za di esserlo a causa di millenni di assenconsapevolez-za di statuto giuridico di indipendenconsapevolez-za; le istituzioni giudiziarie, abituate a maneggiare i soli diritti maschili, descritti in modo universale, non sempre sono in grado di applicare quelli di cui è titolare il genere femminile, sia per naturale resistenza, sia perché generalità ed astrat-tezza delle norme sono ritenute le uniche garanzie di terzietà e imparzialità, nonostante siano sempre state declinate a favore dei soli uomini: dal ghigliotti-namento di Olympe de Gouges al divieto di accesso delle donne in magistratu-ra nonostante l’art. 3 della Costituzione italiana.

Il radicamento culturale della violenza di genere, il suo mancato adeguato riconoscimento anche da parte delle stesse autorità, l’omertà che spesso lo circonda nell’ambiente familiare e professionale, la naturalità con la quale viene letto da parte del contesto sociale, sono tutti elementi che consentono di ravvi-sare caratteri comuni con un altro fenomeno criminale volto a violare la digni-tà: la mafia. La vera differenza è costituita dall’estensione. La violenza di gene-re, secondo le ricerche dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali (FRA) e dell’Istat, è praticata nei confronti di una donna su tre, in Italia e nel mondo, e oltre l’80% degli autori di questa sono uomini. Si tratta dell’unico crimine senza confini, che si perpetua da decine di millenni, con modalità pressoché identi-che in ogni contesto sociale ed economico perché fondato su stereotipi discri-minatori nei confronti delle donne, prodotti dalla cultura dei gruppi

dominan-ti e inalteradominan-ti dalla notte dei tempi. Gli stereodominan-tipi di genere sono molto potendominan-ti in quanto fondati sulla riproduzione della specie e su istinti, desideri, emozioni che hanno attraversato l’immaginario, individuale e collettivo, dall’inizio della storia dell’umanità tanto da appartenere, come visto, a miti, credenze popolari, sacre scritture, scienza, letteratura, linguaggio, religione e biologia. Insomma, l’intero sapere umano.

Ognuno di noi ha un’idea del genere maschile e del genere femminile, ma non sempre è facile comprendere quanto questa derivi dalla propria esperienza personale e quanto, invece, risponda a una rappresentazione mentale che la cultura in cui ciascuno vive gli impone. La diversità dei sessi è un dato di fatto, ma essa non predestina ai ruoli e alle funzioni (Badinter 2004).

È ovvio che se la struttura culturale è fondata sulla supremazia del genere maschile rispetto a quello femminile, anche gli stereotipi e i pregiudizi si costru-iranno in base a detta gerarchia, cosicché al comportamento di donne e uomini saranno imposte aspettative differenti «non limitandosi a definire come le per-sone effettivamente sono ma anche come dovrebbero essere» (Gelli 2009, 67).

Il tipico stereotipo è che sia più desiderabile e conveniente che una donna assuma un comportamento inscritto nell’ambito della cura piuttosto che in quello dell’imprenditoria o della finanza, area ritenuta prerogativa del genere maschile perché espressione di potere. Se una donna supera questo confine trasgredisce a una regola posta a fondamento di una struttura gerarchica e, per questo, è passibile di processi sanzionatori sotto il profilo familiare, sociale e professionale che le rendono difficile, se non impossibile, il compito di sceglie-re (Di Nicola 2018).

Gli stereotipi di genere ruotano intorno a caratteristiche contrapposte. Per le donne: dolci, accudenti, fragili, timide, istintive, irrazionali, passive, riserva-te, sensibili, empatiche, pudiche, altruisriserva-te, gentili, comprensive. Per gli uomini: indipendenti, ambiziosi, coraggiosi, razionali, caparbi, competitivi, assertivi, spericolati, protettivi, determinati. Caratteristiche intese come meravigliose ma perdenti le prime; dure ma vincenti le seconde (Volpato 2017, 35); riconduci-bili a vere e proprie limitazioni o difetti le prime, comunemente considerate positive e legate all’esercizio del potere le seconde (Battacchi, Codisposti 1988). Da questa rigida impostazione culturale consegue che le donne sono viste come adatte a specifici ruoli sociali e familiari, che alla fine, attraverso il sistema dell’autoavveramento, esse normalmente ricoprono (Kay 2007, 305). Uomini e donne diventano ciò che lo stereotipo culturale impone al loro rispet-tivo genere, senza consentire alcuna libertà di scelta. Questo si riverbera sulla posizione e sul riconoscimento sociale, sulla distribuzione delle risorse materia-li e sul benessere psicologico degmateria-li individui (Cook-Cusack 2010, 59).

Gli stereotipi di genere ledono la dignità personale perché perpetuano un sistema di potere discriminatorio, lo giustificano fino a rafforzarlo (Timmer

Donna

2016). Chi non risponde allo stereotipo è marginalizzato, è ritenuto anormale e per questo isolato dal contesto sociale fino a quando non vi si adegua.

Nell’ultima rilevazione Istat sugli stereotipi di genere, pubblicata il 25 no-vembre 2019, si stima che per il 32,5% degli intervistati «per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro»; per il 31,5% «gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche» e per il 27,9% è «l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia». Stere-otipi e pregiudizi di genere si riverberano direttamente sulla violenza di genere; infatti, il 25,4% delle persone (27,3% tra gli uomini e il 23,5% tra le donne) ritiene accettabile il controllo dell’uomo sulle attività della compagna o la vio-lenza con schiaffi. La Risoluzione del Parlamento europeo del 12 marzo 2013 sull’eliminazione degli stereotipi di genere nell’Unione Europea (2012/2116(INI) premette, al Considerando C, «che gli stereotipi continuano a esistere a tutti i livelli della società e in tutte le fasce d’età, influenzando la nostra percezione degli altri attraverso preconcetti semplicistici basati su norme, prassi e credenze derivanti dal contesto sociale, che spesso trovano fondamento e sostegno negli elementi culturali e religiosi e che rispecchiano e perpetuano i rapporti di forza soggiacenti».

La relatrice speciale delle Nazioni Unite sull’indipendenza dei giudici e degli avvocati, Gabriela Knaul, nella relazione presentata alle Nazioni Unite, ha riconosciuto che gli stereotipi sono molto diffusi nel sistema giudiziario tanto da non garantire un accesso alla giustizia per le donne; solo i programmi di continua formazione costituiscono lo strumento per lo sviluppo della capacità della magistratura di sfidare gli stereotipi di genere all’interno e all’esterno del sistema giudiziario penale, tanto da garantire un processo equo.

L’art. 5, lettera a) della CEDAW stabilisce l’obbligo degli Stati di «modifica-re i modelli socio-culturali di comportamento degli uomini e delle donne», im-ponendo uno sforzo per eliminare «pregiudizi e pratiche consuetudinarie o di ogni altro genere che sono basate sull’idea dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o su ruoli stereotipati per gli uomini e per le donne». La Raccomandazione del Comitato CEDAW n. 33 sull’accesso delle donne alla giustizia, che costituisce soft law, riserva un intero capitolo agli stereotipi e ai pregiudizi di genere nel sistema giudiziario poiché questo è uno degli ostacoli che colpisce le donne vittime di violenza di genere: gli stereotipi distorcono le percezioni e danno origine a decisioni basate su credenze e miti preconcetti, piuttosto che su fatti. Spesso i giudici adottano regole rigide su ciò che conside-rano un comportamento adeguato delle donne e puniscono coloro che non si adattano a quegli stereotipi. L’istituzione di stereotipi influisce anche sulla cre-dibilità delle dichiarazioni, argomenti e testimonianze delle donne, come parti e come testimoni. Questi stereotipi possono indurre i giudici a fraintendere le leggi o ad applicarle in modo errato. Ciò ha conseguenze di vasta portata, ad

esempio, nel diritto penale, poiché comportano che gli autori non siano legal-mente responsabili delle violazioni dei diritti delle donne, mantenendo così una cultura dell’impunità. In tutti i settori della legge, gli stereotipi compromettono l’imparzialità e l’integrità del sistema giudiziario, che a sua volta può portare alla negazione della giustizia, compresa la rivittimizzazione dei denuncianti.

Anche la Convenzione di Istanbul affronta in modo puntuale il tema degli stereotipi e dei pregiudizi come causa della violenza contro le donne nell’arti-colo 12.

Nelle società e nelle Corti di tutto il mondo il vero pericolo è la pervasività e invisibilità degli stereotipi di genere che legittimano o ridimensionano la vio-lenza maschile e fiaccano, distruggono, silenziano la competenza femminile. Questa è la ragione per la quale le fonti sovranazionali, che si occupano di di-gnità e diritti umani, impongono agli Stati di vigilare affinché pregiudizi e ste-reotipi non limitino l’accesso alla giustizia delle donne con la parola d’ordine che la loro testimonianza è comunque falsa o sovradimensionante. Per rimuo-vere questa impalcatura millenaria è necessario che innanzitutto i giudici dubi-tino sempre della loro imparzialità perché le abitudini culturali inconsce, di cui siamo tutti figlie e figli, non si nascondono sotto la toga, ma la accompagnano nella sua attività interpretativa rischiando di inquinarla a favore del giustifica-zionismo del dominio maschile e dell’impunità della violenza che ne è il frutto avvelenato.

Dobbiamo abbandonare le false sicurezze per abbracciare il percorso diffi-cile e sofferto della quotidiana messa in discussione di una conoscenza deforme e deformata, a partire dalle aule di giustizia in cui essa si trasforma in regola dello Stato. Solo la consapevolezza che l’imparzialità non esiste in astratto, ma va conquistata, individualmente e collettivamente, liberandoci da abitudini sessiste e misogine, è la chiave per restituire alle istituzioni la loro credibilità e alle donne il valore, simbolico e giuridico, della loro parola.

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Il senso dell’umano è analizzato in riferimento ai contenuti dei diritti umani intesi come un insieme di convinzioni concernenti l’azione. Il concetto di dignità è discusso evidenziando il nesso tra la dignità di sé e la dignità in relazione sulla base dell’approccio incentrato sulla dotazione e dell’approccio della prestazione.

The sense of the human is analyzed with reference to the contents of human rights understood as a single body of beliefs concerning action on which there is a convergence of different cultural perspectives. The notion of dignity is discussed highlighting the link between dignity-of-self and dignity-in-relation on the basis of the endowment approach and the performance approach. Sommario 1. L’umano come autoritratto. | 2. Somiglianze di famiglia

e ‘senso dell’umano’. | 3. Dignità dell’essere umano.

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 64-70)