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Dignità e potere datoriale: alcune considerazioni preliminari

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 188-191)

Antonio Riccio

1. Dignità e potere datoriale: alcune considerazioni preliminari

«Diritto e potere sono due facce della stessa medaglia», così si è espresso Nor-berto Bobbio (2020) indagando il potere sul versante della scienza politica. Pertanto, qualunque studio del diritto non può non implicare, anche, una ri-flessione sul potere e, allo stesso modo, ogni studio del potere evoca la questio-ne del diritto.

Anche alla luce di tale intuizione, è forse scontato affermare che il compito di fornire una lettura dei tratti essenziali di un potere privato (Baylos Grau 2017) qual è quello del datore di lavoro, utilizzando la lente (e, dunque, la

prospettiva) della dignità, rappresenta senza dubbio per il giurista, e per il la-vorista in particolare, uno degli impegni più ardui. Soltanto riflettendo sulle possibili premesse al discorso, ovvero aspirando a rintracciare le linee di confi-ne del significato di entrambi i termini dell’indagiconfi-ne, potrebbero riempirsi in-tere biblioteche giuridiche. Figuriamoci se, poi, si prendesse atto, come pur sarebbe necessario fare, dell’insufficienza di quella giuridica come chiave di lettura esclusiva per riempire di senso e contenuto quei termini.

Eppure, al medesimo tempo, quel compito rappresenta uno degli esercizi più affascinanti, dal momento che evoca l’essenza stessa del diritto del lavoro, quale insieme di limiti diretti alla regolamentazione della costante tensione tra ragioni dell’impresa e istanze di tutela della persona che lavora.

Una delle premesse da cui trae origine l’esigenza di indagare da varie ango-lazioni il concetto di dignità, come avviene in questo volume, è rappresentata dalla comune constatazione del rischio che vada sfumando, a causa del suo uso retorico, la funzione comunicativa della parola dignità. E bisogna ammettere che il rischio appare concreto, anche in ragione di una portata semantica così ampia e complessa, da non lasciarsi facilmente irregimentare in una definizione univoca.

Ciò posto, è qui appena il caso di ricordare che, ai nostri fini, una delle ge-nerali declinazioni della dignità dell’uomo è quella che la vede come libertà di autodeterminare i propri fini. Cosicché, come è stato in maniera condivisibile sottolineato in dottrina, «la mortificazione della dignità consegue a situazioni in cui si palesa la soggezione di un uomo ad un altro con privazione della liber-tà di autodeterminazione, ed è perpetrata quando l’uomo viene ridotto a stru-mento, ad oggetto, con detrimento dell’umanità che esso esprime» (Casillo 2008).

È evidente che, in questa prospettiva, il lavoro subordinato appaia quasi come l’archetipo, almeno nei rapporti tra privati, di quelle situazioni caratteriz-zate dalla soggezione di un uomo a un altro (Romagnoli 1974), e, data l’ormai antica e consolidata acquisizione dell’inseparabilità del lavoro dalla persona che lo presta, da un elevato livello di rischio che possano verificarsi ‘mortifica-zioni’ della dignità (Ghezzi 1956; Gragnoli 2011). Senza dimenticare, natural-mente, che per cogliere gli aspetti peculiari del lavoro dipendente, rispetto al rapporto giuridico di subordinazione derivante dalla conclusione del contratto di lavoro, non può essere tenuto in secondo piano il diverso obiettivo persegui-to dalle parti di quel rapporpersegui-to – l’una tesa all’incremenpersegui-to dei margini di profit-to, l’altra in cerca di una occupazione che sia tale, almeno, da garantire una esistenza libera e dignitosa – che aggrava ulteriormente la situazione di rischio.

Tuttavia, anche convenendo di porre alla base del nostro discorso giuridico siffatta, generale, lettura della dignità, si rischia con tutta evidenza di non riu-scire a prevenire l’eccesso di retorica che troppo spesso ormai circonda il

di-Potere

scorso acquisitivo, sia sindacale che politico, intorno alla dignità. Inoltre, seb-bene il tema del potere dell’uomo sull’uomo e dell’organizzazione gerarchica della produzione (Mengoni 1985), che l’ordinamento riconosce e legittima a partire dalle definizioni contenute negli artt. 2086 e 2094 c.c., evoca aspetti che meriterebbero indubbiamente una indagine critica alla ‘radice’, è qui necessa-rio rifuggire da quella tentazione, che finirebbe per portarci fuori tema, verso lidi forse più affini alla scienza politica.

Per evitare di esporsi a tali rischi, l’ubi consistam delle nostre riflessioni non può che essere rappresentato dal complesso delle norme di diritto positivo utili a delineare i rapporti tra potere datoriale e dignità. Già altri (Ferrante 2011) hanno acutamente avvertito del pericolo cui si può andare incontro cari-cando la dignità, nel dibattito di politica del diritto, di una eccessiva enfasi. Secondo tale lettura, in un ordinamento ad alto tasso di protezione lavoristica come quello italiano, l’esaltazione della tutela della dignità, come forma mini-male di tutela del lavoratore, potrebbe segnare un (paradossale rispetto ad al-cuni proponimenti) arretramento rispetto al contenuto dei diritti sociali già specificamente riconosciuti. Per siffatta ragione, disconosciuta la capacità della dignità di farsi ‘creatrice’ di diritti, anche alla luce delle disposizioni costituzio-nali e della legislazione ordinaria che ne hanno giuridificato il concetto (ossia l’art. 41, co. 2, Cost. e gli artt. 1-8 St. Lav.), se ne propone (ed è questa la pro-spettiva che si condivide e che qui si adotterà) una nozione orientata alla limi-tazione del potere unilaterale del datore di lavoro.

Ad avviso di chi scrive, infatti, è proprio in tale ottica che il concetto di di-gnità può rivelarsi giuridicamente fecondo (anche e soprattutto oggi), disvelan-do le proprie capacità di fungere da principio generale non solo di cui il giudi-ce deve tener conto nell’opera di controllo e sindacato del potere datoriale, ma anche intorno al quale articolare una rinnovata riflessione in dottrina sulla na-tura, sulla funzione e sui limiti di quel potere.

Se è vero che nel nostro ordinamento il potere datoriale, nella classica e manualistica tripartizione in potere direttivo, di controllo e disciplinare, è stato oggetto di capillari interventi di limitazione, ciò non può mettere in secondo piano l’esigenza di indagarne i tratti sistematici, alla ricerca di possibili limiti generali che siano in grado di garantirne un esercizio non arbitrario e ‘mortifi-cante’ anche negli (apparenti) spazi vuoti di diritto (Perulli 2005). Difatti, a bene vedere, non solo quei limiti specifici, per loro natura, non hanno mai avuto in passato la capacità di garantire la copertura di ogni occasione concre-ta di bisogno ma concre-tale circosconcre-tanza rischia di divenconcre-tare sempre più frequente di-nanzi alle repentine e incessanti modificazioni del mondo della produzione. La digitalizzazione e la massiccia introduzione di sistemi e prodotti tecnologici, anche ai fini dell’organizzazione della produzione e della gestione della forza lavoro, offrono opportunità inedite per la dilatazione della sfera di esercizio del

potere a vantaggio dell’impresa ed espongono sempre più il lavoratore all’inde-bita invadenza della sua sfera umana e personale, conferendo nuovo vigore alle caratteristiche illiberal del contratto di lavoro subordinato (De Stefano 2020; Anderson 2017; Collins 2018).

Sulla scorta delle brevi considerazioni preliminari fin qui svolte, nelle pagine che seguono la riflessione si concentrerà su alcune questioni aperte riguardanti il potere datoriale che, ad avviso di chi scrive, rivelano la perdurante utilità della dignità come strumento di contrasto dell’arbitrio o, per utilizzare una espressione forse più esplicativa, per vagliare la ragionevolezza/razionalità dell’esercizio del potere anche in assenza di limitazioni espressamente previste dal legislatore.

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 188-191)