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L’emergere del concetto di ‘dignità del bambino’ tra diritto al non lavoro e diritto all’istruzione

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 39-42)

Matteo Borzaga

2. L’emergere del concetto di ‘dignità del bambino’ tra diritto al non lavoro e diritto all’istruzione

Come si accennava nelle considerazioni introduttive, il percorso evolutivo che ha condotto all’emersione, prima, e al rafforzamento, poi, del right not to work in capo ai bambini come strumento per garantirne la dignità è stato lungo e complesso. Esso, del resto, affonda le proprie radici nella fase originaria del diritto del lavoro, quando, cioè, a seguito della rivoluzione industriale, un nu-mero elevatissimo di persone si trasferì dalle campagne alle città per lavorare nelle fabbriche in condizioni a dir poco proibitive. Tra queste, le più bisognose di tutela erano rappresentate senz’altro dalle c.d. ‘mezze forze’, ovvero, per l’appunto, i bambini (oltre alle donne), circostanza di cui i legislatori dei diver-si Paediver-si europei coinvolti nel processo di industrializzazione dovettero ben presto rendersi conto (Castelvetri 1994, 53 ss.). Tali soggetti, del resto, proprio grazie alla rivoluzione industriale e all’affermarsi di fabbriche sempre più auto-matizzate, potevano essere produttivi quasi quanto gli adulti, non essendo ne-cessaria, per lavorare nei suddetti contesti, una particolare forza fisica, né una specifica formazione professionale (Olivelli 1981, 11 ss.). Poiché, a fronte di un livello di produttività simile, i bambini percepivano una retribuzione fino a due terzi inferiore a quella dei loro colleghi adulti, non stupisce che, in quella fase

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storica, il lavoro infantile fosse particolarmente sfruttato. Di qui, come si accen-nava, la (lenta, in realtà) presa di coscienza dei legislatori europei che, spinti da gruppi di intellettuali sensibili alla questione (Solari 1980, 127 ss.), decisero di disciplinare il fenomeno, anche alla luce dello svolgimento di inchieste che fe-cero emergere le condizioni di lavoro disumane e di miseria estrema in cui spesso si trovavano i bambini (Ballestrero 1979, 39 ss.).

Ne conseguì una produzione normativa che, a partire dai primi anni del XIX secolo, vide molti Paesi europei convergere progressivamente verso l’in-troduzione dapprima di limitazioni all’orario di lavoro e successivamente di un’età minima di accesso al lavoro (accompagnata da una regolamentazione di quello svolto dagli adolescenti). È questo il caso, ad esempio, del legislatore francese che, sulla scia della pionieristica esperienza britannica, adottò, nel 1841, una legge con la quale l’età minima di accesso al lavoro veniva fissata in 8 anni e si stabilivano una serie di limitazioni all’orario di lavoro degli adole-scenti (Guin 1998, 29 ss.). Lo stesso accadde alcuni decenni dopo anche in Italia, quando, nel 1886 e nel 1902, vennero emanate, rispettivamente, le leggi c.d. ‘Berti’ e ‘Carcano’, che introdussero un’età minima di accesso al lavoro la prima pari a 9 e la seconda a 12 anni. Si tratta, a ben vedere, di due provvedi-menti che possono essere considerati, quanto alla tutela da essi riconosciuta a bambini e adolescenti, il secondo l’evoluzione del primo, non soltanto perché la legge c.d. ‘Carcano’ elevò l’età minima, ma anche perché stabilì, a differenza del proprio precedente storico, una serie di limitazioni relative proprio al ro degli adolescenti (con riguardo a orario di lavoro e riposi, ma anche al lavo-ro notturno) (Borzaga 2018, 12 ss.).

Di fatto, la convergenza di cui si è appena detto è stata fondamentale per far progressivamente emergere l’idea secondo la quale i bambini sarebbero titolari di un vero e proprio diritto al non lavoro; un diritto che, consentendo loro di vivere un’infanzia lontana da fatica e privazioni, rappresenterebbe un tassello fondamentale per preservarne la dignità.

In realtà, dalla descritta evoluzione normativa emerge un altro importante strumento di tutela dei bambini (e della loro dignità), anche se, in questo caso, a macchia di leopardo. Se infatti si guardano le leggi in materia di contrasto al lavoro infantile emanate sia dalla Gran Bretagna che dalla Francia nel corso del XIX secolo, ci si rende conto della circostanza che tali leggi non soltanto stabilirono un’età minima di accesso al lavoro e regolamentarono, limitando-lo, quello degli adolescenti, ma introdussero altresì un pur rudimentale e limi-tato obbligo scolastico. In altri termini, già in questa fase storica si iniziò, in alcuni ordinamenti, a creare una connessione tra la previsione di un’età mini-ma di accesso al lavoro (e dunque di un right not to work) e diritto all’istru-zione, connessione che sarebbe divenuta, nel tempo, sempre più stretta pro-prio nella logica di tutelare la dignità dei bambini. Peraltro, come si

accenna-va, tali previsioni furono adottate a macchia di leopardo, nel senso che in al-cuni Stati (Gran Bretagna e Francia, per l’appunto) ciò avvenne, mentre in altri il legislatore si limitò a stabilire l’età minima e, al più, a regolamentare il lavoro degli adolescenti: è questo, significativamente, il caso del nostro Paese, nel quale la richiamata connessione tra età minima di accesso al lavoro e ob-bligo scolastico, ovvero tra diritto al non lavoro e diritto all’istruzione, non fu contemplata né dalla legge c.d. ‘Berti’, né dalla legge c.d. ‘Carcano’, ma nep-pure dai provvedimenti successivi (Pasqualetto 2013, 22 ss.). Sebbene infatti il tema del contrasto al lavoro infantile sia stato oggetto anche della legislazio-ne successiva (tanto in epoca corporativa quanto in epoca repubblicana), la questione non è stata affrontata fino a tempi recenti, quando l’art. 5 del d.lgs. n. 345 del 1999, con il quale è stata recepita, in Italia, la direttiva comunitaria n. 94/33/CE, ha pressoché riscritto l’art. 3 della l. n. 977 del 1967, che come noto rappresenta, ancora oggi, il principale strumento di tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti, in attuazione dell’art. 37, co. 2 e 3 della Costitu-zione (Spagnuolo Vigorita 1971, 643 ss.). Nel nostro Paese, dunque, le que-stioni dell’età minima di accesso al lavoro, da un lato, e dell’obbligo scolastico (ovvero del diritto all’istruzione), dall’altro, sono state per moltissimi anni regolamentate separatamente dal legislatore, alla stregua di due microsistemi normativi paralleli.

Al di là della peculiare situazione dell’Italia, la circostanza che molti Paesi europei nei quali il processo di industrializzazione si stava rapidamente affer-mando dapprima adottarono leggi in materia di età minima di accesso al lavoro e successivamente crearono la connessione di cui si è detto tra questa e l’obbli-go scolastico ebbe significative ripercussioni anche sul piano sovranazionale. Come forse noto, del resto, nel 1919 fu fondata l’OIL la quale, alla stregua di quanto previsto, in particolare, nel Preambolo della propria ‘Costituzione’ (il trattato istitutivo dell’organizzazione medesima), ritenne opportuno dedicarsi, fin da subito, proprio al tema dell’età minima di accesso al lavoro. Ciò avvenne, anzitutto, con la Convenzione n. 5 del 1919, limitata al settore industriale, alla quale seguirono, tra quell’anno e il 1965, ben nove ulteriori Convenzioni dedi-cate al tema (Borzaga 2018, 19 ss.).

L’OIL decise di intervenire così frequentemente in proposito per due ragio-ni fondamentali. In primo luogo, perché l’orgaragio-nizzazione, sulla scia di quanto accadeva a livello dei singoli Paesi membri, ritenne la lotta al lavoro infantile di vitale importanza per l’edificazione del diritto del lavoro, anche sul versante sovranazionale. In secondo luogo, perché l’organizzazione medesima decise che le misure originariamente messe in campo dovessero essere via via raffor-zate, soprattutto per quanto riguarda l’innalzamento dell’età minima, tant’è che da questo punto di vista le dieci Convenzioni emanate in quel periodo possono suddividersi in due gruppi, l’uno composto dagli strumenti normativi

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più risalenti, che prevedevano un’età minima di 14 anni, e l’altro in cui posso-no farsi ricadere i più recenti, che ne stabilivaposso-no una pari a 15 anni (Smolin 1999, 408 ss.).

Entrando poi ancor più approfonditamente nel merito di tali Convenzioni, ci si rende conto di come esse, in realtà, non procedettero soltanto a innalzare l’età minima di accesso al lavoro nei termini che si sono appena descritti, ma introdussero altresì ulteriori importanti elementi di disciplina, tra cui una serie di clausole di flessibilità (per favorirne la ratifica) e, soprattutto, un collega-mento tra età minima di accesso al lavoro e obbligo scolastico, come era già accaduto in molti Paesi europei. Sotto questo profilo, spiccano in particolare due Convenzioni OIL, la n. 33 del 1932 (ricadente nel primo dei due gruppi citati e relativa, in generale, ai settori non industriali), la quale per la prima volta creò una connessione tra età minima e frequenza scolastica, e la n. 60 del 1937 (ricadente nel secondo dei suddetti gruppi e relativa anch’essa ai settori industriali, costituendo formale revisione della n. 33 del 1932), che ribadì tale connessione, stabilendo che i bambini che non avessero concluso la scuola primaria non potessero essere in alcun modo occupati, anche qualora avessero superato l’età minima di 15 anni.

Alla luce di tutto ciò, non stupisce che molti Paesi europei, la stessa OIL e l’UE (sebbene, per le ragioni storiche che verranno messe in luce poco oltre, molto più tardi) decisero, nei decenni successivi a quelli di cui si è dato conto in questo paragrafo, di proseguire lungo il percorso tracciato e di continuare a puntare, conseguentemente, sull’età minima di accesso al lavoro in collegamen-to con l’obbligo scolastico. Evidentemente, nei suddetti Paesi, in cui il proces-so di industrializzazione stava raggiungendo il suo culmine, e anche nelle orga-nizzazioni sovranazionali che ne rappresentavano le istanze, si era fatto strada un concetto di ‘dignità dei bambini’ fondato proprio sul riconoscimento, in capo a costoro, dei diritti al non lavoro e all’istruzione in stretto collegamento tra loro.

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 39-42)