Claudio Melchior
2. Gruppi e categorie a livello sociale
Ogni volta che in una società vengono a stabilirsi dei gruppi o delle categorie a cui riteniamo di appartenere (e questo succede di continuo nella nostra vita, ogni giorno in modo plurimo e con un incrocio molto complicato di gruppi e appartenenze stratificati tra di loro), si creano dei confini. Questi confini sono invisibili ma regolano rigidamente il fatto di essere considerati (e considerarsi) all’interno del gruppo e della categoria e quindi ad appartenervi, oppure vice-versa la condizione di essere esterni a quel gruppo e a quella categoria. Questi due campi del reale vengono denominati ingroup e outgroup e il loro stabilirsi porta con sé molte conseguenze dal punto di vista del modo in cui percepiamo e valutiamo la realtà esterna, la nostra identità e quella degli altri oltreché in-fluenzare significativamente il nostro comportamento.
Gli studi più celebri su queste tematiche sono stati svolti in Gran Bretagna a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, in particolare da parte di Henri Tajfel e John C. Turner, e hanno portato alla definizione della Social Identity Theory, o Teoria dell’identità sociale (Tajfel 1970; 1974; 1978; 1999; Turner 1975; Tajfel, Turner 1979; 1986; 2004; Tajfel et al. 1971; Turner et al. 1987). Per il-lustrare brevemente i contorni di questa teoria, i cui punti cardine sono fon-damentali per comprendere il portato del termine inclusione, preferiamo
Inclusione
partire però dai celebri esperimenti sul conformismo e sull’influenza sociale condotti da Muzafer Sherif negli Stati Uniti, per la loro chiarezza paradigma-tica (Sherif 1967).
Sherif realizzò esperimenti con caratteristiche che sono difficilmente ripro-ducibili in quanto di fatto toccano gli aspetti etici della ricerca in una maniera non del tutto lineare. Le modalità di queste ricerche e i loro risultati sono però particolarmente apprezzabili per la chiarezza con cui espongono il punto che vanno a trattare. Per verificare le sue teorie, Sherif realizzò in particolare un famoso esperimento in alcuni campi estivi ai quali partecipavano numerosi adolescenti degli Stati Uniti inconsapevoli di partecipare a una ricerca. Dopo una prima fase del campo estivo caratterizzata da attività di gruppo svolte tutti assieme senza altra specificazione, utile a osservare il comportamento dei par-tecipanti prima dell’esperimento e quindi come condizione laboratoriale di confronto, Sherif e i suoi collaboratori divisero i ragazzi in due gruppi, i ‘blu’ e i ‘rossi’, dividendo le amicizie comuni e cercando quindi di creare i gruppi meno collegabili alle reti relazionali che si erano stabilite nella prima fase. A questo punto ai gruppi venivano affidati alcuni compiti da svolgere in compe-tizione tra di loro. Di fatto venivano organizzati dei tornei sportivi connessi a premi e punizioni che mettessero in contrapposizione i ‘blu’ e i ‘rossi’.
Con la fase competitiva seguita alla suddivisione in due gruppi, i ricercatori osservarono un deterioramento molto rapido delle relazioni. Si svilupparono chiaramente relazioni di tipo ostile tra i membri dei due gruppi e si creò una serie di stereotipi, ovviamente di tipo negativo, che riguardavano il gruppo ‘avverso’. Il corollario a queste relazioni positive e negative veniva rappresen-tato dalla coesione interna ai due gruppi, che risultava al contrario chiaramen-te accresciuta.
Questo stato di tensione e di ostilità fra i due gruppi, nonché questa accre-sciuta vicinanza intra-gruppo continuavano anche una volta terminate le com-petizioni sportive che contrapponevano i partecipanti all’esperimento.
Solo la creazione di uno scopo sovraordinato, che mettesse nuovamente all’interno di un unico grande gruppo i due sottoinsiemi dei ‘rossi’ e dei ‘blu’ che erano stati costituiti arbitrariamente, ebbe l’effetto di andare a ridurre questi aspetti di tensione e ostilità e di rendere più evanescenti gli stereotipi negativi che si erano stabiliti nella fase competitiva.
In sintesi, seguendo questo esperimento di Sherif, si potrebbe concludere che, una volta stabiliti dei gruppi, scopi competitivi tra di essi portano a tensio-ne tra i gruppi (e aumentano la coesiotensio-ne interna) e scopi collaborativi (cioè comuni a tutti i gruppi che vengono messi ‘sulla stessa barca’) hanno l’effetto di ridurre la tensione e quindi rendere meno cocenti i confini tra loro.
Nonostante questa dinamica sia stata verificata in numerosi altri esperimen-ti (per una sintesi si veda Sherif 2005), fin qua il meccanismo pare abbastanza
semplice e tutto sommato scontato: se c’è competizione tra i gruppi, questo porta un aumento della forza del confine che li distingue e una vicinanza mag-giore tra i membri che ne fanno parte. Questo fatto è esacerbato dall’interazione diretta tra i membri interni del gruppo, che ha un impatto tendenzialmente positivo sulla relazione, mentre la distanza che l’attività competitiva crea tra i membri dei due differenti gruppi ha un effetto di peggioramento della relazione.
In realtà però molti altri esperimenti sono stati condotti su questa falsariga e da queste ricerche emerge come non sia affatto necessaria una forma di com-petizione diretta tra i gruppi per generare questi effetti di svalutazione dell’al-tro e di miglioramento della valutazione di chi si dell’al-trova all’interno del gruppo. Le ricerche di Tajfel, in particolare, dimostrano come sia sufficiente la semplice categorizzazione all’interno di un gruppo, senza bisogno di competizione, per creare dei confini molto forti e generare favoritismo verso l’ingroup e sfavoriti-smo verso l’outgroup.
Gli esperimenti di Tajfel che hanno poi portato alla creazione della Social
Identity Theory accrescono in modo organico le osservazioni e i ragionamenti
prima riportati. I gruppi, nei suoi esperimenti, erano basati su categorizzazioni costruite in una maniera arbitraria, prive di significato profondo per i parteci-panti (sulla base della preferenza di un pittore, oppure di un colore o anche con il semplice lancio di una monetina).
Questo permise di osservare che anche i gruppi costituiti su base arbitraria, che non avessero una storia passata in comune, o degli interessi competitivi contrapposti (come la competizione sportiva che aveva utilizzato Sherif), erano in grado di stabilire confini tra le persone sufficienti a influire sul comporta-mento, sulla percezione e sulle relazioni interpersonali.
In parole più semplici, ogni volta che sentiamo di appartenere a un gruppo o a una categoria, ovvero ogni volta che si crea un ambito del ‘noi’ che si con-trappone a un ambito del ‘loro’:
1. tendiamo a svalutare, a parità di condizioni, chi viene percepito come ester-no il ester-nostro gruppo o categoria e a valutare in maniera maggiormente posi-tiva e ‘umana’ (Leyens et al. 2007) chi invece ne fa parte;
2. si sviluppa un processo di polarizzazione delle opinioni di gruppo (Mosco-vici, Zavalloni 1969);
3. percepiamo come più rilevanti le caratteristiche che ci rendono simili agli altri membri del gruppo e viceversa massimizziamo le differenze che perce-piamo nei confronti degli esterni;
4. tendiamo a creare stereotipizzazioni e pregiudizi nei confronti degli esterni al gruppo, stereotipi che ovviamente tendono ad assumere una valenza ne-gativa.
Tutto questo indipendentemente da quanto sia ritenuto cocente il gruppo o la categoria a cui stiamo facendo riferimento. Il semplice fatto di distinguere tra
Inclusione
un ‘noi’ è un ‘loro’ porta a queste conseguenze percettive che hanno effetti psicologici, relazionali e sociali.
Esplicitato tutto questo, seppur in forma estremamente breve, possiamo ritornare alla etimologia del termine inclusione da cui era partito il nostro ra-gionamento. Quando parliamo di inclusione a livello sociale, il fatto di ‘rinchiu-dere’ o ‘incarcerare’ una persona significa letteralmente portare un soggetto dall’esterno all’interno dei confini del proprio gruppo o categoria. L’inclusione è dunque un processo che, come sopra riportato, va a toccare la percezione di noi stessi e degli altri, la nostra valutazione della realtà e il nostro comporta-mento interpersonale.
Questa precisazione, che può apparire scontata, è in realtà fondamentale per comprendere sia cosa si intenda effettivamente col termine ‘inclusione’ nelle nostre società, sia le intrinseche e forti difficoltà che questo processo por-ta sempre con sé nella realtà di tutti i giorni.