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I tanti volti della dignità nella giurisprudenza e nelle previsioni normative

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 167-176)

Gabriella Luccioli

3. I tanti volti della dignità nella giurisprudenza e nelle previsioni normative

Il principio di dignità è stato evocato in dottrina e nell’elaborazione giurispru-denziale nazionale e internazionale in relazione a una varietà di istituti giuridici e contesti sociali, così che la dignità, nei suoi mille volti, finisce per acquistare un rilievo che, trascendendo la sua originaria connotazione etico-filosofica, la configura come asse portante del sistema giuridico e parametro ineludibile di riferimento in tutte le controversie in cui si ponga un’esigenza di tutela dei di-ritti fondamentali della persona.

E invero le implicazioni sul piano filosofico, morale, sociale e giuridico del valore della dignità investono i temi più sensibili del vivere civile e coinvolgono una vasta gamma di contenzioso, riguardando la famiglia, le unioni civili, il

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matrimonio omosessuale, la maternità surrogata, il lavoro, l’attività sanitaria, il trattamento di fine vita, lo stato di detenzione, le questioni di genere, la prosti-tuzione, l’essere portatori di handicap, la materia del risarcimento del danno non patrimoniale alla persona, nella sua funzione di garanzia della dignità dei soggetti danneggiati.

Esse incidono inoltre sui grandi temi dell’immigrazione, dell’ambiente, del-la transnazionalità dei diritti sociali: temi che aprono spazi sterminati per l’at-tuazione del principio di dignità, oltre che di quello di solidarietà, con una capacità inclusiva non solo nei confronti delle persone, ma anche degli stru-menti diretti a rendere possibili strategie di intervento nel segno della solidarie-tà, contrastando la forza degli interessi particolari.

L’esame di alcune specifiche fattispecie consente di riflettere sulle applica-zioni concrete di tale principio operate dalla giurisprudenza anche straniera e sovranazionale, così da disvelare il segno indelebile che esso ha lasciato nei vari ordinamenti nel momento in cui si è invocata la sua tutela.

Sono note le due sentenze del Consiglio di Stato francese in data 27 ottobre 1995 sul c.d. ‘lancio dei nani’ cui prima si è accennato, uno spettacolo sovente praticato nelle discoteche per il divertimento dei presenti, consistente nel lan-ciare il più lontano possibile, a guisa di proiettili, persone affette da nanismo. Si trattava di accertare se tale pratica fosse lesiva della dignità delle persone coinvolte e, in ipotesi, se valesse a legittimare la condotta il consenso dei sog-getti interessati, sovente prestato invocando il diritto al lavoro e la mancanza di serie alternative sul piano occupazionale.

La risposta del Consiglio di Stato è stata nel senso che, nonostante fossero state impiegate misure di sicurezza volte a escludere ogni rischio per l’incolu-mità dei nani, il loro utilizzo come proiettili, proprio in quanto portatori di un

handicap che facilitava il loro impiego nel gioco, integrava una violazione della

dignità quale valore innato, quindi non negoziabile. Nel pensiero dei giudici francesi la dignità, nella sua portata assoluta e oggettiva, giustifica e anzi im-pone la limitazione della libertà dell’individuo: ciò vale a dire che il punto di vista soggettivo non può rivestire tale pregnanza da comportare la stessa nega-zione della dignità. In questa prospettiva il consenso prestato, valutato anche in connessione con i motivi prettamente economici addotti, costituisce esso stesso ulteriore violazione del principio di dignità. Ne risulta così esaltata la dignità non già come droit de l’homme, ma quale droit de l’humanitè (Resta 2001, 843).

Con una decisione del 15 febbraio 2006 il Tribunale costituzionale tedesco ha dichiarato l’incostituzionalità del § 14 III della legge sulla sicurezza aerea dell’11 gennaio 2005 che autorizzava l’aviazione militare germanica ad abbat-tere aerei civili dirottati da gruppi terroristici e destinati a essere usati come armi di sterminio di cittadini a terra.

In tale pronuncia la Corte tedesca ha dichiarato detta disposizione in con-trasto con la clausola dell’intangibilità della dignità dell’uomo e con il diritto alla vita consacrati negli artt. 1 e 2 della legge fondamentale, in quanto con l’abbattimento i soggetti all’interno dell’aeromobile sarebbero stati spersonaliz-zati e privati dei loro diritti, non rilevando in contrario che dal loro sacrificio sarebbe derivata la salvezza di un gran numero di altre persone innocenti. Ha aggiunto la Corte che a diversa soluzione avrebbe dovuto pervenirsi se a bordo dell’aereo si fossero trovati solo gli autori del dirottamento, in quanto la deci-sione dei predetti di compiere l’azione terroristica avrebbe impedito di ravvisa-re una lesione della loro dignità e del loro diritto alla vita.

È evidente nelle sentenze dei giudici francesi e tedeschi innanzi richiamate l’assunzione di una concezione oggettiva del principio di dignità, in quanto il bene in esse tutelato non è tanto la dignità delle persone coinvolte nelle descrit-te vicende, non è la dignità di quel nano o di quei viaggiatori, ma la dignità di tutti i nani e di tutta l’umanità.

Il delicato rapporto tra principio di dignità e autonomia contrattuale viene in evidenza in relazione a quelle trasmissioni televisive di grande successo, ispi-rate all’opera 1984 di George Orwell, nelle quali alcune persone sono rinchiu-se per un lungo periodo in un ambiente ristretto, in completo isolamento dal mondo esterno, e vengono riprese dalle telecamere in ogni momento della giornata e in ogni loro attività, in una completa negazione del confine tra sfera pubblica e privata. In tali situazioni si pone soprattutto in discussione la rile-vanza del consenso dei soggetti ripresi, destinatari della curiosità morbosa dei telespettatori, in una spietata spettacolarizzazione dei loro aspetti più intimi. Ancora una volta torna in rilievo la questione della disponibilità della dignità.

Il problema, oggetto di ampio dibattito nella dottrina francese e tedesca – ossia in Paesi che da tempo hanno sviluppato una forte sensibilità alla tematica in discorso – e alimentato dai pareri giuridici sollecitati dalle autorità statali di controllo delle telecomunicazioni e dalle stesse società produttrici, non sembra riscuotere particolare attenzione tra gli osservatori italiani; la mancanza di con-tenzioso al riguardo non ha fornito ai nostri giudici, a quanto risulta, l’occasio-ne di pronunziarsi.

Forse nessun settore come quello della detenzione in carcere – ossia nel luogo in cui la restrizione della libertà raggiunge il grado massimo consentito dalla Costituzione4 – reclama il rispetto del principio di dignità della persona, considerata la nota situazione di degrado, di promiscuità e di umiliazione sof-ferta dai detenuti a causa del sovraffollamento carcerario. Soccorrono al

riguar-4 In tal senso, cfr. Silvestri (2014), al quale rinvio anche per un’ampia rassegna delle pro-nunce della Corte costituzionale in tema di diritti dei detenuti.

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do l’art. 27, co. 3, della Costituzione, che prescrive che la pena non deve avere una finalità meramente afflittiva, ma deve tendere alla ‘rieducazione’ del con-dannato, e prima ancora gli artt. 2 e 3, che come già ricordato consacrano i principi fondamentali di dignità e solidarietà, nonché l’art. 1 della l. n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario, che al suo primo comma sancisce che «il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona». A livello sovranazionale è sufficiente ri-chiamare l’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani e l’art. 3 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che pongono il divieto di tortura e di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti. Tali prescrizioni norma-tive impongono il rispetto del complesso dei diritti inviolabili dei quali anche il detenuto, pur privato della ‘regina delle libertà’ che è la libertà personale, è ti-tolare ed esigono che il trattamento penitenziario assicuri condizioni di deten-zione con detti diritti compatibili. Lo Stato è pertanto tenuto ad assicurare che le condizioni detentive siano rispettose della dignità umana e che le modalità di esecuzione della pena garantiscano comunque la salute del detenuto.

Nella sterminata giurisprudenza della Corte di Strasburgo al riguardo è sufficiente richiamare la nota sentenza ‘pilota’ sul caso Torreggiani/Italia dell’8 gennaio 2013 che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della CEDU e, tra le più recenti, la pronuncia 4 novembre 2019 Gorlov e altri/Russia, che ha affermato costituire violazione della Convenzione sottoporre un detenuto a videosorveglianza continua attraverso l’installazione all’interno della cella di una telecamera a circuito chiuso; ancor più di recente, la sentenza del 4 giugno 2020 nel caso Citraro e Molino/Italia, con la quale la medesima Corte ha con-dannato lo Stato italiano per violazione dell’art. 2 della Convenzione per non aver adottato le misure ragionevolmente necessarie per assicurare l’integrità di un detenuto suicidatosi in carcere.

Quanto alla giurisprudenza costituzionale, va osservato che la Corte delle leggi ha riservato una costante attenzione, facendone richiamo in numerose decisioni, al concetto di dignità, posto in diretta relazione con altri diritti fon-damentali, secondo un percorso logico volto a conferire al valore in discorso molteplici contenuti sostanziali.

La recente sentenza n. 141 del 2019 fornisce un importante tassello nella

riflessione della Consulta sul concetto di dignità umana. Come è noto, detta pronunzia ha affermato la legittimità costituzionale delle disposizioni che pu-niscono il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione, in quanto mirano a tutelare i diritti fondamentali delle persone vulnerabili e la dignità umana, facendosi carico dei pericoli insiti nell’attività prostitutiva, anche quando la scelta della donna in tal senso appaia del tutto libera, atteso che la prostituzione, pur se volontaria, costituisce attività che degrada e svilisce l’es-sere umano.

È evidente nell’impianto motivazionale della Corte l’apertura verso conside-razioni di tipo valoriale, in netto contrasto con l’approccio del giudice remit-tente, che aveva configurato il prostituirsi come espressione di libertà sessuale, ascrivibile al novero dei diritti costituzionalmente protetti, in un contesto di ‘riqualificazione sociale’ della prostituzione professionale.

Il Giudice delle Leggi mette in luce la condizione di debolezza e vulnerabi-lità delle persone coinvolte, contrapponendo uno sguardo attento alla ‘sostanza delle cose’, che impone di considerare la persona che vende prestazioni sessua-li come vittima, a quella visione sempsessua-lificata della Corte barese che presumeva di essere di modernità e di apertura al cambiamento, ma in realtà rifletteva una percezione superficiale e asettica del fenomeno.

Ed è qui che si delinea la pregnanza del concetto di dignità: nell’affermare che l’abolizione operata dal legislatore del 1958 con la l. n. 75, volta a punire solo le ‘condotte parallele’, e non il prostituirsi, postulava la configurazione della prostituzione come attività lesiva della dignità di tutte le persone che la esercitano5, la Corte costituzionale assume dichiaratamente un concetto di di-gnità in termini oggettivi e assoluti, a prescindere dalla percezione che ne ab-biano i soggetti coinvolti, atteso che è il legislatore «che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, un’attività che degrada e svilisce l’indivi-duo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente».

Ed è ancora qui che la Consulta, nel ravvisare la conformità a Costituzione della disciplina vigente, in quanto volta a creare una rete di protezione a tutela della persona che fa mercato del suo corpo – riguardata come bisognosa di protezione in quanto la sua scelta si radica generalmente in «fattori che condi-zionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo talora drasticamente il ventaglio delle sue opzioni esistenziali» – riafferma il valore centrale della persona e della sua dignità. È evidente in tale percorso argomentativo la stretta connessione tra i diritti inviolabili della persona e il principio di solidarietà, in adesione all’impostazione del moderno costituziona-lismo, «ispirato all’idea che l’ordinamento non deve limitarsi a garantire i dirit-ti cosdirit-tituzionali, ma deve adoperarsi per il loro sviluppo». Per tale via lo svilup-po della persona umana che l’art. 2 Cost. svilup-pone come impegno della Repubbli-ca esige che il soggetto coinvolto non sia abbandonato nella condizione di perdurante sottomissione e sfruttamento.

5 In sintonia con la più recente giurisprudenza di legittimità, che individua il bene giuridico protetto dalla l. n. 75 del 1958 nella dignità della persona che si prostituisce per difenderla dallo sfruttamento e dalla strumentalizzazione ad opera di terzi: cfr. per tutte Cass. pen. 2017, n. 14593; 2017, n. 5768.

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E ancora la dignità del lavoratore è fondamentale punto di riferimento nella sentenza n. 58 del 2018 sull’Ilva della stessa Corte costituzionale, che nel dichia-rare l’incostituzionalità dell’art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 e degli artt. 1, co. 2, e 21-octies della l. n. 132 del 2015 ha affermato che il legislatore non ha rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti, in quanto ha privilegiato in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando le esigenze afferenti a dirit-ti cosdirit-tituzionalmente inviolabili legadirit-ti alla tutela della salute e della vita, cui è inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in un ambiente sicuro. La Consulta ha al riguardo ricordato che l’attività d’impresa, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare ‘sempre’ in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e che rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce condizione minima e indispensabi-le perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali.

Un altro terreno nel quale il valore della dignità è ben presente sia nella normativa nazionale e convenzionale sia nella elaborazione giurisprudenziale è quello dei trattamenti sanitari e del fine vita. La Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina del 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con l. n. 145 del 28 marzo 2001, ha posto nel suo primo articolo come propria fina-lità la protezione dell’essere umano «nella sua dignità e nella sua identità». Con la l. n. 219 del 2017 il legislatore, nel rifiutare il principio della sopravvivenza a ogni costo e nel riservare al malato ogni decisione sul curarsi o sul non curarsi, ha rimesso nelle sue mani la possibilità di finire la vita con dignità. È immedia-to il richiamo al pensiero di Seneca, il quale affermava che la qualità della vita è più importante della sua durata. Ed è nel principio di dignità che trova fon-damento la regola del ‘consenso informato’ che ispira l’intera normativa, atteso che la somministrazione di cure mediche prescindendo dalla volontà consape-vole del malato costituirebbe una grave lesione del suo valore di persona.

Del principio di dignità è agevole cogliere ulteriore applicazione nella nota sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, che nel riaffermare e svi-luppare i principi già enunciati nell’ordinanza interlocutoria n. 207 del 2018 ha ritenuto lecito, in presenza di determinate e ben delineate condizioni, l’aiuto al suicidio, riconoscendo alle persone che si trovano nelle condizioni date il dirit-to di morire con dignità. Nel far riferimendirit-to al principio della dignità umana la Corte ha qui inteso chiaramente assumere un’accezione soggettiva del concet-to, configurando non già un diritto a morire, insussistente nel nostro ordina-mento, ma un più limitato diritto del malato ormai esausto al rispetto della propria personale concezione della dignità e della scelta di liberarsi da soffe-renze divenute nella sua percezione intollerabili accelerando la propria fine.

Dopo aver tracciato una sorta di identikit del soggetto che può ricorrere all’aiuto terminale, collocandolo nel punto di intersezione degli spazi di

opera-tività del rifiuto di cure e dell’interesse a una morte dignitosa e senza sofferen-za (Vallini 2019, 805), la Consulta, superando i profili strettamente penalistici della questione e prendendo le mosse dal diritto – ora riconosciuto espressa-mente, come già detto, dalla richiamata l. n. 219 del 2017, ma già presente nell’ordinamento – di ogni persona capace di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ha rafforzato e dato ulteriore spazio al principio di auto-determinazione, riconoscendo la massima tutela alla dignità umana, intesa co-me dignità anche nella morte.

Nello spirito di un’etica consequenzialista e in applicazione del principio di ragionevolezza la Corte ha ritenuto che la rinuncia ai trattamenti di sostegno vitale, lasciando che la malattia segua il suo corso, e il suicidio assistito, nelle condizioni date, procurandosi direttamente la morte, si pongano come sostan-zialmente equivalenti, in quanto entrambi accelerano la fine della vita del ma-lato. In questa prospettiva ha posto in evidenza la centralità non tanto del fatto in sé del morire, ma del tempo del morire (Rimedio 2020, 65), non ponendosi più nella percezione del malato alcuna alternativa alla fine della vita.

Ne deriva che non è ravvisabile tra i doveri del medico la difesa del pazien-te da se spazien-tesso, a fronpazien-te della fondamentale esigenza di tupazien-tela di quest’ultimo da ulteriori sofferenze terminali non più tollerabili e non corrispondenti alla sua idea di dignità.

Qui sta la maggiore apertura rispetto alle scelte compiute dal legislatore con la legge del 2017, nell’acquisita consapevolezza che nessuna autorità può erger-si a giudice della quantità e qualità delle sofferenze che un soggetto malato può essere disposto a tollerare.

È evidente nella posizione della Corte costituzionale l’attenzione alle nuove rivendicazioni di diritti che scaturiscono dalle conquiste della medicina, nonché dai grandi cambiamenti nella società e nel sentire collettivo sulle questioni ine-renti alla fine della vita. Con spirito laico e libero da incrostazioni ideologiche la Corte ha saputo conciliare i valori della vita e della salute con il principio di autodeterminazione anche nella scelta finale di morire con dignità, realizzando un equilibrato bilanciamento di interessi e valori e prendendo decisamente le distanze da quella posizione che la configurava solo come legislatore negativo.

Quanto infine alla copiosa giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha fatto applicazione del principio di dignità, tra le più recenti mi limito a richia-mare le decisioni in tema di maternità surrogata (S.U. 2019 n. 12193; 2014 n. 24001), che hanno correttamente ritenuto la gestazione per altri lesiva della dignità della donna. Si è osservato al riguardo6 che tale pratica, sanzionata

pe-6 Per una forte critica alla pratica della maternità surrogata si rinvia, volendo, a Luccioli (2017, 325; 2019, c. 4027; 2020a; 2020b, 1).

Persona

nalmente dalla l. n. 40 del 2004, vede la gestante svilita a mero contenitore di una vita destinata per contratto a non appartenerle mai e che l’operazione che tende a cancellare il rapporto tra la donna e il bimbo che porta in grembo, ignorando i legami biologici e psicologici che si stabiliscono tra madre e figlio nel lungo periodo della gestazione e così smarrendo il senso umano della gra-vidanza e del parto, riducendo la prima a mero servizio gestazionale e il secon-do ad atto conclusivo di tale prestazione servente, costituisce una ferita alla dignità non solo di quella donna, ma di tutte le donne. La rinuncia preventiva ai diritti materni vale a trasformare quella donna in una donna-cosa, e nulla cambia né per la madre né per il bambino se ciò avviene a titolo oneroso o gratuito.

Ed è anche la dignità del figlio, il soggetto più debole del rapporto, che resta ferita nel momento in cui se ne fa oggetto di scambio e si alterano alla nascita i suoi dati anagrafici. Il bambino diventa lo strumento per soddisfare il deside-rio di genitorialità dell’adulto, che non è un diritto, ma una mera e legittima aspirazione; lo si sottopone alla interruzione in modo netto e definitivo, imme-diatamente dopo il parto, del legame simbiotico con la donna che lo ha gene-rato, con una lacerante destrutturazione della relazione materna; gli si nega il diritto fondamentale di conoscere da adulto la propria identità biologica; lo si rende, in conclusione, non più soggetto, ma oggetto di un diritto fin dal mo-mento del suo concepimo-mento.

In questa prospettiva è agevole individuare quale solida ratio del divieto posto dall’art. 12, co. 6, della l. n. 40 del 2004 l’esigenza di porre regole e con-fini al desiderio di genitorialità a ogni costo, che pretende di essere soddisfatto attraverso il corpo di un’altra persona, utilizzato come mero supporto materia-le per la realizzazione di un progetto altrimenti irrealizzabimateria-le.

4. Conclusioni

La rapida e parziale ricognizione dei casi, tra i più significativi, che l’esperienza giurisprudenziale ci consegna rende evidente la pregnanza della prospettiva personalista sulla quale si fonda la nostra Costituzione e l’ampiezza degli spazi

Nel documento Lessico della Dignità (pagine 167-176)