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3. La tortura e la rivoluzione illuministica

1.3. La c.d inquisizione soave

regime fascista e la sua innata vocazione violenza – 2.1 La persecuzione degli Ebrei – 3. Repressione della violenza fisica e morale nella Costituzione – 3.1 Cenni sul dibattito in assemblea costituente sull’art 13 comma 4 – 3.2 Esame del quarto comma dell’art 13 Costituzione – 4 L’assenza di una disciplina nel Codice Penale post costituzionale – 5 La necessità del divieto di tortura nell’ordinamento italiano – 5.1 Premessa – 5.2 La violenza da parte delle forze di polizia negli anni della lotta al terrorismo – 5.3 Trattamenti inumani e degradanti nelle carceri – 5.3.1 Il sovraffollamento carcerario – 5.3.2 Il regime penitenziario del c.d. “carcere duro”

1. La tortura nell’Ottocento, tra abolizione formale e permanenza

sostanziale

1.1. Cenni introduttivi

Il congresso di Vienna (1814-1815) e la conseguente instaurazione dell’ancient regime, non riuscirono ad eliminare tutti i progressi raggiunti nel corso del secolo precedente: fu impossibile

tornare allo status quo ante. Tra la fine del Settecento e l’Ottocento molti stati, non solo europei1, eliminarono la tortura dai propri codici, inserendo un divieto che, una volta cristallizzatosi, non trovò più disciplina diretta2 se non in poche eccezioni.

All’abolizione formale della tortura non seguì automaticamente, anche una sua abolizione sostanziale3; la sopravvivenza dell’istituto si espresse in tre diverse direzioni: sopravvivenza in positivo, consistente nell’introduzione di un obbligo di rispondere in capo all’imputato; dimensione sistematica in negativo, consistette nell’introduzione di una pratica opposta alla tortura ma che ugualmente dava luogo a risultati inaffidabili; i tormenti vennero, infatti, sostituiti dalla spes

premi, la quale agiva sulla volontà del soggetto in misura uguale e contraria alla tortura; infine, vi

era la sopravvivenza come prassi illecita, in forma occulta.

1.2. Passaggio dalla tortura inquisitoria all’obbligo di rispondere

La prima forma attraverso la quale la tortura sopravvisse, consistette nell’introduzione, a carico dell’imputato, di un obbligo penalmente sanzionato di rispondere alle autorità inquirenti; quest’incongruenza, per esempio, poteva essere rinvenuta all’interno del Codice austriaco del 1803,

1 Brasile nel 1824 e Turchia nel 1856.

2 Nella maggior parte dei paesi, infatti, il divieto doveva essere dedotto logicamente da norme di più ampia

portata, ovvero tutt’al più era possibile rinvenire una disciplina indiretta.

3 La battaglia combattuta dall’illuminismo ha relegato la tortura negli inferi dell’illecito ma, non potendo

estirparla dal mondo dei fatti, ne ha modificato in qualche misura la nozione. Cit. E. Scaroina, Il delitto di

nei paragrafi 363-3644; la pratica fu abbandonata solo nel 1853 con l’introduzione del regolamento di procedura penale.

All’imputato non veniva chiesto di dire la verità, ma semplicemente di non rimanere in silenzio. Era considerato necessario che questi rilasciasse una dichiarazione perché, laddove quest’ultima non avesse collimato con le risultanze probatorie, avrebbe potuto essere utilizzata contro l’imputato stesso.

L’Italia si mantenne immune dalla permanenza di una forma indiretta di tortura. Il codice di procedura penale per il Regno d’Italia (1807) vietò di sottoporre l’imputato a giuramento, quando avesse il solo scopo di dare un valore maggiore alle sue dichiarazioni; e di rivolgere allo stesso domande suggestive5. Nel codice si stabiliva che, laddove l’imputato fosse rimasto in silenzio, il giudice avrebbe dovuto limitarsi ad avvertirlo che le indagini sarebbero proseguite in ogni caso. Medesima linea fu seguita dal Codice sardo del 1847 e da quelli per il Regno d’Italia del 1865 e 1913, rispettivamente agli articoli 236, 261 e 388.

4 Il codice stabiliva: in primo luogo un obbligo di rispondere; in secondo luogo un obbligo del giudice di

ammonirlo qualora il primo si fosse rifiutato di rispondere; ed infine ove l’ammonizione fosse caduta nel vuoto vi erano una serie di sanzioni.

5 Domande in cui si da per scontata una circostanza che in realtà dovrebbe essere provata, spingendo il

1.3. La c.d. inquisizione soave

La seconda forma riguardava la sopravvivenza della tortura nella sua dimensione negativa: essa venne, infatti, sostituita dalla promessa di impunità o di altri benefici. L’origine della pratica è da rinvenire nell’ancient regime con le lettres de cachet6.

Beccaria affrontò la questione dello spes premi nel capitolo XXXVII del “Dei delitti e delle pene”, riteneva che la scelta di scendere a patti con dei criminali indebolisse la legge; ma, poiché, tali accordi venivano, già ampiamente, utilizzati dai giudici, suggerì che fossero fatti oggetto di una puntuale disciplina normativa, così da sottrarli alla discrezionalità dei tribunali, e allo stesso tempo, contrastando più efficacemente ed in via preventiva le associazioni criminali.7

Beccaria non si interrogò circa l’attendibilità delle confessioni e delle dichiarazioni rilasciate in cambio di impunità, si poneva, piuttosto, il problema morale del tradimento, una pratica considerata detestabile anche tra i criminali.

Luigi Cremani, penalista toscano che visse tra il 1748 e il 1838, scrisse un’unica opera, il “De iure

criminali” (1791) suddiviso in tre libri. Nel primo libro venne inserita un’appendix intitolata “de tortura ut voca tubi etiam de iure iurando suggestu, spe premi et similibus quae confessionem extortam pertinent”. Tortura e speranza di un premio vengono ad essere esaminati nello stesso

ambito, poiché entrambi produttivi di una confessione estorta. Cremani era un oppositore logico

6 Consistevano in varie forme di immunizzazione personale legate spesso a forme di trattativa, se il reo in

questione era di eminente lignaggio o comunque di posizione sociale ragguardevole, costituivano un dato di esperienza piuttosto diffuso. Espressione di quella diseguaglianza di nell’esercizio della giustizia penale che costituisce uno dei tratti salienti dell’ancient regime. T. Padovani, Tortura, p. 290

della tortura, essendo convinto che questa incidesse sulla spontaneità della confessione in senso negativo8 e che solo per questo motivo dovesse essere eliminata dagli ordinamenti.

Jeremy Bentham nella sua “Teoria delle pene e delle ricompense” pubblicata nelle “Opere” edite nel 1829; affrontò il tema da un punto di vista strettamente utilitaristico. In antitesi con la posizione di Beccaria, riteneva più opportuno che, l’impunità in cambio di una confessione fosse lasciata alla discrezionalità del giudice, e non ad una legge che ne fissasse i limiti.9 Rispetto invece alla questione moralistica relativa al tradimento autorizzato, a suo avviso il problema non avrebbe dovuto porsi10.

Giovanni Carmignani, nella “Teoria delle leggi della sicurezza sociale” ritenne che tutte le argomentazioni utilizzate dai vari autori prima di lui, non fossero riuscite ad individuare il nucleo della questione, e cioè il fatto che spes impunitatis e tortura fossero di fatto la medesima cosa11. Sia

8 La speranza dell’impunità, così come la tortura, rappresentava un modo attraverso il quale veniva alterata la

genuinità, spontaneità della confessione, al punto, diceva Cremani, che essa potesse addirittura indurre l’innocente a rendersi falsamente reo confesso di un crimine che non aveva commesso, pur di far cessare i pesi del processo quali la custodia cautelare o gli altri disagi che potesse aver subito. Cit. T. Padovani,

Tortura, p. 294

9 Era opinione di Bentham che la presenza di una legge generale avrebbe permesso di pianificare la

delazione; il soggetto avrebbe infatti potuto senza problemi partecipare alla realizzazione del crimine, tranquillo del fatto che successivamente avrebbe avuto l’opportunità di tradire i propri complici ottenendo in cambio l’impunità.

10 T. Padovani, Tortura, p. 295; L’autore ricorda le parole di Bentham: “Sarà detestato dai delinquenti perché

è la loro rovina, ma gli onesti debbono approvarlo perché è la loro salvezza”.

11 “La utilità di questo espediente, qualunque ella possa essere, se sembra favorevole al bisogno del metodo

giudiziario, questo bisogno non esiste se non nella petizione di principio che informa la tortura con questa differenza soltanto, che la tortura aspira a convertire in criterio di verità il dolore e la impunità aspira a

con la tortura, sia con la speranza del premio, veniva, infatti, introdotto un elemento in grado di influenzare profondamente la volontà del soggetto ottenendo risultati inaffidabili; i medesimi argomenti utilizzati contro la confessione estorta con la forza avrebbero potuto, quindi, essere estesi a queste ipotesi, poiché in un caso si confessa per far cessare il dolore, nell’altro, è il timore per la pena a spingere alla confessione12. La logica alla base della spes premi sarebbe stata quindi la medesima della tortura, e cioè, la realizzazione di un intervento diretto sull’imputato allo scopo di spingerlo a collaborare con le autorità giudiziarie.