Nel 1943 la guerra era infuocata, le sue sorti oscure, la situazione terribile; ep-pure, neanche in quell’anno l’opera mancò dal “Pergolesi”, con Manon Le-scaut, La Bohème e Andrea Chénier in cartellone a fine giugno. Sulla scena un giovane di prossima gloria internazionale: Mario Del Monaco. Il successo è pieno, come la voglia di teatro. Il passaggio drammatico dell’8 settembre è vi-cino: anche per la Festa e Fiera di quell’anno, tuttavia, era già prevista la Sta-gione lirica, con Adriana Lecouvreur ed Elisir d’amore.
Al dunque, visti gli eventi e il precipitato dell’armistizio, non risulta che la sta-gione si fece: ma il fatto stesso che nemmeno in quei frangenti il Teatro fosse considerato non importante, certo la dice lunga sulla sua reale “tradizione” in quanto a “radicamento”. Solo il tragico 1944 non lascia traccia a Jesi di attività teatrale istituzionale, realizzata o almeno progettata, tranne qualche serata d’intrattenimento destinata alle truppe: tradizione che torna però già da settem-bre ’45, come la gran voglia di ricominciare, con Bohème e Rigoletto.
Il nuovo volto del teatro lirico
Entro la metà del Novecento si compie, a livello di programmazione, la lunga transizione iniziata nell’ultimo quarto dell’‘800, nel corso della cui parabola lo spettacolo primario dell’anno -l’opera lirica- contrae sempre più il numero del-le serate, giungendo al minimo deldel-le due-tre recite totali del secondo dopoguer-ra; in quanto al repertorio, si passa piano piano dal crescente ritardo fino al ve-ro e pve-roprio scollegamento dalla pve-roduzione contemporanea. Se ancora nel tar-do Ottocento lo spettacolo d’opera è molto popolare perché la proposta è “at-tuale”, di moda e rispondente alla sensibilità estetica e comunicativa dei tempi, nel corso dei decenni e con il procedere del Novecento si cristallizza piuttosto un progressivo stereotiparsi della programmazione, nonostante qualche tentati-vo modernizzatore nell’era fascista: come con la Circolare 20.8.1933 della
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Corporazione dello Spettacolo, che nel trattare delle sovvenzioni alle stagioni liriche considera motivo di esclusione dal contributo il non rappresentare nella stagione in oggetto “una o più opere nuove per la città”. C’è anche da dire, in proposito, che la legislazione fascista sul teatro d’opera nel configurare la sov-venzione aveva con ciò concentrato l’attenzione “al complesso dello spettacolo e non già soltanto a singole parti”. Da un lato, spingendo le amministrazioni locali a qualificare la propria contribuzione al Teatro, essendo ciò precondizio-ne all’intervento statale del Ministero; dall’altro, arrivando a ragionare non più in termini di “corso di rappresentazioni” come nella tradizione romantica e del primo Novecento (aumentate come sono le richieste economiche dell’offerta ma anche quelle artistiche della domanda), bensì di serate, specifiche e ben in-dividuate, così come oggi ancora si intende: è appunto di allora la contrazione della stagione fino alle due, tre, massimo quattro sere di rappresentazione. Il processo storico è segnato e arriverà ormai al compimento di quella parabola il cui risultato è la perdita di popolarità dello spettacolo d’opera e la nascita di una sua nuova concezione come patrimonio artistico e culturale, tradizione da riconoscere e apprezzare più con i parametri della percezione estetica storica che non della sensibilità attuale, partecipata e “vissuta” com’era nell’Ottocento.
Perdita che non deve considerarsi solo in termini di quantità di pubblico, come pure accade, ma soprattutto nel senso di un distacco linguistico e di consuetu-dine della gente comune con i temi e le forme dell’opera: che sono, di fatto, elaborazioni artistiche e comunicative belle quanto si vuole ma lontane, di un secolo prima. La sensibilità e l’empatia teatrale popolare trova ora più agio nei generi del teatro leggero e “di rivista”, come anche nel proliferare della filo-drammatica. In campo musicale si assiste invece ad un interessante fenomeno di diffusione e -diciamo così- di autocoscienza della tradizione, che trova sboc-co fin nel tentativo di gestione associativa locale della stagione lirica, nonché nella formazione di un complesso orchestrale sedicente “stabile”: iniziativa promossa nel dopoguerra e rimasta attiva per qualche anno, anche con discreti esiti, ma che non è mai riuscita a diventare davvero stabile, non riuscendo a saldare le sue potenzialità produttive con la proposta operistica locale, comun-que sempre attiva e continuativa nonostante gli alterni riscontri di pubblico.
Siamo vivi! Si ricomincia
La fine della guerra presenta nuove condizioni esistenziali; superata la tragedia del conflitto, come e ancor più che nel primo dopoguerra c’è voglia di vivere e di “esserci”: l’attività teatrale ne è il termometro, con varie tornate d’opera, concerti, operette e intrattenimenti vari nel corso dell’anno. Ci si riorganizza: il Sindaco nomina una Deputazione Teatrale, rinasce la Società Amici della Mu-sica. Si costituisce l’Orchestra Sinfonica Stabile “G.B. Pergolesi”, diretta da
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Aurelio Coli: è un segno, oltre che di vitalità culturale e musicale, di una buona disponibilità di risorsa umana, che vuol dire anche una non trascurabile diffu-sione locale della musica “praticata”, non solo “ascoltata”. Una situazione di progressivo fervore già riscontrabile a fine ‘800 e ripropostasi anche in seguito fino ad oggi: una condizione che il contesto e l’ambiente di un teatro musicale in attività continuativa non può non creare. L’intenzione comune è quella di ricominciare: nello specifico, di valorizzare quella tradizione delle stagioni li-riche di settembre che “sono andate sempre più perdendo la loro importanza”.
Qui sopra: foto d’epoca del “Pergolesi” gremito all’inverosimile
C’è voglia di cambiare, cercando di dimenticare il passato, ma anche sforzan-dosi di trovare nuove strade. Gli Amici della Musica -come anche nel periodo fascista- svolgono funzione di promozione culturale, ma anche produttiva: nel 1946 si fanno promotori di una sottoscrizione pubblica, fornendo i fondi di ba-se per la stagione lirica di ba-settembre -due recite di Traviata- cui il Comune ac-corda 40.000 lire; un’attività produttiva “diretta” che durerà però solo qualche anno, restando tuttavia la titolarità gestionale comunque sempre all’impresario di turno. Non sempre la qualità corrisponde all’entusiasmo, né i risultati all’impegno posto in essere: “per gli spettacoli lirici crediamo prudente mante-nere un decoroso silenzio”, scrive a dicembre ‘46 il quindicinale locale Il Mon-tirozzo, che coglie anche occasione per stigmatizzare la scarza affluenza ai concerti dell’Orchestra Sinfonica, ricordando che “il pubblico grosso è duro a
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smuoversi” ma anche bacchettando quello che “troppe volte si è vantato di a-mare la musica”. Comunque, è soprattutto in merito all’assetto produttivo, il cambiamento che, secondo il Il Montirozzo, ormai si pone come urgente:
“Siamo in alto mare. Lasciando passare altro tempo si dovrà poi, come al soli-to, ricorrere all’ultim’ora a qualche impresario forestiero”. Pertansoli-to, “Sveglia!
Signori al lavoro! Signor Sindaco, ci metta una mano anche lei”, conclude il corsivista che, “per non ricadere tra le grinfie di un impresario speculatore”, propone la sua ricetta: sollecitare tutte le istituzioni culturali della città a tassar-si e procurare, con il contributo da chiedere al Governo, una somma degna; per produrre poi in proprio, ottimizzando anche la disponibilità della locale Orche-stra Stabile. Senza dubbio l’idea è forte, il progetto audace, l’obiettivo ambi-zioso e potenzialmente ricco di sviluppi: potrebbe funzionare, se ci fosse la co-esione giusta, e sarebbe un’operazione storicamente all’avanguardia.
Nella foto, Aurelio Coli dirige la Banda in piazza, davanti al Teatro
Un’occasione perduta
Ma le giuste intuizioni del giornale restano tali: troppo all’avanguardia per i tempi, troveranno realizzazione solo molti anni dopo. Prevale ancora, invece, il
“mestiere” degli impresari, che addirittura si moltiplicano nel dividersi o con-tendersi la piazza: nel 1947 sono tre, compresa l’Orchestra “Stabile” che pro-pone Don Pasquale. Nel ‘48, addirittura quattro: la Compagnia Lirica “Roma”
all’inizio di maggio, la Cooperativa Artisti Lirici e Sinfonici di Roma a fine maggio, l’impresario Risiero Sabbatini di Pesaro a settembre, ancora la CO-ALS a ottobre. Presidente della Cooperativa -e protagonista in scena- è il cele-bre baritono Benvenuto Franci, già conosciuto e applaudito a Jesi sin dagli anni
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Venti: allora sponsorizzato -come volevano i tempi- dalla Corporazione Na-zionale Fascista del Teatro, nel cui nome agiva peraltro sin d’allora anche lo stesso Sabbatini. “La nostra organizzazione, che non ha fini speculativi, rap-presenta un sano esperimento di lavoro artistico in gestione sociale”, scrive Franci al Sindaco Pacifico Carotti, che gli risponderà con calorosi ringrazia-menti a testimonianza dell’entusiasmo suscitato dalla Compagnia nel pubblico in sala e diffuso poi nella cittadinanza.
La Compagnia -come altre riconosciute dal Ministero- chiede soltanto “il mo-desto beneficio del personale serale, della luce, dell’affissione, ecc.”: il cosid-detto spesato. L’assegnazione di “recite” da parte del Ministero -cioè la sov-venzione statale serale per un certo numero di rappresentazioni, accordata di-rettamente alla Compagnia- le permette infatti di avere buon gioco su altre nel proporre spettacoli lirici ai Comuni, sempre a corto di denaro. L’anno dopo, per la stagione di settembre, giungono a Jesi due autentiche primedonne: Ma-falda Favero, contesa dai maggiori teatri del mondo, e Clara Petrella, già osan-nata alla Scala e anche grande artista scenica, detta “la Duse del belcanto”.
Nelle foto, da sinistra: sopra, Franci e Carotti; sotto, Favero e Petrella
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