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IL “LEONE”: UN PICCOLO CAPOLAVORO DI IMPRENDITORIA PRIVATA

Situato fuori Porta Romana, nello spazio dell’attuale piazzetta del Leone -che è venuta a occupare il suo posto dopo che esso andò completamente distrutto da un incendio nel 1892- il Teatro del Leone era inserito tra altre costruzioni e un po’ internato rispetto alla via principale, da cui era raggiungibile solo tramite uno stretto vicolo -l’odierno Vicolo del Leone- appositamente realizzato. Una situazione quindi architettonicamente un po’ compressa e assai poco monu-mentale, neanche lontanamente paragonabile a quella della prima destinazione al Montirozzo nel 1726 (realizzata poi a fine secolo, con il “Concordia”): per la quale, oltre che un ben differente fabbricato, si sarebbe potuta ottenere l’importanza urbanistica della centralità, nonché la cornice offerta da un’ampia piazza antistante con spazi e prospettive che su di esso vanno a convergere.

Il Teatro del Leone

Il “Leone” misura esternamente circa metri 24x13 (grosso modo la superficie dell’odierna omonima piazzetta); la sala sviluppa circa metri 14x8, con pianta ad U scampanata tipica dei teatri tardo barocchi, mentre il palcoscenico, per una larghezza massima di 12 metri e una profondità di 7 metri circa, ha un’agibilità di altezza fino alla graticcia probabilmente non superiore agli 8. I palchetti sono disposti su tre ordini, per un totale di 62, “per sei persone per cischedun casino”. Da notare che l’ingresso alla platea non è in asse con i pal-chetti centrali, com’è consuetudine in tutti i teatri, ma decentrato di due spazi sul lato del Corso, rivolto pertanto verso quella che già in fase di progettazione –quando il vicolo di comunicazione ancora neanche esisteva- certamente si riteneva dover essere la via d’accesso alla struttura: l’allora “dirittura S. Fran-cesco di Paola”. Alla via principale, prima ancora dell’apertura dell’accesso, era d’altronde già preventivamente rivolta la facciata stessa del Teatro, con un

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minimo di rotazione rispetto all’asse del vicolo che ne conferisse una qualche rilevanza prospettica al suo pubblico, nonostante la compressione urbanistica.

In alto, particolare da un modellino in cartone del primo Settecento, si vede Porta Romana che chiudeva il Corso all’altezza dell’odierno complesso San Martino; sotto, da un disegno tecnico di rilievo che risale alla fine del XIX secolo, il rettangolo contrassegnato con “A”

corrisponde al perimetro del Teatro: si noti la facciata leggermente obliqua rispetto al vicolo, per conferire un minimo di frontalità visiva arrivando dalla strada principale del Corso

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Il soffitto della sala è decorato e dipinto da Valeri stesso, realizzato in legno come il pavimento, i palchi e tutto il resto tranne i muri esterni. Considerata la ristrettezza delle superfici, probabilmente non ci sono spazi di rappresentanza, mentre i necessari locali di servizio devono essere dislocati nel sottopalco e sotto il primo ordine dei palchetti. Il palcoscenico è addossato al lato corto del-la struttura verso Porta Romana, mentre l’ingresso è sul del-lato opposto (verso l’Arco Clementino, che non c’è ancora e sarà eretto nel 1734 in onore di papa Clemente XII, sempre su disegno di Domenico Valeri), proteso verso l’odierno vicolo del Leone, appositamente creato. La gestione è condotta da due deputa-ti, che ogni anno vengono estratti a sorte tra i condòmini; sono loro i referenti degli impresari e i supervisori di tutta l’attività: di cui rispondono comunque all’assemblea dei condòmini, che resta un’associazione aristocratica e chiusa.

Ogni palchettista versa una quota annua che è conservata da un deputato cas-siere: a tale fondo cassa, che serve per le spese di mantenimento, si aggiunge in occasione di spettacolo un ulteriore apposito contributo dei condòmini, come quota abbonamento ed eventualmente come regalo straordinario per l’impresa.

L’assegnazione dei posti ai condòmini all’interno del Teatro, avendo tutti pari diritti di comproprietà, è stabilita per il tramite della casualità, attraverso il si-stema dell’estrazione. “Fu fatta l’estrazione dei casini” (palchetti), ricorda il conte Gaetano Guglielmi circa l’assetto della stagione inaugurale, “e mi toccò nel terz’ordine il n° 59, il quarto dal palco, lato dirittura S. Francesco di Paola (Corso Matteotti, n.d.r.); al conte Simonetti toccò nel medesimo ordine quello n° 53, dalla stessa parte, il casino annesso a quello di mezzo di faccia”.

- 70 - Un nuovo assetto istituzionale

Con l’apertura del Teatro del Leone si avvia una vita istituzionale nuova; breve -appena 66 anni, fino al 1797, ultima stagione prima del passaggio del testimo-ne al “Concordia” testimo-nel ’98- ma intensa e costante, tanto da segnare gli equilibri della programmazione di spettacoli in città, in modo profondo e definitivo: la nuova struttura è pur sempre proprietà privata, privatamente gestita con risorse private, ma la presa d’atto della sua esistenza viene da lì in avanti a costituire un punto di riferimento di pubblico interesse, una presenza che accentra a sé precisi significati sociali per l’intera comunità. Anche la produzione di ambito religioso non può non tenerne conto: dopo alcuni anni gli appuntamenti con l’oratorio vengono diradandosi e a volte si tengono, anziché nelle chiese, nel teatro stesso, come nel 1734 e nel ’44. Al cambiamento probabilmente concor-re l’evolversi del gusto musicale e teatrale, per il quale l’oratorio nella sua ac-cezione originaria perde di senso, acquistando connotazioni sempre più spetta-colari tanto da trovarsi per esso riportate d’ora in avanti le diciture di “compo-nimento sacro”, “rappresentazione sacra”, “cantata sacra”, “dramma sacro”.

Il “sacro” si suona in settembre

Inoltre, che si tenga in chiesa o in teatro, tranne rare eccezioni ormai l’appuntamento con il sacro è destinato a settembre: come prosecuzione della lunga tradizione oratoriale settembrina di inizio secolo alla Chiesa della Morte -in onore del SS. nome di Maria- poi passata alla Chiesa di S. Pietro, che ne custodisce l’immagine coronata; ma anche, per vari anni a metà del secolo, con rappresentazioni in teatro nel nome di S. Settimio. A sé vanno invece per qual-che anno le grandi celebrazioni, sfarzose e opulente, presso S. Floriano: “Dagli archi dei cappelloni, siccome da quelli delle cantorie, pendevano bellissimi lampadari di cristallo e di legno dorati. Sopra la porta maggiore del tempio si costruì artefatta un’orchestra a due cori di vaga prospettiva e nobile comparsa.

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(...) La sontuosa musica, che dilettò al sommo tutti gli aspettatori, sì per la mo-derna composizione, che per la sceltezza è moltiplicità de’ soggetti, ascenden-do i musici (i cantanti, n.d.r.) al numero di undici e li suonatori al numero di venticinque”, come leggiamo in un documento di Casa Pianetti del luglio 1759, relativo alla Festa di S. Antonio da Padova e S. Eligio di Nojon. Ormai tali ce-lebrazioni sono grandi eventi di massa, in cui lo spettacolo musicale -divenuto un’accademia concertistica- costituisce sfoggio prezioso all’interno di una macchina più ampia e complessa qual’è la festa stessa. Un momento partico-larmente felice dell’antica tradizione del repertorio sacro a Jesi -e del Teatro stesso- è il 1785, quando si danno, in prima esecuzione, lavori appositamente commissionati: La morte di Abelle di Giuseppe Giordani, detto Giordaniello, e Isacco figura del Redentore di Gaetano Andreozzi. La compagnia di canto è adeguata all’evento eccezionale della “prima”, con autentici “divi” come sono il tenore Giacomo David e il castrato Gaspare Pacchierotti; occasione rara di tanta opulenza è la “Solenne coronazione della miracolosa immagine di Maria SS. della Misericordia, che si venera nella chiesa parrocchiale di S. Pietro”.

Entrambi i titoli sono definiti, come in antico, “oratorio sacro”, offerti “dal go-vernatore e priori della Pia Unione”, come nell’uso consueto per ogni sede ora-toriale; ma l’evento, benché riferito a una chiesa, si tiene in teatro: e a settem-bre, come già ad inizio secolo alla Chiesa della Morte. Oltre ad una generale vivacizzazione ambientale, merito precipuo della lunga tradizione musicale dell’oratorio è che ha fatto conoscere a Jesi l’aria culturale dei tempi, presen-tando -accanto a lavori di compositori locali come Gamberini e Santi, maestri di cappella del Duomo, e di colleghi delle cappelle di città vicine- anche l’arte di molti musicisti “forestieri” di fama: da Domenico Sarro a Giovanni Costan-zi, a Baldassarre Galuppi, Antonio Caldara, Francesco Gasparini, Giuseppe Giordani, solo per citare i più noti. Oramai il solco è tracciato: e il carnevale resta la stagione dello spettacolo profano -riservato o quasi al pubblico dei no-bili e dei notano-bili- com’è nella derivazione storica sei-settecentesca e come sa-rà, fino a molto avanti nell’Ottocento, anche nel nuovo Teatro della Concordia.

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