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LA PARABOLA ARTISTICA DEL TEATRO “DEL LEONE”

“Le scene sono d’invenzione e direzione dell’Illustre Virtuoso Cavaliere Acca-demico Domenico Valeri, Architetto Matematico e Pittore”: così indica il pro-spetto delle “mutazioni di scena” relative all’opera Ginevra, in programma al

“Leone” nel 1733. Sono sei, nel corso dei tre atti: “Giardino, Boschetto remoto con veduta in fondo alla porta secreta del giardino, Sala règia con sedie, Bosco, Gabinetto, Luogo magnifico con trono”. La descrizione apparentemente detta-gliata delle situazioni sceniche, in realtà piuttosto generica e topica del reperto-rio, indica un carattere di fondo dei teatri d’epoca, almeno di quelli più piccoli;

per i quali è assai lontano il concetto stesso di allestimento scenico come oggi si intende, e come pure lo intende l’idea di “maraviglia” barocca ove ad opera-re siano i grandi scenografi e architetti delle corti principesche: vale a diopera-re nuovo, differente cioè non solo da titolo a titolo, ma anche da un allestitore all’altro alle prese con la medesima opera. La realtà dei piccoli teatri, invece, era che ognuno avesse la sua dotazione di fondali di tela dipinta -ciascuno con le sue “prospettive” (le quinte)- riferiti alle diverse situazioni topiche, conven-zionali: bosco, reggia, giardino, prigione, ecc.; cornici e sfondi più o meno ben dipinti, ma buoni per tutti i titoli che prevedessero tali contesti, caratterizzabili semmai di volta in volta da piccole integrazioni originali. Pertanto, per la Gi-nevra come per altri spettacoli, non è affatto detto che le “mutazioni d’invenzione” di Valeri fossero scenografie originali per quell’opera, quanto piuttosto parti del corredo di velame dipinto coordinato di cui egli stesso aveva dotato il teatro sin dalla sua apertura. Parte integrante, cioè, della struttura se-condo precisi accordi da contratto con il costruttore, “obbligandosi il sig. cav.

Valeri di fare in esso teatro cinque mutationi di scene con sue prospettive, se-condo che richiederà l’ordine di detto teatro, et ad uso d’arte”, come recita il documento di polizza tra Valeri e il Condominio, in data 24 febbraio 1728.

- 79 - Niente prosa al “Leone”

La parabola artistica del “Leone” -e quindi il gusto teatrale del pubblico di Je-si- segue i modi della maggior produzione del secolo: pochi gli appuntamenti conosciuti con la prosa, sparsi qua e là nell’elenco dei titoli rappresentati, di cui non si ha peraltro conoscenza completa. Gli spettacoli in prosa possono ri-sultare attestati accanto a quelli in musica, ma è raro invece che ne siano sosti-tutivi, almeno nella stagione principale che è il carnevale. La dislocazione nel periodo di carnevale –inteso da Natale a Quaresima- è comune ai teatri dell’epoca e lascia bene intendere il carattere e la funzione sociale di quegli appuntamenti di spettacolo, di contro al valore ed al significato di altre aperture del teatro in altri momenti dell’anno: come a settembre, in occasione del santo patrono della Città, San Settimio. Il carnevale, dunque, è generalmente sinoni-mo di teatro d’opera; la commedia -e in seguito la tragedia- si trova invece al di fuori della stagione istituzionale: verosimilmente trattandosi di “fuori pro-gramma”, in coincidenza con il passaggio in zona di qualche compagnia. Ma la preferenza, ove possibile, resta per l’opera: “Non verrà la seccagginosa com-media di carattere a provocare lo sbaviglio negl’infastiditi palchetti e a conci-liare la sonnolenza della platea”, dichiarano senza mezzi termini gli impresari del carnevale 1773, sicuri evidentemente di interpretare il pensiero di chi legge il libretto di sala; “ci siamo dunque risoluti di scegliere due farse –concludono- in cui la poesia accoppiata colla musica avrà forza d’impedire la nausea”.

- 80 - La “farsetta in musica”

Il secolo è prettamente musicale e così certamente vogliono anche a Jesi. In teatro l’epopea dell’opera seria con intermezzi tiene la scena del carnevale an-cora per diversi anni; in seguito cominciano a trovarsi tracce di spettacoli più leggeri: solo nel 1744 Jesi sembra conoscere sul palcoscenico il suo miglior figlio, Pergolesi, con l’allestimento degli intermezzi Livietta e Tracollo.

Dopo la metà del secolo si intensifica la presenza degli intermezzi, dei primi esempi di opera buffa e di “farsette in musica”, fino al dramma giocoso: se-condo l’evoluzione artistica dell’epoca barocca attraverso lo stile galante, of-frendo all’orecchio jesino note di compositori del luogo come Galeazzi, ma anche di autori di fama e di moda, da Scarlatti a Orlandini, Schiassi, fino a Iommelli, Piccinni, Anfossi, Guglielmi, Fabrizi, Paisiello, Cimarosa.

Resta una felice eccezione -anche di gusto musicale, oltre che di esempio pro-duttivo- la proposta del Tobia nell’ambito della stagione di carnevale 1773:

dramma sacro di Pietro Morandi, che si dà in prima assoluta al Teatro di Jesi, nell’intento di “non più esprimere le basse e folli passioni del volgo, ma i sen-timenti più venerabili del vero eroismo”; ugualmente a La morte di Abelle di Giuseppe Giordani e Isacco figura del redentore di Gaetano Andreozzi, prime assolute date in teatro nel settembre 1785 ma promosse da un comitato di de-voti (“Pia Unione”) per l’evento speciale celebrativo della SS. Vergine Maria:

spettacoli sottolineati in rilievo e importanza dalla presenza di interpreti di

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ticolare qualità come Gaspare Pacchierotti, Giacomo David, Carlo Moschietti.

Tranne questo e pochi altri esempi, la programmazione locale dei titoli segue sempre di alcuni anni la loro prima rappresentazione nei maggiori teatri: risul-tando in tal modo non all’avanguardia, ma comunque abbastanza attenta alle novità ed al variare del gusto dominante. Intanto, contemporaneamente alla programmazione del “Leone”, che nelle sue stagioni ospita ormai sia il sacro che il profano, è ancora in uso come sede di spettacoli la vecchia Sala del Ma-gistrato, anche se non per drammi e opere, ma per esibizioni di “istrioni, salta-tori, giocolieri” che tanto piacciono alla gente, ancora come nei tempi andati.

Probabilmente tale uso è ancora accordato dalla Municipalità a compagnie di giro di cui non è stata accolta la richiesta di concessione del teatro che, non dimentichiamo, è una struttura di proprietà privata: forse perché non gradito dal Condominio il genere di spettacolo offerto, o magari perché non se ne sono

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giudicate favorevoli le condizioni economiche. Solo nel 1763 la concessione della sala è revocata per sempre, da una delibera del Consiglio che la motiva con i gravi danni arrecati alla sala stessa da questi spettacoli, evidentemente più vivaci ed euforici dei pure non solo contemplativi e galanti appuntamenti con l’opera. Né, con l’apertura del Teatro, termina la pratica dei grandi spettacoli di piazza, particolarmente in occasione di alcune importanti feste di popolo.

Come “La Regia della Sapienza”, per la celebrazione del SS. Nome di Maria di inizio settembre 1741, quando l’occhio e l’immaginazione sono catturati da un

“edifizio veramente Regio, adornatissimo di statue, di colonne” e quant’altro scenografico di “somma vaghezza e decoro”, che si trasforma in una meravi-gliosa “machina di fuochi artificiali”: apparato che è “disegno ed invenzione dell’illustre e celebre virtuoso Cavalier Valeri, architetto e pittore”. Sempre lui.

Riaffiora l’antico sogno: il teatro al Montirozzo

Con l’incalzare delle stagioni e l’avvicendarsi delle mode teatrali e musicali, i condòmini cominciano a mostrare una certa insofferenza per quella struttura, che pure dagli anni ’30 li ha affrancati dalla precarietà della Sala del Magistra-to. Infatti, pur con tutti i suoi pregi, il Teatro non è abbastanza soddisfacente,

“riuscito poco elegante ed anche ristretto, specialmente ne’ palchi, e come co-struito tutto di legnami in oggi corrosi in gran parte da tarli, e per avere un solo ingresso, riconosciuto da tutti molto incomodo e pericoloso”: così descrivono il

“Leone” nel 1790 i condòmini medesimi. Ed evidentemente l’insofferenza ar-riva da lontano: già negli anni ’60 (appena trent’anni dopo la sua apertura!) si tornò a parlare insistentemente di rimettere all’attenzione l’idea di un teatro più grande e comodo, secondo quanto già sognato sin dal 1726.

Sotto l’allora Governatore, monsignor Camillo Di Costanzo, cominciano a muoversi i primi passi concreti, ma ancora incerti, volti al desiderio “tenuto sempre vivo presso li nobili cittadini amanti del pubblico decoro, di vedere riedificato un nuovo teatro che adornasse la Piazza della Morte” (oggi Piazza

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Repubblica). Se ne parlò di nuovo nel 1783, sotto mons. Campanari, quando non solo si tennero diversi congressi in proposito, ma addirittura si intese fare degli scavi esplorativi nella rupe del Montirozzo, in accordo con la Magistratu-ra: ma i tempi, ancora una volta, non erano maturi. Finché, mentre sulla scena del “Leone” impazza la leggiadria -con la leggerezza buffa degli spettacoli che sembra quasi un antidoto per i nobili condòmini contro i tempi grevi che si stanno addensando oltr’alpe e di lì a poco travolgeranno tutta un’epoca- arriva a Jesi un nuovo Governatore, mons. Pietro Gravina de’ Grandi di Spagna, “ec-cellenza reverendissima” e abilissimo nell’arte diplomatica: sarà infatti anche merito suo, se gli annosi tentativi degli irrequieti condòmini riusciranno final-mente a trovare la via per realizzare l’antico “sogno del Montirozzo”. Ben altra sede teatrale, in quell’area centrale, rispetto all’attuale sita fuori porta: benché onorata da tanta attività, che pure nei suoi angusti spazi aveva fatto crescere e consolidare una profonda tradizione.

Declino e scomparsa di “un nobile decaduto”

Con l’apertura del teatro maggiore è facile capire che per il “Leone” fu l’inizio della fine: tanto più perché, certo per motivi di comprensibile premura prote-zionistica, il condominio non accettò mai che diventasse un secondo teatro stabilmente agibile, anche se con tipologia di spettacolo di secondo piano o di dilettanti. Eppure, almeno due volte fu richiesto a tale scopo: nel 1836 da

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te Latini e nel ’53 da Pietro Flori, sempre per conto di società filodrammatiche locali. Invero, da subito il condominio si era dichiarato favorevole all’ipotesi di vendere il vecchio teatro, sempre alla condizione che l’eventuale comprato-re ne mutasse destinazione e non dovesse più farlo agicomprato-re ad uso teatrale. A tal proposito, una perizia del 1806 firmata da Pietro Belli, già capomastro al can-tiere del Teatro “Concordia”, valutava lo stabile del “Leone” indicando “se-condo la nostra perizia, arte e conoscenza” la somma di scudi 1574 “in tutto il suddetto edificio”, comprendendovi “muri, muri nelli fondamenta, tetto, locali-tà” nonché “n. 6 cavalli del tetto bene armati”: dunque senza alcuna menzione agli arredi interni, probabilmente già venduti da tempo. E una somma presso-ché identica, oltre tutto in contanti e pronta cassa, non bastò alla sua cessione nel 1811, quando, “in vista di pubblico invito del dì 8 giugno corrente fatto dai Signori Condomini del vecchio teatro a chi volesse attendere alla compra del fabbricato”, tale Domenico Santini si fa avanti con le migliori intenzioni, in data 21 giugno: “afferisco la somma di lire italiane 1572, comprensivo detto fabricato, il suolo libero, e tale somma sborsata nell’atto della stipolazione dell’opportuno istrumento, obbligandomi per l’adempimento nelle più valide forme delle veglianti leggi”. D’altro canto, già dai primi anni del nuovo secolo i condòmini Antonio Ghislieri e Giorgio Greppi operavano in qualità di “depu-tati alla demolizione e vendita dell’interno” della vecchia struttura teatrale:

vendita -dell’interno- senz’altro realizzata presto, demolizione invece non av-venuta ma seriamente considerata, se una stima ancora degli anni 1830 valuta in scudi 344 il ricavo dei materiali edilizi di recupero, al netto degli scudi 62 necessari per l’opera di demolizione e sgombero delle macerie. Poco, per un passo così estremo e tutto sommato nemmeno poi tanto motivato. Restando dunque della stessa proprietà condominiale, negli anni a seguire il “Leone” fu adibito ad attività diverse: addirittura a caserma, negli anni 1833-35, ma anche ad “uso di cavallerizza” e come sede di eventi sociali, feste, banchetti, raduni, oltre che di sporadiche serate di spettacolo con compagnie dilettantesche o di genere minore (burattini, acrobati, intrattenimenti vari) che pure sono attestate in maniera estemporanea ma ricorrente ancora fino al 1891. Tutta la storia ot-tocentesca del “Leone” oscilla tra la potenzialità di una struttura stanca ma an-cora funzionante e la reticenza dei proprietari a concederla; tra la volontà con-dominiale di venderla o affittarla e la fissazione a non permetterle mai un’attività teatrale continuativa, seppure minore. La situazione non cambiò ne-anche negli anni 1880 quando fu rilevato dal Comune, che pure lo gestiva taci-tamente dal 1833 per conto dei condòmini: anche perché, come ricordato, condominio teatrale e Consiglio della città avevano molti nomi in comune…

Nel frattempo, tra una destinazione d’uso e l’altra che certo non le accordano manutenzioni, la già corrosa costruzione –tutta in legno- deperisce sempre più.

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Ci penserà il fuoco, come per catarsi, a liquidare per sempre quello scomodo fantasma del passato, la notte del 17 febbraio 1892, lasciando così spazio a quella che oggi si chiama Piazza del Leone.

Nelle immagini qui sopra, la pianta del “Leone” in un disegno a penna di fine ‘800 e una stampa settecentesca di interno teatrale compatibile con quello del “Leone”.

Nelle pagine precedenti: dipinti del ‘700 di scuola veneziana raffiguranti “l’opera seria” e

“l’intermezzo buffo”; ritratti dell’epoca di artisti di grido presenti al “Leone”: da sinistra, Giacomo David -tenore prestigioso, come sarà anche il figlio Giovanni- e Gaspare Pacchierotti,

Carlo Moschietti e Giuseppe Giordani detto “il Giordaniello”. A seguire: stampa inglese del 1749 raffigurante una macchina scenografica per fuochi d’artificio; la facciata del “Concordia”

nella sua forma originaria pre-orologio, particolare di un dipinto di Adriano Colocci del 1825

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