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NASCE E CRESCE IL “SOGNO DEL MONTIROZZO”

È a settembre -lontano dal carnevale, periodo riservato allo spettacolo diverten-te profano- che si tiene l’oratorio presso la Chiesa della Mordiverten-te, in onore “del nome santissimo di Maria”; siamo nel Settecento e il festeggiamento è ricco e pomposo, con grande dispendio di energia e di fondi: anche lo spettacolo ora-toriale è organizzato senza badare a spese, con l’intervento di artisti forestieri ed imponenti addobbi. È evidente che la festa assomma ormai al significato re-ligioso un valore sociale e di rappresentanza per gli organizzatori, che sconfina nell’esteriorità mondana dell’evento teatrale profano: al quale, per i contenuti artistici, esso non ha niente da invidiare. Hanno luogo invece in giugno e in lu-glio, presso la Chiesa di S. Floriano, i festeggiamenti per S. Antonio da Padova e S. Eligio di Nojon, molto costosi e molto d’effetto, di cui si ha notizia dalla metà del secolo XVIII; alla tarda primavera pertiene la festa di S. Vincenzo Ferrari, presso S. Domenico, anch’essa con ampia profusione di mezzi. Quanto all’appuntamento “carnevalesco” con l’opera, non abbiamo riscontro documen-tale di titoli rappresentati fino al 1715, quando il “Palazzo priorale” ospita L’amore non viene dal caso di Alessandro Scarlatti e Flavio Anicio Olibrio di Francesco Gasparini: ma appare chiaro che ormai si è ben abituati a quel rito sociale e artistico, pratica certo non nuova e con ogni probabilità già sedimen-tata da tempo nel contesto locale.

I tempi sono maturi

Infatti -come desumiamo dai relativi libretti- esistono degli specifici “Signori Deputati dell’opera” e troviamo stampato un sonetto firmato da “Gli uniti per l’opera”, segno di buona consuetudine e di appassionata partecipazione; ma anche l’intenzione dichiarata dagli organizzatori lascia intendere una ripetuta frequentazione con la forma d’arte: “Quando quest’opera sia udita con diletto, ha ottenuto il suo intento (...) Essa è un divertimento per musica adattato al gu-

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sto presente, ed al genio della maggior parte (...) L’impegno di servire alla mu-sica ha dovuto prevalere ad ogni riguardo”. Oltre che un’introduzione al pub-blico e al dedicatario Mons. Barni, Governatore della città -al cui riguardo non si manca di perorare la licenza poetica per parole come Fortuna, Fato, Ardore

“ed altre tali, tu sai bene qual legittimo senso esse habbino, adoprate da un poe-ta cattolico”- l’enunciazione è un vero e proprio manifesto artistico di genere.

Di “sceniche armonie” parlano gli impresari nella dedica “Alla dama” relativa all’opera Tolomeo e Alessandro di Domenico Scarlatti, che si dà sempre nella stessa sala nel carnevale del 1727: “Habbiamo havuto per principale oggetto di sollevare il vostro spirito stesso con una onesta e virtuosa giocondità di azzioni e concenti teatrali”, si dice. È l’epoca dell’opera seria, con i suoi intrecci com-plicati e tormentati ma classicamente edificanti, in quanto espressione di con-trasti e lotte tra personaggi esemplari, che comunicano al pubblico i loro pieto-si capieto-si con il raffinato codice linguistico degli affetti mupieto-sicali: questa è la ten-denza artistica dell’epoca e Jesi vi si adegua; come anche all’uso di intercalare intermezzi buffi (un breve spettacolo autonomo in due parti) tra gli atti dell’opera (tre), così impegnativi da seguire per il pubblico. In quell’anno è Li-setta e Delfo di Orlandini che “alleggerisce” il dramma per musica Nino, del medesimo autore: dirige la compagnia di virtuosi forestieri –come sopra ricor-dato- Francesco Santi, maestro di cappella della Cattedrale.

- 63 - Per pubblico decoro e onesto divertimento

Ma se la tradizione operistica è consolidata e di buon rilievo, resta il problema del luogo deputato, quel teatro alle cui veci è allestita la Sala del Magistrato, ma che effettivamente essa non è. Se ne sente la mancanza: perché “non si bramava tanto che il teatro fosse una scuola di morale, quanto un sollievo all’ozio, un eccitamento alla noia, un ritrovo di galanti e di galanterie”, come dice Annibaldi, non senza qualche pregiudizio, forse dovuto al suo abito talare.

Più semplicemente, diremmo piuttosto, perché la consuetudine consolidata del rito sociale e culturale del teatro d’opera -non più precaria- impone la necessità di uscire dalla precaria condizione di un teatro arrangiato e temporaneo.

Senza contare lo spirito emulativo, visto che ormai già molte delle principali città del territorio si erano dotate di un teatro, un edificio cioè appositamente pensato e destinato esclusivamente a rappresentazione di spettacolo. Con que-sta intenzione, rendendo concreta azione ciò che da tempo era ormai esigenza e desiderio comune, si presentò al Generale Consiglio della città, il 13 aprile 1726, una richiesta per poter costruire un teatro “a pubblico decoro e per one-sto divertimento” nel “sito verso il Montirozzo detto della Morte” (l’odierna piazza della Repubblica), che era area pubblica e nello sviluppo urbanistico di quegli anni era già prevedibile come cardine e fulcro. La richiesta fu accolta di buon grado: e non poteva essere altrimenti, se si pensa che i richiedenti -i futuri condòmini- appartenevano pressoché alle medesime famiglie i cui rappresen-tanti sedevano in Consiglio, in certi casi coincidendone addirittura la persona.

A fianco: al Teatro del Leone di Jesi

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Delle dette famiglie sono davvero poche quelle che non troveremo, fino poi a tutto l’Ottocento, nell’elenco dei condòmini anche del Teatro “Concordia”, che dal 1798 succede senza soluzione di continuità al “Leone”: come pure, non po-che di quelle famiglie sono le stesse po-che avevamo trovato all’interno dell’Accademia. Nel dettaglio, sono ben 25 le casate nobili il cui nome risulta sia tra i fondatori del Teatro del Leone (che ne contava una quarantina) sia tra quelli che diedero vita al “Concordia”; di queste 25, almeno 9 sono già presenti nel novero dell’Accademia, a metà Seicento: Guglielmi, Colocci, Rocchi, Ho-norati, Pianetti, Baldassini, Grizi, Benigni, Salvoni.

Il sogno si infrange

Ma, nonostante la disponibilità della Magistratura a cedere l’ambita area, la costruzione del teatro non ebbe luogo, per la “enormissima spesa” che si pro-spettò alla società dei nobili, dovuta anche all’obbligo di ricostruire altrove i locali del pubblico macello sito in Montirozzo ed altri edifici attigui da abbat-tere per creare lo spazio necessario al nuovo teatro. Sfumata la possibilità,

“frastornata dalla inesperienza degli artefici del tempo” –si sottolinea nelle

“Tavole di fondazione del Teatro Concordia”, documento del 1790- toccò ad un’iniziativa individuale, sebbene con prospettive molto ridimensionate, esau-dire il desiderio di una struttura teatrale autonoma. Fu il pittore e architetto je-sino Domenico Valeri che assunse a sue spese l’impresa, individuando per essa un’area più ristretta e decentrata del Montirozzo, limitando pertanto il progetto ai mezzi e alle modalità che potessero essere alla sua portata di imprenditore.

Siamo sul finire del 1727: l’accordo con i nobili è che essi, ad opera compiuta, acquistino i palchetti –a 43 scudi l’uno- e con essi i diritti sul teatro stesso, con il cui ricavato Valeri soddisferà il suo meritato compenso dopo aver coperto tutte le spese. Mentre la programmazione dell’opera continua presso la Sala del Magistrato, con la certezza che la precarietà sta per finire, Valeri lavora, edifi-ca, dipinge: nella primavera del 1731 tutto è pronto e alle ore 21 del 25 giugno, presso il Teatro stesso, si procede all’estrazione dei palchetti, secondo il meto-do della casualità. L’estrazione era il metometo-do di assegnazione dei palchetti ai vari condòmini, il cui stato di pari contribuenti all’impresa dava loro identici diritti di posizionamento in teatro, pertanto definibile solo tramite l’estrazione a sorte dei numeri di palchetto. Al metodo distributivo della casualità fanno eccezione solo due posizioni, fisse e prestabilite: un palchetto, il n° 1 -il primo laterale a destra- è riservato a Valeri, che dovrà ospitarvi al bisogno anche gli artisti; un altro -il n° 31, quello centrale del secondo ordine, il migliore- è per il Governatore. La Magistratura (il Comune) non è presente, né partecipa econo-micamente in alcun modo alla gestione, che è un affare totalmente privato. Ad assegnare tutti gli altri palchetti provvede il caso, con il “tiro a sorte”.

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