Siamo ormai al consolidamento definitivo e “stabile” del nodo di rapporti che generano, anche a Jesi, ogni tipo di pubblica rappresentazione, così com’è inte-sa nell’era moderna: committenza e destinazione, da un lato; offerta e realizza-zione dall’altro. Se la committenza, come abbiamo visto, è sempre in un modo o nell’altro riferibile all’oligarchia delle grandi famiglie cittadine -attraverso i suoi esponenti attivi nel governo, nella religione e nel mondo intellettuale- la destinazione è varia, riguardando il pubblico aristocratico ma anche quello po-polare, per occasioni di svago e cultura così come spirituali e di edificazione.
Sempre più caratterizzata l’offerta, con la musica -è proprio il caso di dire- in crescendo, sia nella forma del dramma in musica che in quella della sua varian-te spirituale, l’oratorio; non senza invarian-terscambi all’invarian-terno dei due filoni, per-ché, soprattutto con il nuovo secolo, molta parte dei “cantori” dell’opera pro-vengono dalle cappelle musicali, come a volte il maestro di cappella stesso è il compositore o il direttore della rappresentazione: è il caso, ad esempio, di Francesco Santi, successore di Gamberini come maestro di cappella della Cat-tedrale di Jesi, che nel carnevale 1727 dirige l’opera Nino di Orlandini, data nella Sala del Magistrato della città.
La diffusione della musica
All’inizio del XVIII secolo sono almeno sei le chiese dove a scadenze fisse si rappresentano melodrammi sacri, rivolti ad ogni classe sociale senza costo al-cuno di partecipazione, attraverso tutto l’inverno e poi ad aprile, luglio, set-tembre, spesso con repliche; a carnevale l’appuntamento è con il teatro profa-no, l’opera, in programma presso la sala comunale (per l’occasione allestita a teatro), mentre non manca un’ampia attività “privata”, prettamente musicale, all’interno dei palazzi aristocratici. È in questo spirito ambientale -ristretto e compresso socialmente, ma in fondo non avaro di stimoli d’arte- che nel 1710
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vede la luce Giambattista Pergolesi; è vero, egli non ebbe rapporti produttivi con la sua terra, essendo partito per Napoli tredicenne, né in seguito vi tornò e neanche vi mantenne particolari contatti personali: ma se ha un qualche senso il cosiddetto “imprinting” e l’ambiente sociale nella formazione d’ogni individuo, certo non può essergli scivolata sulla pelle tutta questa messe di stimoli spiri-tuali ed artistici, anche in considerazione del fatto che il suo primo maestro di musica in loco fu proprio quel Francesco Santi che dirigeva la Cappella del Duomo ed era tutt’altro che estraneo al fervore esecutivo cittadino.
Fervore che nel corso dei decenni non può non aver a sua volta innescato -per poi giovarsene di ritorno in una sorta di feed-back culturale- uno stimolo, un desiderio indotto, forse una vera e propria moda: quella appunto della pratica musicale, intesa non come pura fruizione, ma come diretta confidenza con lo strumento, da studiare ed eventualmente anche suonare privatamente, per pro-prio diletto o per quello degli amici. E questo è un ulteriore importante filone che ci sembra di dover indicare come formante di base della tradizione musica-le e teatramusica-le della città. Una radice che arriva a ritroso almeno fin dove è atte-stata l’attività della Cappella del Duomo, nonché di altre istituzioni affini (co-me la Cappella musicale della Chiesa della Morte, attestata fin dal 1648), a margine delle quali non si può non pensare una qualche didattica e pratica ese-cutiva privata da parte del maestro di cappella: uso che è di fatto attestato nella realtà stessa dell’Accademia dei Riverenti e dell’oratorio filippino, i cui
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tori, non essendo professionisti, dovevano pur aver imparato a suonare e fare almeno dell’esercizio specifico in privato. Per non dire, infine, dello studio già segnalato all’interno dei monasteri femminili: tutti indizi precisi dell’esistenza di una pratica musicale “sullo strumento” ben diffusa.
Concerti ad uso domestico
La presenza di questa attività musicale “riflessa” deve aver presto creato, tanto più con l’avvento dello stile galante, il gusto della concertistica privata, della musica in casa; ove inoltre si consideri la particolare congiuntura per cui nel primo Settecento la città è investita da un’ondata di rinnovamento urbanistico, che ha i suoi punti di forza nei nuovi Palazzi Pianetti, Honorati, Guglielmi, Balleani, Ripanti, Colocci, Marcelli: all’interno dei quali non manca l’ampio salone di rappresentanza in cui potersi intrattenere con gli ospiti, magari pro-prio per il rito sociale dell’accademia musicale privata. Se i presupposti ricor-dati lo possono far supporre con motivata probabilità, ne è invece prova a metà del ’700 un contratto stipulato dalla famiglia Guglielmi con due “virtuosi” di violino napoletani, giunti a Jesi per l’opera del carnevale 1759: il contratto, che è annuale e rinnovabile senza limitazione, prevede che in cambio del patteggia-to onorario i maestri Domenico Conti e Michele Valecci debbano eseguire
“un’accademia di suono ogni settimana in quella casa che dal predetto cavalier Guglielmi verrà loro prescritta”; dovranno inoltre insegnare l’uso dello stru-mento, oltre che al Cavaliere, “ai nobili signori Marchese Honorato Honorati, Abbate Scipione Baldassini, Conte Teodoro Colocci, Lucio Franciolini e Fran-cesco Bonacci, qualora i medesimi signori se ne vogliano divertire”. Obbligo dei “virtuosi” è anche suonare, se il cavaliere lo desidera, “nei festini o
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ci o privati”, mentre è a loro garantito il diritto di poter dare lezioni liberamen-te anche ad altri eventuali richiedenti a pagamento, nonché di “andare a suona-re in qualunque chiesa o teatro e luogo dove saranno chiamati”, salvo diritto di precedenza assoluta riservata al cavaliere per il periodo di carnevale.
C’è ampia memoria di eventi musicali domestici in varie delle principali dimo-re aristocratiche: non solo d’uso privato, ma anche di fruizione “pubblica” a fini istituzionali e quantomeno aperta al ceto dei notabili. Sono del 1761, per esempio, quale celebrazione in onore del Cardinale Pier Girolamo Guglielmi alla sua prima venuta a Jesi dopo il ricevimento della porpora, una cantata a due voci di Gibelli data “nella sala del conte Ripanti” e una a Palazzo
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lini appositamente composta da Seaglies. Lo stesso nel 1777, per il Cardinale Bernardino Honorati (per la sola notizia della nomina, senza neanche la sua presenza in città), quando si ricordano appuntamenti musicali in suo onore a Palazzo Ghislieri, a Palazzo Honorati, al Teatro del Leone, oltre ad accademie
letterarie, messe cantate con spettacolari “Te Deum” in diverse chiese, feste da ballo in palazzi e perfino nella Sala Comunale. In questa prospettiva di relati-vamente diffusa pratica musicale, può ben inquadrarsi anche l’esistenza in città
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di un laboratorio di liuteria, tenuto da Antonfrancesco Massi. Circa lo studio della musica, se è attestata la didattica privata domestica delle famiglie come quella impartita dai maestri Valecci e Conti, se sono centri d’insegnamento isti-tuzionale la Cappella del Duomo e quelle di altre chiese primarie, particolare valenza assumono piuttosto le lezioni di “canto di musica” tenute da Antonio Galeazzi, che configurano uno studio non soltanto “scolastico” ma già interre-lato alla pratica professionale del cantante. Compositore e impresario teatrale bresciano, Galeazzi è attivo a Jesi dal 1733, dove si trasferisce dopo esservi arrivato per impegni con la stagione d’opera del “Leone”; dallo stesso ‘33 ri-sulta insegnare canto a giovani del territorio: non con lezioni generiche come possono essere quelle impartite a “dilettanti” della musica, ma secondo piani di studio pluriennali intensivi con attività continuativa. Una pratica impegnativa, sulla falsariga dello studio “professionistico” come in uso nei conservatori mu-sicali delle grandi città e come tale evidentemente anche costosa per le famiglie degli allievi: i quali, trattandosi di “professione”, non sono più i rampolli delle casate aristocratiche, ma giovani di famiglie normalmente senza possibilità di pagare il costo didattico dei molti anni di studio necessari, previsti fino a otto.
Forte del suo status di operatore teatrale, per ovviare a tale difficoltà Galeazzi attiva un rapporto economico con gli allievi che segnala un interessante punto di contatto tra insegnamento e produzione di spettacolo, denotando precisa e moderna mentalità imprenditoriale: dietro garantito impegno dell’allievo per tutti gli anni in oggetto ad essere “obligato stare sotto la schola e dottrina”, il maestro insegna gratuitamente, riservandosi però per gli anni medesimi la metà di tutti i guadagni dei giovani virtuosi “per le musiche si nelle chiese, che nei teatri, et in qualunque altra funzione”, divenendone con ciò anche procuratore unico in una sorta di propria agenzia teatrale, con esclusività di gestione degli impegni artistici e di riscossione diretta dei relativi proventi economici…
La necessità del teatro
Pur in presenza di tanto fermento rappresentativo in vari ambiti –chiese, acca-demie, sale pubbliche e private- tuttavia gli storici diffidano dal considerarlo segno di elevato standard culturale: “Jesi, seppure vivacizzata da una forte cre-scita sul piano demografico, resa doviziosa, nella sua classe dominante, da for-tunati eventi economici (...) in realtà non è riuscita a liberarsi del piccolo, tal-volta meschino guscio di provincialità”, ritiene per esempio lo storico jesino Urieli, che annota anche come “leggendo gli interventi dei pochi consiglieri che prendevano la parola in Consiglio, e che rappresentavano il fior fiore del sangue e della cultura locale, non si ha veramente l’impressione di un alto li-vello culturale di quegli uomini. Albagia molta, saggezza un po’ meno, cultura scarsa”. Comunque sia, in questo ampio mosaico di variegata tradizione
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le, il centro d’attenzione che nel corso dei decenni si viene focalizzando è lo spet-tacolo d’opera: appuntamento con l’arte, ma anche e soprattutto con la mondani-tà, che già dalla fine del secolo XVII deve essersi venuto regolarizzando e codifi-cando, coincidendo com’è ovvio con il periodo del carnevale; mentre ad altri in-tenti, e in altri momenti, è destinata la programmazione del sacro.
Nelle pagine, nell’ordine: momenti di studio musicale domestico nel ‘600, in dipinti di Vermeer, Steen, Gabbiani; nelle foto, la Galleria degli stucchi di Palazzo Pianetti di Jesi nel primo ‘900
-ancora visibili gli arredi oggi scomparsi- e la sala maggiore di Palazzo Baldeschi Balleani.
A seguire, scene di festa da ballo e intrattenimenti concertistici privati nel ‘700, in dipinti dell’epoca di scuola veneta e di scuola napoletana.
A pagina 58, in alto, si notino i“putti” decorativi di Palazzo Ripanti Nuovo di Jesi dipinti da Domenico Valeri, a cui si deve anche la ristrutturazione del palazzo proprio negli anni in cui egli stesso stava realizzando il Teatro del Leone; accanto, interno di Palazzo Carotti Honorati.
Qui sopra, biglietto d’invito a un concerto a Jesi di inizio secolo XVIII: l’uso del solo nome di battesimo degli artisti impegnati denota l’atmosfera intima ed esclusiva dell’ambiente
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