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LA STAGIONE TEATRALE: COME FUNZIONA, CHI PAGA

Carnevale è il momento della principale stagione di spettacoli, di cui è il Con-dominio stesso che si fa promotore. Negli altri casi di apertura, invece, più spesso è il passaggio in zona delle compagnie (essenzialmente di prosa) che la motiva, con la loro richiesta del Teatro quasi sempre accordata, spesso senza concessione di scorta (finanziamento), con il solo provento dell’incasso: aper-tura su “passaggio” che può avvenire sia a settembre –stagione di fiera, anch’essa quindi di divertimenti- che in altri periodi dell’anno, senza particola-re particola-regolarità. Nei primi decenni del XIX secolo, la stagione di spettacolo conta un infinito corso di rappresentazioni: se trattasi di prosa, fino a 40-50 titoli di-versi -da parte della stessa compagnia- recitati in successione uno per sera, tut-te le sere; ma anche in caso di programmazione musicale la stagione è lunga e nel suo corso -che può arrivare a 30/35 serate- si organizzano, insieme a diversi titoli d’opera, anche altri trattenimenti.

Per penetrare quel mondo –in particolare quello d’ambito musicale- ci aiuta molto una memoria del 1817 di Luigi Lanari, che ne fu amministratore della stagione: è il fratello di Alessandro Lanari, uno dei più importanti impresari della storia dell’opera -conosciuto al tempo come “il Napoleone degli impresa-ri”- nato a San Marcello e in seguito assurto a guidare in contemporanea teatri del calibro della “Fenice” di Venezia, “S. Carlo” di Napoli, “Pergola” di Firen-ze, “Scala” di Milano e molti altri. Notevole, nel cartellone di quell’anno, la presenza del Barbiere di Siviglia di Rossini: caso raro, per il “Concordia”, di titolo proposto in data così ravvicinata alla sua prima esecuzione assoluta, av-venuta nella fattispecie solo alcuni mesi prima al Teatro “Argentina” di Roma.

Il carnevale 1817, con Lanari e Rossini

Tra il 28 dicembre 1816 e il 17 febbraio seguente si ebbero trenta recite, cin-que veglioni, sei tombole e due steccati; tra gli spettacoli, opere, balli e

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ficiate”, cioè serate con incasso a beneficio specifico di uno degli artisti prima-ri; in cartellone anche un’altra opera, La capricciosa pentita di Fioravanti e due farse, Il sedicente filosofo di Mosca e Che originali di Mayr; tra i balli, Il ratto vendicato di Metilde. Un’appuntamento, quello con il ballo, che sin dalle prime annate del “Concordia” si segnala con ricorrenza, nell’ambito delle sta-gioni d’opera come nei corsi di rappresentazioni delle compagnie comico-drammatiche, che spesso hanno in repertorio, accanto alla prosa, anche spetta-coli in musica, di ballo, operine. Il gusto estetico per il balletto crescerà negli anni secondo la sensibilità e la moda dell’epoca, facendosi abitudine attraverso proposta abbinata a un’opera e ad essa interpolando la danza nella stessa sera:

secondo l’antico schema barocco dell’opera -allora opera seria- “alleggerita”

da intermezzi buffi, con il balletto che viene qui a “diluire” la pur già leggera

“commedia per musica”. In verità, già da metà Settecento “i balli” avevano so-stituito “gli intermezzi buffi” tra gli atti dell’opera, secondo l’uso della nuova moda teatrale e come si riscontra anche nella programmazione jesina del “Leo-ne”: da allora gli intermezzi buffi assumono dignità propria e vengono proposti in scena come titoli autonomi (avviando così il genere dell’opera buffa), al di fuori cioè del dramma per musica, che è cambiato e a cui ora non servono più, perché momenti comici sono adesso previsti e scritti dentro gli atti stessi…

Tornando al 1817, che il Barbiere sia quello di Rossini invero non è dichiarato dai documenti dell’impresa (potrebbe essere, per esempio, quello più vecchio di Paisiello), ma lo si può però dedurre da alcuni dati. Tra le spese dell’impresa c’è la spedizione da Roma “del libretto dell’opera col titolo del Barbiere di Si-viglia”: e noi sappiamo che non solo l’opera aveva debuttato a Roma pochi mesi prima, ma che proprio in quei giorni Rossini era di nuovo nella Città E-terna per debuttarvi la sua nuova opera -Cenerentola- al Teatro “Valle”.

A lato, l’interno di un teatro in un dipinto di inizio ‘800:

un notabile dal palchetto inveisce ad un borghese in platea che non si è tolto la tuba. All’epoca in platea di norma si sta in piedi dietro alcune file di panche.

A seguire, immagini dell’epoca relative ad un “passeggio” in teatro,

alla partenza di una “corsa di berberi”, alla “caccia” di uno “steccato”, a concerti strumentali domestici.

Sotto, acquarello inizio ‘800 del Marchese Adriano Colocci: da sinistra, il Dottor Mainardi e Luigi Lanari

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Tra gli orchestrali in paga da Lanari, inoltre, troviamo “per l’ultimo spartito”

l’esecutore di “chitarra francese”, strumento che il lavoro rossiniano prevede e quello di Paisiello no. Ma l’indizio più forte è quello del costo della partitura:

se per gli altri tre titoli messi insieme l’impresa paga la somma totale di 28 scudi “compresa la spesa postale per la francatura del denaro” al suo fornitore Francesco Zappi, al medesimo occorre dare ben 20 scudi per la sola musica del Barbiere. Cosa che si spiega considerando i diritti particolari di un’opera nuo-vissima -e in gran voga nelle più grandi città- come quella di Rossini, mentre quella di Paisiello all’epoca aveva ormai già 35 anni e pertanto ormai conside-rata vecchia e poco attraente. Con ciò, non solo Jesi ospita l’opera rossiniana quasi a ridosso della sua prima assoluta, ma ne vede anche il primato della proposta tra i teatri della provincia: il Barbiere arriva infatti a Fabriano nel 1821, ad Ancona nel ’23 e a Senigallia “solo” nel ’34, incredibilmente tardi rispetto alla sua consueta sollecitudine di allora. Accanto agli spettacoli sceni-ci, come ricordato, la stagione prevede poi cinque veglioni e sei tombole: il cui introito, come l’incasso al botteghino, è appannaggio delle casse dell’impresa.

Si tratta di un dato importante, perché, oltre a evidenziare la varia tipologia dell’intrattenimento localmente in uso, indica come l’impresario dell’opera tra-esse il suo sostentamento: il finanziamento -la scorta- concesso dal Condomi-nio non era infatti mai esaustivo delle necessità dell’impresa, cosicché essa si assumeva da contratto anche il ricavo del “caffè e trattoria” interni al Teatro, come anche quello dei giochi collaterali -la tombola e altri- e dei diversi possi-bili intrattenimenti a margine, quali i veglioni e i passeggi.

Veglioni e tombola, passeggi e steccato

I passeggi erano delle vere e proprie feste in maschera, con accesso in Teatro a pagamento “a tutte le maschere coperte in viso e decentemente vestite, con che

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abbiano ad osservare esattamente i doveri della coscienza ed educazione”. In settembre, invece, contrariamente al carnevale che era una sorta di salotto al-largato, lo spettacolo teatrale si inserisce nel più ampio -e popolare- meccani-smo della festa cittadina, legata alla ricorrenza del Patrono S. Settimio, il 22 del mese, quando si tiene anche un’importante fiera che attrae locali e “fore-stieri”. “Si avverte il pubblico che per ben divertire i signori forastieri e locali amanti dei spettacoli, in ciascuna sera sarà aperto il Teatro Concordia, duranti le feste, con opere in musica, e balli, non che con numerosa orchestra”, recita un avviso del settembre 1815; nel medesimo leggiamo pure che oltre alle musi-che si avranno “corse di barberi con i più vistosi premi”, nonché “un grandioso steccato straordinario con un numero assicurato di più di 30 buoi tutti da orec-chiarsi”. Quella “giostra sarà eseguita nella più decente maniera e colle più e-satte discipline entro un anfiteatro ottangolare appositamente costruito nella solita Piazza del Teatro”: davvero attrazioni per tutti i gusti….

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Lo steccato era una sorta di corrida nostrana, in cui la lotta del “bove” non era con l’uomo ma con i cani. Tradizione antica, per la sua pratica cruenta ne fu tentata la proibizione all’inizio dell’Ottocento, dai francesi; presto riammessa all’uso, fu in seguito definitivamente abolita nel 1858 con dispaccio del Mini-stero dell’Interno, comunicato al Gonfaloniere di Jesi dalla Delegazione Apo-stolica di Ancona, che stigmatizza come “nonostante il divieto che vi è per l’effettuazione delle così dette giostre, o caccie con animali vaccini, e bufalini, pure in taluni luoghi dello Stato si è arbitrariamente proceduto all’esecuzione di questo inumano spettacolo, che ripugna alla civiltà nei tempi in cui siamo”.

“Vi sarà inoltre duranti le feste –prosegue il detto avviso del 1815- la partita del pallone locale, e forastiera”. Non manca un’accademia letteraria, né fuochi artificiali, e “saranno elevati dei Globi di Monsieur Mongolfier”.

Quanto all’ambiente musicale diffuso, così come nel Settecento si era struttura-to in città tutstruttura-to un fermenstruttura-to di pratica privata degli strumenti sia nella forma di studio personale che di veri e propri intrattenimenti concertistici domestici nel-le più prestigiose dimore aristocratiche, anche il nuovo secolo vede i saloni dei palazzi accogliere platee più o meno intime e selezionate attorno all’esecuzione di musica alla moda. Non solo le passioni dell’opera nell’agognato scrigno del

“Concordia”, dunque, ma anche un ampio panorama di proposta cameristica degli autori più in voga del momento, per appuntamenti mondani-culturali ri-stretti agli ospiti dei padroni di casa, con interpreti che possono essere artisti professionisti o “dilettanti” locali, magari i rampolli stessi della famiglia. Il tea-tro, infatti, con la sua attività ricorrente e continua, crea per sua natura un in-dotto di pratica musicale allargata, sia di fruizione che di diretta esecuzione.

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Una memoria privata degli anni dieci dell’Ottocento ci presenta, con il titolo di

“Nota di varie sonate a Jesi”, un infinito elenco di brani cameristici, certo dati in privato, che vanno dalla “sonata a violino e basso” al “violino solo”, a “va-riazioni per violino e altro violino d’accompagnamento”, fino a concerti “a vio-lino con accompagnamento di più istromenti”. Interessante -assai à la page- l’elenco degli autori di tali brani, che comprende anonimi e locali come “il Sig.

Nappi anconitano”, ma anche i più bei nomi della produzione internazionale del momento: Pietro Nardini, Alessandro Rolla, Viotti e poi Beethoven, Rode, Pichl. Un indotto esecutivo che non si limita al solo evento concertistico, ma si prospetta anche in forme di rappresentazione teatrale, sempre di natura privata, sebbene con modalità d’allestimento che è facile immaginare contenuto, essen-ziale, domestico. Curiosissimo, a tal proposito, un documento privato della fa-miglia Guglielmi Balleani della prima decade del secolo, che parla di un “ballo

serio” dal titolo “Taide abbandonata” ovvero “Persepoli incendiata”, creato per la rappresentazione nella propria residenza di villeggiatura, senza altra mira che “la bona volontà d procurare piacere ai tre nobili giovani, che si dispongo-no egregiamente al ballo, e a divertire la eccelsa comitiva di Fontedamo” (co-me si chiama la località della villa, nella foto). I tre rampolli di famiglia, nei ruoli di primi ballerini, sono i conti Gaetano, Aurelio e Giovanni Gastone, coa-diuvati in scena da amici tra cui “anche ragazzi di campagna”, con l’orchestra formata dai “signori Berarducci”. D’altro canto, in quegli anni era attivo in zo-na un giovane Giuseppe Balducci -compositore jesino (1796-1849), trasferitosi

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nel 1817 a Napoli, ove troverà in seguito successo con varie opere nei teatri- che muoveva i primi passi come tenore e impresario in erba di una compagnia di cantanti e musicisti “dilettanti” impegnata in rappresentazioni locali…

Il Municipio inizia a contribuire

Ma la vera istituzionalizzazione del Teatro come evento sociale che riguarda tutta la città e non solo la sua oligarchia, si ha negli anni 1830, quando il Muni-cipio comincia a contribuire finanziariamente alla sua attività. Già nel 1821 la società dei condòmini aveva cercato –invano- di coinvolgere il Comune, sotto-lineando il rilievo ormai pubblico dell’attività teatrale, benché ancora vissuta come svago in gran parte interno all’aristocrazia. In buona sostanza, di nuovo nel 1830 la proprietà lamenta che “la società dei condomini composta di pochi individui a fronte della numerosa popolazione, debba sola sostenere le spese vistose per continuare a fornire uno spettacolo anche discreto, che, sia permes-so il dirlo, è necessario, utile e di convenienza della Patria”, oltre ad essere “di-retto a sollevare onestamente, come costumano puranche tutte le civilizzate na-zioni, ogni classe di persone, cioè tutto il pubblico”. Pertanto, si chiede “sia estesa anche alla Comune di Jesi, non l’infima tra le altre dello Stato”, la prati-ca di contribuire alle spese teatrali, così come già fanno “diverse città nel di loro Preventivo”: il rischio, altrimenti, anche per il fatto che i condòmini “non tutti sono nella stessa misura di finanze”, è che possa venire ad interrompersi quell’“onesto e conveniente trattenimento nella stagione di carnevale”. Il mo-mento è importante, perché segna la presa d’atto ufficiale e concreta della fun-zione sociale del Teatro da parte del Comune, che inizierà finalmente a contri-buirvi in modo regolare secondo apposita convenzione: avviando però di con-seguenza alcuni cambiamenti nel senso di una più profonda compenetrazione tra il Teatro e la città tutta, non più solo la sua componente aristocratica.

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