Sopra: la piazza del Teatro come appare
nel citato dipinto di Colocci del 1825.
Qui di fianco: il giovane Velluti, in scena al “Concordia” nel 1798.
Sotto, in stampe dell’epoca:
ritratto di Anna Guidarini Rossini e volantino celebrativo della cantante nella stagione jesina 1800
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In sala, la sera inaugurale, non c’è infatti l’aristocrazia che ne è l’artefice e che sprezzantemente considererà come data di apertura del “suo” Teatro il carneva-le 1800: quando cioè il ciclone “rivoluzionario” è già dissolto e dimenticato, conclusa ad agosto 1799 l’esperienza giacobina e partiti gli “occupanti” france-si, come dimenticate sono le stagioni teatrali intercorse. Siamo infatti nel 1798 e a Jesi si è appena insediato il governo francese e repubblicano: già dall’1 gennaio e su esplicita richiesta della Municipalità, che al dilagare in zona delle truppe d’oltralpe ha preferito offrire sottomissione piuttosto che subire conqui-sta forzosa. È perciò una folla di paritari “cittadini” -tra i quali rappresenta il Condominio il solo Franciolini- che nella comune euforia della “vittoriosa rivo-luzione” tiene a battesimo la nuova struttura sull’onda dei festeggiamenti per accogliere i francesi e saluta così l’avvio di quell’oggetto del desiderio a lungo immaginato, identificato e infine realizzato privatamente dalla classe aristocra-tica della Città. Ma in verità, per il precipitare degli eventi, non si può parlare di una vera e propria inaugurazione, in quanto a gennaio ’98 forse i lavori in-terni non erano ancora perfettamente ultimati. Lo dimostrerebbe la richiesta di concessione per quell’agosto da parte della Compagnia Cocchini, che però vie-ne dirottata al vecchio Teatro del Leovie-ne, ancora funzionante e “caldo” di attivi-tà appena trascorsa, poiché “questo nuovo Teatro è ingombrato dagli artefici, onde non è terminato, e per ora non possono farvisi delle rappresentazioni”.
Mentre fino a tutto maggio era andata in scena la tornata primaverile della sta-gione inaugurale, con i titoli già ricordati, di cui era prestigiosa parte una nuo-va partitura appositamente composta dal celebre Nicolò Zingarelli “per Napo-leone Bonaparte”: una “Cantata a due voci con cori” e orchestra, “fatta per la Città di Jesi”, il cui tono celebrativo di fraterno spirito rivoluzionario si deduce già dal nome dei due personaggi, “Genio d’Italia” e “Genio di Francia”…
Nell immagini, due ritratti del compositore Zingarelli in stampe dell’epoca
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Risulta quindi che la vita produttiva del Teatro si avvii gradualmente, prima del completamento di tutti i lavori: e che gli spettacoli d’opera andati in scena a gennaio -e poi nei mesi successivi, fino alle “comiche compagnie” esibitesi an-cora fino al mese di luglio- rispondano piuttosto ad una necessità d’uso motiva-ta dal nuovo ordine politico, che non all’effettiva compiutezza della struttura e conseguente avvio istituzionale definitivo previa inaugurazione ufficiale.
Il teatro al Montirozzo è il cuore della città
Tuttavia, se la forza vitale di un’istituzione deriva dalla vitalità della comunità che la esprime, nel nostro caso è bene specificare che la città da cui il Teatro prende impulso ed esistenza non è la comunità degli abitanti, ma quella della sua classe dirigente: quell’oligarchia aristocratica che guida le sorti locali –sia economiche che politiche- già da qualche secolo. Il “Leone” era nato all’inizio del ‘700 come associazione totalmente privata, a cui il Magistrato non parteci-pava in nessuna maniera e neanche vi possedeva un palchetto. Il “Concordia”
prosegue quell’assetto privatistico, essendone proprietario il grosso del dominio stesso del “Leone”: il quale, di fatto, non fa che proseguire la sua con-sueta attività, semplicemente cambiando sede. Ma alla società del nuovo Tea-tro il Magistrato questa volta partecipa, contribuendo regolarmente, come ogni altro condòmino, per la parte relativa ai due palchetti che detiene. Si tratta del primo passo nella direzione della specifica forma di transizione che un siffatto servizio culturale e ricreativo sperimenta storicamente in età moderna, quale ultima fase del passaggio dalla sfera privata a quella collettiva e pubblica. Solo il primo passo, perché permane nella sua interezza il carattere aristocratico del Teatro, per il quale lo spettacolo è ancora essenzialmente un fatto privatistico, pressoché riservato ai proprietari e a pochi “estranei” che non siano loro amici od ospiti: non a caso la struttura nasce senza loggione, con quattro ordini di palchi tutti da dividersi tra i condòmini, tramite l’annuale estrazione a sorte.
Carattere, questo dell’estrazione annuale, che differenzia il vecchio Condomi-nio del “Leone” da questo nuovo del “Concordia, nella direzione di una situa-zione più egualitaria tra i soci –tutti di pari diritti nell’ambito del sodalizio- e forse anche di maggiore dinamica nel coinvolgimento di ciascuno nella prospe-tiva di attività del Teatro: mentre nel vecchio assetto i palchi erano infatti asse-gnati una volta per tutte dall’estrazione iniziale, l’annualità del “tiro a sorte”
nel nuovo Teatro permette anche ai condòmini penalizzati dalla fortuna, e co-stretti magari in palchi laterali, a sperare in posizioni migliori con il sorteggio dell’anno dopo…”L’evento teatrale non può dirsi, in verità, a tutti gli effetti
“privato”, perché è ammesso il pubblico in platea, a pagamento; ma, di fatto, è come se lo fosse: non solo per la differenza quantitativa della presenza in sala, ma per lo stesso spirito di profonda divisione -anche fisica- che si riscontra tra
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il pubblico nobile dei proprietari, assiepati nell’anello dei palchetti, e quello borghese, limitato alla platea, sotto di esso, ben distaccato dall’alto zoccolo del primo ordine. Distacco che all’origine era di almeno mezzo metro maggiore di quello attuale, essendo allora la platea di tale misura più bassa e arrivando per-tanto l’arco di ingresso alla medesima non al soffitto del primo ordine, com’è oggi, ma al suo pavimento: la struttura originaria prevede infatti anche il pal-chetto centrale di primo ordine, soppresso in seguito ai lavori di ristrutturazio-ne interna degli anni 1830 per ampliare la porta d’accesso alla platea, conse-guente al sollevamento del piano della stessa. Il composito e movimentato in-terno della sala, in occasione di spettacoli, dobbiamo immaginarlo assai meno
“sacro” e concentrato che oggi: artisti e pubblico accomunati dalla medesima atmosfera di un ambiente che è ancora semi-oscuro, illuminato -“rischiarato”- soltanto da lampade a cera sparse per le sale così come sulla scena; disposizio-ne all’ascolto da parte dei presenti assai più inclidisposizio-ne alla ricreaziodisposizio-ne che non all’attenzione, tanto all’interno dei palchetti vissuti come salotti privati, quanto in una platea animata da pubblico variegato, tutti poco portati al silenzio e inte-ressati piuttosto a uno spirito di diffusa mondanità. Come già per il “Leone”, anche il Teatro “Concordia” apre più volte l’anno, perfino in estate; ma la sta-gione principale è e resta quella di carnevale, che va da Natale a Quaresima: in questo periodo lo spettacolo ritrova la sua più sentita radice del divertimento puro in funzione sociale. Esso è l’erede e la diretta prosecuzione del più antico rituale ludico che, tramite il gioco delle maschere e dei travestimenti, consente alla società di trasgredire -almeno una volta l’anno- e prendersi piacere nella temporanea e “impunita” sospensione delle regole, “ricreandosi” e così ricre-ando con nuova energia gli equilibri del suo dato assetto di sistema.
Qui sopra, stampe di inizio ‘800: l’atmosfera di penombra regna in tutto il teatro,
“rischiarato” da luci diffuse attraverso la sala, ma soprattutto nei palchetti…
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