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IL TEATRO È UN VEICOLO DI ECONOMIA E BENESSERE

Ancora nel 1830, il Condominio intende lo spettacolo esclusivamente nel car-nevale, che è la sua stagione, per la quale normalmente si impiegano quasi per intero le risorse annuali della Società. La petizione firmata proprio quell’anno dai condòmini, per sollecitare l’intervento finanziario del Comune, parla chia-ro: “contribuire alla spesa dello spettacolo del carnevale”.

La richiesta di compartecipazione –per la prima volta accolta, dopo vari tenta-tivi nel corso degli anni- era anche motivata da aggravate condizioni di ordine produttivo, derivanti dai mutati tempi storici: mentre da parte dell’autorità go-vernativa “le tombole sono state ristrette per Jesi al numero di due”, invece “gli spettacoli sono diventati più dispendiosi”, a differenza degli “andati tempi in cui gli artisti teatrali erano meno esigenti, e perciò meno costosi” e nei quali

“copioso numero di tombole dal governo si accordavano a sollievo delle im-prese”. Inoltre, dopo decenni di attività, il Condominio inizia anche ad essere sulle spese per i primi interventi di restauro della struttura, come quelli che re-centemente erano stati “straordinari nel machinismo”.

Così parlò il Gonfaloniere

In risposta, il Gonfaloniere -il Marchese Settimio Pianetti, anch’egli condòmi-no- riconosce che “dacché fu eretto questo edifizio si è non poco aumentato il lustro della Patria” e che Jesi non può essere inferiore a quelle città che già contribuiscono all’attività del proprio Teatro “in ordine agli spettacoli teatrali che massime oggidì si promuovono dapertutto col più energico entusiasmo”; i quali medesimi “ponendo le Famiglie primarie, e le altre più agiate nella gara di spendere, e di fare perciò circolare il denaro in ogni genere di lusso, ed an-che nei commestibili, notabilmente influiscono al ben essere della massa intera, ed infima di coloro i quali costituiscono questo pubblico istesso, compresa an-che la parte di campagna”. Pur se forse un po’ mossa dal conflitto di interessi

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che grava in questo caso sul Gonfaloniere, la sua risoluzione è comunque un chiario segno di come lo spettacolo teatrale venga colto -con ottica e sensibilità molto moderne- non più solo per il suo significato artistico o ricreativo, ma come vero e proprio volàno economico che stimola l’indotto locale e su cui pertanto il Comune stesso può e deve investire nell’interesse di tutti. Ma il ri-conoscimento istituzionale delle funzioni di pubblica utilità di quell’organismo -il Teatro- che è comunque pur sempre un ente giuridicamente privato, com-porta alcune concessioni che a questo punto il Condominio deve, per poter rendere l’evento teatrale ancora più di rilevanza sociale, cittadina: infatti, “ad oggetto di estendere sempre più il risultato dello spettacolo teatrale anche a vantaggio della infima porzione di questi abitanti”, conclude il Gonfaloniere che “si debba eseguire almeno ogni triennio la detta opera semiseria col ballo nel settembre, affinché acquisti un qualche movimento la fiera che si celebra”.

Da evento privato a evento sociale

Con ciò il cerchio è chiuso. Il Comune comincerà a contribuire economicamen-te alla vita del Teatro; il quale, almeno ogni qualche anno, sposeconomicamen-terà la sua sta-gione principale dal carnevale al settembre, in modo che la città intera se ne giovi direttamente e indirettamente: appropriandosi di fatto, come comunità, di quella tradizione che invece permaneva ancora nell’ambito carnevalesco dello svago aristocratico. Si avranno perciò in futuro, conseguentemente alla con-venzione tra Comune e Condominio, “ogni anno avvenire due spettacoli, uno cioè nel carnevale e l’altro a settembre”: la differenza fondamentale con il pas-sato è che adesso le due stagioni sono istituzionalizzate ed anche per quella di settembre è preventivata una “scorta”, pur restando ancora per qualche anno il peso e l’interesse maggiore su quella del carnevale. La convenzione, attivata

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con il carnevale del 1832/33, stabilisce che il Comune contribuisca con un quarto della scorta annua, la quale deve coprire sia la stagione del carnevale che quella del settembre; stabilisce inoltre che il settembre debba aumentare di importanza, con lo spettacolo d’opera: da alternarsi con la prosa, nell’una o nell’altra stagione a turno secondo gli anni. Nel caso poi si volesse l’opera an-che a carnevale nell’anno in cui essa è prevista a settembre, gli equilibri contri-butivi sarebbero variati, con un carico maggiore sul Condominio. In seguito alla convenzione, viene creata la “Deputazione ai pubblici spettacoli”, compo-sta da due membri a nomina condominiale e due comunale, presieduta dal Ma-gistrato: organo che sarà referente per tutti quegli eventi che “indistintamente si daranno in qualunque tempo ed in qualunque modo nel Teatro e nella città”.

Fermo restando che “la Società dei condòmini rimane libera per l’altra Deputa-zione Amministrativa dei suoi capitali, nei modi che crederà convenienti”.

Quando nacque l’aspetto attuale

Di questo vero e proprio spartiacque nella storia del rapporto tra Teatro e Cit-tà si ha anche un segno fisico, tangibile ed eloquente. Nel 1835 la programma-zione viene momentaneamente e provvisoriamente dirottata presso la sala co-munale, dove nel settembre si danno “alcune rappresentazioni di opera in mu-sica e prosa” nell’apposito “teatro e palchettone” ivi allestito per l’occasione:

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in quell’anno, infatti, il “Concordia” è chiuso per restauri e lavori interni ed anche il vecchio Teatro del Leone, benché ancora esistente e di proprietà del Condominio, è indisponibile, essendo in quegli anni adibito all’uso di caserma.

Il Teatro restaurato era pronto per l’estate del 1836, quando si era già predi-sposta la stagione settembrina con Norma e I Capuleti e i Montecchi di Bellini:

ma all’ultimo momento si dovette annullare tutto per il rischio di “cholera”, la cui ombra sinistra dall’Europa si era estesa anche sui territori pontifici. Alla sua riapertura, nel ‘37, oltre agli interventi conservativi il pubblico potrà notare rilevanti cambiamenti: l’innalzamento della platea, con conseguente taglio del palchetto centrale del primo ordine per lasciare spazio all’arco della porta d’accesso alla platea stessa, la creazione dell’arco scenico –prima assente- che ingloba sei nuovi palchi di proscenio, la trasformazione del quarto ordine di palchi in “lubione”, il loggione, chiaramente da vedersi come un allargamento dello spazio a pagamento per il pubblico comune, non condominiale.

È infatti provato dagli elenchi delle “estrazioni” che, fino alla chiusura del ‘34 per i lavori, esisteva anche il palchetto centrale del primo ordine; ciò implica che la platea fosse allora più bassa di almeno 50 centimetri rispetto ad oggi (e a dopo quella tornata di lavori): vale a dire, probabilmente, all’altezza medesima dell’attuale foyer. Lo zoccolo della platea era dunque, all’origine, parecchio alto: a sancire un netto distacco tra i nobili nei palchetti e “il popolo” in platea.

Quanto alla capienza, assomma a mille il “numero degli spettatori che può con-Nelle pagine, dall’alto:

il conte Gaetano Balleani e la consorte Anna Honorati, in un acquarello di Adriano Colocci dei primi decenni dell’‘800;

la sala del Teatro oggi;

disegni dell’epoca delle

“barcacce” -i nuovi palchi di proscenio realizzati negli anni

’30- e della facciata nel nuovo assetto con l’aggiunta di attico e orologio marmoreo

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tenere il Teatro di Jesi”: in platea, oltre ai posti seduti in “scanni” e “panche”

disposti in avanti, ben 170 circa sono previsti “in piedi in giro, e in fondo”; ai piani alti, sono 180 i posti “al lubione”, mentre per i tre ordini di palchi si può calcolare una media di 5 o 6 presenti per ciascuno dei 74 palchetti totali, con-siderato che secondo l’uso di allora “ognuno è capace di 8 individui” (sic!):

così testimonia un documento dell’Archivio Pianetti di metà Ottocento, che fo-tografa il nuovo assetto derivato dal restauro degli anni ‘30. La quantità com-plessiva di 1.000 è confermata ancora in una relazione tecnica ufficiale del 1893, così come dalla pratica successiva attestata fino ad oltre la metà del se-colo XX. Nel 1839, infine, anche un importante segno esteriore contribuisce a identificare il Teatro “Concordia” come punto di riferimento e simbolo urbani-stico per tutta la comunità cittadina. Donato dal Duca di Leuchtenberg – Massimiliano Beauharnais– che aveva degli interessi in loco, viene installato l’enorme orologio tuttora visibile: che, con il suo gruppo plastico marmoreo appoggiato sul nuovo attico in muratura, innalza la facciata e va così ad ornare e caratterizzare la costruzione, fino a quel momento priva di qualsiasi segno che la differenziasse in senso istituzionale da un comune palazzo signorile pri-vato. Nell’immaginario della gente e nell’uso che in seguito ne verrà, la piazza non si pensa più solo come “del Teatro” (tantomeno “della Morte”, com’era in passato con riferimento all’omonima Confraternita lì presso ubicata), ma anche

“dell’Orologio”. L’oggetto Teatro –e la sua idea– ferma restando la proprietà privata, sta uscendo dalla stretta pertinenza dei proprietari e dei suoi limitati abitués, per diventare pian piano patrimonio culturale comune della Città. Il 1845 vedrà poi un altro segno urbanistico completare e identificare per oltre un secolo la Piazza del Teatro: l’impianto della fontana, con leoni e obelisco.

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