Principi fondamentali 1. Il diritto alla vita (non comprende il diritto a morire)
7.2. I principi di ragionevolezza e di proporzionalità
7.2.2. Le declinazioni della ragionevolezza: razionalità intrinseca della norma, congruità e proporzione dell’intervento legislativo rispetto alle finalità perseguite, coerenza sistemica,
limite alla discrezionalità del legislatore
La sentenza n. 4 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui stabilisce che l’informazione antimafia è adottata anche nei casi in cui è richiesta una mera comunicazione antimafia e produce gli effetti di questa (nella specie, la decadenza da una segnalazione certificata di inizio attività) quando il prefetto, dopo avere consultato la banca dati nazionale unica, riscontri la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa. La fattispecie “si riconnette a una situazione di particolare pericolo di inquinamento dell’economia legale, perché il tentativo di infiltrazione mafiosa viene riscontrato all’esito di una nuova occasione di contatto con la pubblica amministrazione, che, tenuta a richiedere la comunicazione antimafia in vista di uno dei provvedimenti indicati dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011, si imbatte in una precedente documentazione antimafia interdittiva. Non è perciò manifestamente irragionevole che (…), a fronte di un tentativo di infiltrazione mafiosa, il legislatore, rispetto agli elementi di allarme desunti dalla consultazione della banca dati, reagisca attraverso l’inibizione, sia delle attività contrattuali con la pubblica amministrazione, sia di quelle in senso lato autorizzatorie, prevedendo l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva che produce gli effetti anche della comunicazione antimafia”.
Il “generale canone di ragionevolezza (…) si configura come principio di sistema, chiamato a orientare le scelte del legislatore in materia previdenziale”. Così la sentenza n. 20 che ha respinto le censure di irragionevolezza rivolte all’art. 6 del d.l. n. 201 del 2011 che, in difetto di una stima analitica dei risparmi attesi, ha abrogato l’istituto della pensione privilegiata per la generalità dei dipendenti pubblici, conservando il beneficio soltanto agli appartenenti al comparto sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico. La carente illustrazione delle esigenze finanziarie e dei risparmi rileva solo quale “indice sintomatico dell’irragionevolezza del bilanciamento di volta in volta attuato dal legislatore”; la valenza significativa di tale dato deve essere inquadra in uno scrutinio più ampio, “diretto a ponderare ogni elemento rivelatore dell’arbitrarietà e della sproporzione del sacrificio imposto agli interessi costituzionali rilevanti”. Nel sindacato rivestono un ruolo cruciale “l’arco temporale delle misure restrittive, l’incidenza sul nucleo essenziale dei diritti coinvolti, la portata generale degli interventi, la pluralità di variabili e la complessità delle implicazioni, che possono anche precludere una stima ponderata e credibile dei risparmi”. Nella specie, il legislatore si è ispirato a un graduale disegno di armonizzazione e ha perseguito l’obiettivo tendenziale di attribuire all’INAIL la gestione della materia degli infortuni e delle malattie professionali dei dipendenti pubblici, con l’eccezione dell’indicato comparto. L’applicazione del nuovo regime è stata scandita secondo un percorso graduale, volto a salvaguardare le aspettative meritevoli di tutela. La relazione tecnica, allegata al disegno di legge di conversione, ha prefigurato “economie quantificabili solo a consuntivo”, chiarendo che “l’esclusione esplicita di alcune categorie di personale nonché la necessaria gradualità delle modalità di applicazione, determina nel primo triennio effetti non puntualmente quantificabili tenuto conto, anche, dei tempi di liquidazione dei benefici”. Il legislatore ha così indicato “gli ostacoli che si frappongono a una plausibile previsione dei risparmi e rendono ineludibile una valutazione a consuntivo”.
La sentenza n. 27 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 del d.lgs. n. 504 del 1998 e 1, comma 66, lett. b), della legge n. 220 del 2010, impugnati, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta successive al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione. L’equiparazione, a fini tributari, del “gestore per conto terzi” (il titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (il bookmaker) non è risultata irragionevole: le differenze tra il contributo della ricevitoria e del bookmaker alla complessiva attività di raccolta delle scommesse “non
135 escludono affatto – ed anzi presuppongono – che entrambi i soggetti partecipino, sia pure su piani diversi e secondo differenti modalità operative, allo svolgimento di quell’attività di organizzazione ed esercizio delle scommesse sottoposta ad imposizione. Sebbene non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, il titolare della ricevitoria svolge una attività di gestione attraverso la propria organizzazione imprenditoriale: assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta; si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate nonché del pagamento delle vincite secondo procedure e istruzioni fornite dal bookmaker. “Tali elementi configurano quell’attività di gestione delle scommesse che costituisce il presupposto dell’imposizione. Nell’ampia nozione di gestione (…) non risulta necessariamente ricompresa l’assunzione del rischio proprio del contratto di scommessa, che grava sul
bookmaker per conto del quale opera il ricevitore. L’attività gestoria che costituisce il presupposto
dell’imposizione è riferita, infatti, alla raccolta delle scommesse, il cui volume determina anche la provvigione della ricevitoria e quindi il suo stesso rischio imprenditoriale”. In riferimento al denunciato difetto di congruità e proporzione dell’intervento legislativo rispetto alle finalità perseguite, non è stata ravvisata alcuna irragionevolezza nell’assoggettamento a imposta del ricevitore operante per bookmaker sfornito di concessione, con conseguente sua parificazione al bookmaker concessionario. La scelta legislativa ha risposto a un’esigenza di effettività del principio di lealtà fiscale nel settore del gioco, “allo scopo di evitare l’irragionevole esenzione per gli operatori posti al di fuori del sistema concessorio, i quali finirebbero per essere favoriti per il solo fatto di non avere ottenuto la necessaria concessione, ovvero di operare per conto di chi ne sia privo”.
La sentenza n. 41 ha giudicato illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., nella parte in cui prevedeva che il pubblico ministero sospendesse l’esecuzione della pena detentiva, anche residua, non superiore a tre anziché quattro anni. Immanente al sistema, “e tratto di imprescindibile coerenza intrinseca di esso, è un tendenziale parallelismo” tra i limiti di pena stabiliti per la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione e l’accesso alle misure alternative alla detenzione. Avendo la sentenza n. 569 del 1989 esteso a chi si trovava in stato di libertà la possibilità di accedere all’affidamento in prova riservato in precedenza alla popolazione carceraria, il legislatore ha ritenuto in linea di principio incongruo disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe potuto godere di una misura specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere e ha perseguito al massimo grado l’obiettivo di risparmiare il carcere al condannato, novellando, con la legge n. 165 del 1998, l’art. 656 e introducendo l’automatica sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, entro un limite pari a quello fissato per godere della misura alternativa. Il parallelismo ha trovato conferma nella successiva trama legislativa poiché all’incremento della soglia di accesso alla misura alternativa ha corrisposto una pari elevazione del limite stabilito per la sospensione (d.l. nn. 272 del 2005 e 78 del 2013 in tema di affidamento in prova dell’alcooldipendente o tossicodipendente sottoposto a programma di recupero e detenzione domiciliare). Del resto, la natura servente della sospensione dell’ordine di esecuzione espone l’istituto a “profili di incoerenza normativa ogni qual volta venga spezzato il filo” che lo lega alla possibilità riconosciuta al condannato di sottoporsi a un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario. Nel caso dell’affidamento in prova “allargato” – che il d.l. n. 146 del 2013 ha delineato per il condannato che deve espiare una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni, qualora abbia serbato, almeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole quanto alla sua rieducazione e alla prevenzione del pericolo di commissione di altri reati – non è seguita un’analoga modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata. “Il tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative costituisce un punto di equilibrio ottimale, ma appartiene pur sempre alla discrezionalità legislativa selezionare ipotesi di cesura, quando ragioni ostative appaiano prevalenti”. La dimensione normativa ancillare della sospensione rispetto alle finalità delle misure alternative “rende particolarmente stretto il controllo di legittimità costituzionale riservato a dette ipotesi”. Peculiari situazioni possono suggerire al legislatore di imporre un periodo di carcerazione in attesa che l’organo competente decida sull’istanza di affidamento in prova: ciò potrebbe dipendere dalla particolare pericolosità di cui sono indice i reati commessi ovvero dalla considerazione che l’accesso alla misura alternativa è soggetto a condizioni così stringenti da rendere questa eventualità meramente residuale. Nella specie, la Corte ha escluso che vi fosse una non irragionevole giustificazione per deviare dal parallelismo la cui rottura, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, è apparsa di particolare gravità “perché è proprio il modo con
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cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione”. L’art. 47, comma 3-bis, ord. pen. si rivolge espressamente anche ai condannati in stato di libertà, senza alcuna distinzione rispetto ai detenuti. Sebbene in linea di principio non sia vietato al legislatore dar vita a forme alternative alla detenzione riservate ai detenuti, nel caso dell’affidamento allargato la legge non si è valsa di tale spazio di discrezionalità perché ha esplicitamente optato per l’equiparazione tra detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura: si è trattato di una scelta “del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri”, perseguibile “non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero”. Il divieto di sospendere l’ordine di esecuzione di una pena detentiva tra tre anni e un giorno e quattro anni avrebbe determinato l’irrealizzabilità in concreto della previsione dell’affidamento “allargato”, “per quanto normativamente stabilita e voluta”: l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, avvenuta senza aver dato al condannato il tempo di chiedere l’affidamento e senza attendere una decisione al riguardo, avrebbe reso impossibile la concessione della misura prima dell’ingresso in carcere. La descritta situazione conseguiva al mancato adeguamento dell’art. 656, comma 5. Omettendo di intervenire sulla normativa ancillare, il legislatore ha smentito sé stesso, “insinuando nell’ordinamento una incongruità sistematica capace di ridurre gran parte dello spazio applicativo riservato alla normativa principale. (…) Mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento” ma ha derogato al principio del parallelismo senza adeguata giustificazione, “dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato”.
La sentenza n. 45 ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 426 cod. proc. civ., censurato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui, secondo il diritto vivente, non prevede che, in caso di introduzione con rito ordinario di una causa soggetta al rito speciale del lavoro e di conseguente mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali si producano secondo le norme del rito ordinario seguito fino al mutamento. L’auspicata riformulazione del meccanismo di conversione – nel senso che il passaggio dal rito ordinario a quello speciale operi solo pro futuro, ai fini del rito da seguire all’esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all’atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta – riflette “una valutazione di opportunità, e di maggior coerenza di sistema, di una sanatoria piena, e non dimidiata, dell’atto irrituale, per raggiungimento dello scopo”. Tuttavia, la disciplina attuale, “coerente ad un principio di tipicità e non fungibilità delle forme degli atti”, “non raggiunge quella soglia di manifesta irragionevolezza che consente il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme processuali”. Il petitum implica l’opzione per la modifica di una regola processuale, “di per sé meritevole di considerazione, ma comunque rientrante nell’ambito delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore”.
Non è configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché “l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale (…), purché, per un verso, l’individuazione di quest’ultima non appaia arbitraria e, per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue”. Così la sentenza n. 47 che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83-bis, commi 1, 2, 3, 6, 7, 8, 10 e 11, del d.l. n. 112 del 2008, impugnato, in relazione all’art. 41 Cost., nella parte in cui introduce una tariffa minima per i trasporti nazionali per conto terzi (in caso di contratti stipulati in forma orale), affidandone in via transitoria la determinazione al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Per l’esame di tale pronuncia si rinvia alla voce La libertà di iniziativa economica e la tariffa minima imposta per i trasporti nazionali in I rapporti economici – L’iniziativa economica.
La sentenza n. 67 ha rigettato la questione di costituzionalità dell’art. 22, secondo comma, della legge n. 576 del 1980, censurato, in relazione all’art. 3 Cost., in quanto sanzionerebbe in modo più grave e irragionevole l’avvocato pensionato nella gestione INPS, che non abbia nascosto il proprio reddito e abbia effettuato le ordinarie comunicazioni reddituali alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza degli avvocati, senza però richiederne l’iscrizione, rispetto all’avvocato che, dopo avere richiesto l’iscrizione, non invii annualmente la comunicazione reddituale o la effettui in modo infedele (art. 17) ovvero ritardi o
137 non effettui il pagamento dei contributi (art. 18). La condotta sanzionata dalla norma impugnata – l’esercizio dell’attività forense da parte di un avvocato che, pur essendone tenuto per la sussistenza dei relativi presupposti, abbia omesso di presentare la domanda di iscrizione alla Cassa – “costituiva, nel regime antecedente alla riforma dell’ordinamento forense del 2012, una grave inadempienza per la Cassa, la quale, in mancanza della domanda di iscrizione, poteva non saper nulla dell’avvocato che, iscritto all’albo, esercitasse con continuità l’attività professionale. E rappresentava una inadempienza più insidiosa rispetto alle altre condotte sanzionate (…) dall’art. 17 e dall’art. 18 della medesima legge, che vedevano la Cassa in condizione di reagire più agevolmente, essendo già in possesso di utili elementi cognitivi a partire dagli stessi già verificati presupposti dell’iscrizione”. “Proprio per rimuovere questa che – più delle altre inadempienze (…) − poteva comportare, per la Cassa, un grave nocumento alla realizzazione della tutela previdenziale della categoria professionale, il legislatore ha introdotto, in occasione della riforma dell’ordinamento della professione forense (…), un automatismo per cui l’iscrizione all’ordine comporta in ogni caso l’iscrizione alla Cassa, sicché una siffatta inadempienza non è più configurabile. Infatti, mentre prima di tale riforma l’iscrizione all’ordine professionale era obbligatoria per gli avvocati e procuratori che esercitassero la libera professione con carattere di continuità e l’iscrizione alla Cassa era subordinata alla domanda dell’interessato da presentarsi nel termine stabilito di legge (…), a seguito della (…) legge n. 247 del 2012 l’iscrizione agli albi comporta la contestuale ed automatica iscrizione alla Cassa (…). Sicché, alla luce del nuovo ordinamento professionale forense, non può più darsi il caso dell’avvocato iscritto all’albo, ma non alla Cassa”.
La sentenza n. 86 ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 18, quarto comma, della legge n. 300 del 1970 (come sostituito dalla legge n. 92 del 2012), censurato, in relazione all’art. 3, primo comma, Cost., nella parte in cui attribuisce, in modo asseritamente irragionevole, natura risarcitoria, anziché retributiva (con conseguente irripetibilità), alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere per il periodo intercorrente dalla pronuncia provvisoriamente esecutiva di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o all’eventuale pronuncia di riforma. Il diritto alla retribuzione “sussiste solo in ragione (e in proporzione) della eseguita prestazione lavorativa”. L’ordine di reintegrazione del lavoratore licenziato illegittimamente ripristina, sul piano giuridico, la lex contractus; tuttavia, sul piano fattuale, l’attuazione dell’ordine non può prescindere dalla collaborazione del datore, avendo ad oggetto un facere infungibile. Il comportamento del datore che non ottemperi all’ordine, “riconducibile ad una fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti, perpetuerebbe le conseguenze dannose del licenziamento intimato contra ius, da cui propriamente deriva una obbligazione risarcitoria del danno stesso da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato”. La previsione di un’indennità risarcitoria sostitutiva della retribuzione a carico del datore inottemperante all’ordine giudiziale di reintegra non è risultata irragionevole bensì “coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”. Inoltre, “il ragguaglio dell’indennità sostitutiva all’ultima retribuzione percepita dal lavoratore è, a sua volta, coerente alla qualificazione risarcitoria della fattispecie”, venendo in rilievo il lucro cessante, cioè il mancato guadagno subito dal lavoratore per effetto, prima, del licenziamento illegittimo e, poi, della mancata riassunzione: “tale voce di danno è coerentemente rapportata a quanto il dipendente avrebbe percepito se, senza il licenziamento, avesse continuato a lavorare e poi se, dopo l’annullamento di questo, fosse stato riassunto in esecuzione dell’ordine di reintegrazione”.
La sentenza n. 88 ha giudicato illegittimo, per violazione degli artt. 3, 111, secondo comma, 117, primo comma, Cost., 6, par. 1, e 13 CEDU, l’art. 4 della legge n. 89 del 2001 (come sostituito dal d.l. n. 83 del 2012), nella parte in cui non prevedeva che la domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo potesse essere proposta in pendenza del procedimento presupposto. Gli evocati parametri “presidiano l’interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia”. Pertanto, “rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l’attivazione dello strumento – l’unico disponibile, fino all’introduzione di quelli preventivi (…) – volto a rimediare” alla lesione di detto interesse, “seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina”.
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La discrezionalità “nella scelta dei meccanismi diretti ad assicurare nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici trova pur sempre un limite nel criterio di ragionevolezza, il quale circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali”. Tale discrezionalità “non esclude la necessità di verificare nel merito le scelte di volta in volta operate dal legislatore riguardo ai meccanismi di rivalutazione dei trattamenti pensionistici, quale che sia il contesto giuridico e di fatto nel quale esse si inseriscono” e del quale la Corte non può non tenere conto. Così l’ordinanza n. 96 che ha reputato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento anche ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, della disciplina della perequazione delle pensioni per gli anni 2012-2014 contenuta negli artt. 24, commi 25 e 25-bis, del d.l. n. 201 del 2011 (il primo sostituito e il secondo inserito dal d.l. n. 65 del 2015) e 1, comma 483, lett. e), della legge n. 147 del 2013. Per l’esame di tale pronuncia si rinvia alla voce Il blocco della perequazione
automatica per i trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS in I rapporti economici – La previdenza.
L’accesso all’abitazione, bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, “può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia. Ma ciò sempreché un tale più incisivo radicamento territoriale, richiesto ai cittadini di paesi terzi ai fini dell’accesso alle prestazioni in questione, sia contenuto entro limiti non arbitrari e irragionevoli”. Così la sentenza n. 106 che ha giudicato illegittimo, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., l’art. 4, comma 1, della legge ligure n. 13 del 2017, il quale, modificando l’art. 5, comma 1, lett. a), della legge regionale n. 10 del 2014, stabiliva che, ai fini dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, il requisito prescritto per i cittadini di paesi extracomunitari, individuato nella titolarità della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno almeno biennale abbinato all’esercizio