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Ragionevolezza e bilanciamento di interessi

Nel documento Giurisprudenza costituzionale dell'anno 2018 (pagine 143-147)

Principi fondamentali 1. Il diritto alla vita (non comprende il diritto a morire)

7.2. I principi di ragionevolezza e di proporzionalità

7.2.3. Ragionevolezza e bilanciamento di interessi

La sentenza n. 5 ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale – promosse dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost. – di numerose disposizioni del d.l. n. 73 del 2017 che ha previsto dieci vaccinazioni obbligatorie per i minori fino a sedici anni di età, stabilendo, per i casi di inadempimento, sanzioni amministrative pecuniarie e il divieto di accesso ai servizi educativi per l’infanzia. Valutata nell’attuale contesto che segna un’inversione di tendenza dalla raccomandazione all’obbligo di vaccinazione, la disciplina de qua non è stata reputata censurabile sul piano della ragionevolezza. Il legislatore, infatti, “intervenendo in una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano della efficacia, ha reso obbligatorie dieci vaccinazioni: meglio, ha riconfermato e rafforzato l’obbligo, mai formalmente abrogato, per (…) quattro vaccinazioni già previste dalle leggi dello Stato, e l’ha introdotto per altre sei vaccinazioni che già erano tutte offerte alla popolazione come raccomandate”. Pertanto, la legge non ha repentinamente introdotto dal nulla l’imposizione di un ampio numero di vaccinazioni; ha invece innovato il titolo giuridico in nome del quale alcune vaccinazioni erano somministrate, avendo reso obbligatorio un certo numero di vaccinazioni in precedenza già raccomandate. “Indubbiamente, il vincolo giuridico si è fatto più stringente: ciò che in precedenza era raccomandato, oggi è divenuto obbligatorio”. Nel valutare l’intensità del cambiamento, ai fini del giudizio sulla ragionevolezza del bilanciamento legislativo, la Corte ha evidenziato che, nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria, “la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo”: “anche nel regime previgente, le vaccinazioni non giuridicamente obbligatorie erano comunque proposte con l’autorevolezza propria del consiglio medico”. Nel nuovo assetto basato sull’obbligatorietà giuridica, il legislatore ha comunque preservato “un adeguato spazio per un rapporto con i cittadini basato sull’informazione, sul confronto e sulla persuasione”: in caso di inosservanza dell’obbligo vaccinale, è previsto un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, “strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all’adesione consapevole”. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative, peraltro assai mitigate in sede di conversione. Nel presente contesto, “il legislatore ha ritenuto di dover rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, configurando un intervento non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche. Nulla esclude che, mutate le condizioni, la scelta possa essere rivalutata e riconsiderata”.

La sentenza n. 58 ha giudicato illegittima, per violazione di numerosi parametri, la disciplina che consentiva la protrazione dell’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale, qual è l’ILVA di Taranto, nonostante l’intervenuto sequestro per ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori. L’art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 “non ha rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti, incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio

145 della stessa vita”. La prosecuzione dell’attività era subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un piano ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, difettando ogni forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. Per la formazione del piano, anche provvisorio, era concesso un termine di trenta giorni durante il quale la prosecuzione dell’attività era consentita senza soluzione di continuità, sicché mancava del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori. L’unico limite temporale effettivo riguardava il divieto di protrarre l’attività oltre i dodici mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro. Quanto al contenuto del piano, l’omesso riferimento a specifiche disposizioni delle leggi in materia di sicurezza sul lavoro o ad altri modelli organizzativi e di prevenzione lasciava sfornito l’ordinamento di qualsiasi concreta ed effettiva possibilità di reazione a eventuali violazioni. Infine, non era prevista alcuna partecipazione di autorità pubbliche ma solo una comunicazione successiva all’autorità giudiziaria procedente nonché a INAIL, ASL e Vigili del Fuoco a fini di monitoraggio e ispezione. Il legislatore ha così finito col “privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)” e violando i limiti imposti dall’art. 41 Cost. all’attività di impresa per salvaguardare la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Diversamente, la sentenza n. 85 del 2013 ha positivamente scrutinato il precedente d.l. n. 207 del 2012 in cui la prosecuzione dell’attività era condizionata all’osservanza di specifici limiti, disposti in provvedimenti amministrativi relativi all’autorizzazione integrata ambientale e assistiti dalla garanzia di una specifica disciplina di controllo e sanzionatoria. Il legislatore del 2012 aveva effettuato un “ragionevole e proporzionato bilanciamento” dei valori in gioco, uniformandosi alla giurisprudenza costituzionale secondo cui il bilanciamento “deve essere condotto senza consentire l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona (…). Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati”.

La sentenza n. 99 ha rigettato, per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, impugnato, in riferimento agli artt. 41, 42, 117, primo comma, Cost. e 1 del protocollo addizionale alla CEDU, in quanto – stabilendo che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni ai sensi dell’art. 29, comma

2-ter, del testo unico bancario (per il caso in cui l’attivo superi la soglia di otto miliardi), il diritto al

rimborso delle azioni al socio recedente possa essere limitato e persino escluso e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo – non avrebbe correttamente bilanciato il diritto al rispetto dei propri beni e l’interesse generale alla sana e prudente gestione dell’impresa bancaria. Le regole prudenziali dell’Unione europea “non lasciano al legislatore nazionale alcuna facoltà di scelta tra le due presunte opzioni della limitazione quantitativa del rimborso e del suo rinvio, ma gli impongono di attribuire all’ente creditizio la capacità di adottare sia l’una che l’altra misura come condizione perché le azioni possano essere considerate strumenti del capitale primario di classe 1” ai fini del rispetto dei requisiti patrimoniali minimi. L’unica opzione concessa al legislatore nazionale riguarda la scelta tra il rifiuto del rimborso delle azioni e la limitazione al rimborso: rispetto a tale opzione, la norma “si conforma (…) al criterio del minimo mezzo – non prevedendo la possibilità del rifiuto e invece – introducendo lo strumento della limitazione del rimborso sulla base della situazione prudenziale della banca. Al legislatore nazionale non può dunque essere addebitato di avere illegittimamente sacrificato l’interesse del socio recedente, andando oltre a quanto strettamente necessario per tutelare l’interesse pubblico alla sana e prudente gestione dell’attività bancaria nel bilanciare gli opposti interessi in gioco”. Il legislatore ha correttamente imposto la limitazione del diritto al rimborso delle azioni “per assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali applicabili alle banche popolari, ovvero (…) la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca in conformità con la normativa europea”. La limitazione del rimborso, inoltre, si giustifica solo se, nella misura e nel tempo in cui sia necessario per soddisfare le esigenze prudenziali. La disposizione de qua, lungi dal realizzare il paventato effetto espropriativo senza indennizzo, obbliga gli amministratori a “verificare periodicamente la situazione prudenziale della banca

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e la permanenza delle condizioni che hanno imposto l’adozione delle misure limitative del rimborso e di provvedere ove esse siano venute meno. Più precisamente, nel caso di rinvio del rimborso, una volta che si sia accertato il venire meno degli elementi che hanno giustificato il differimento, il credito del recedente si deve considerare esigibile. La limitazione quantitativa, invece, deve condurre alla conservazione dei titoli non rimborsati in capo al recedente, che si vedrà in questo modo reintegrato nel suo status e nel valore patrimoniale della partecipazione”. Infine, la contestata disciplina è risultata legittima, siccome “conforme alle condizioni richieste inderogabilmente dalle regole prudenziali europee, che escludono (…) qualsivoglia discrezionalità del legislatore nazionale nella scelta delle misure appropriate per assicurare il loro rispetto”; “necessaria al perseguimento dei superiori interessi pubblici alla stabilità del sistema bancario e finanziario”, con specifico riguardo alle banche popolari in cui “il rischio di recessi in grande numero e di rimborsi conseguentemente di ampie dimensioni può mettere gravemente a repentaglio la stabilità delle banche interessate e, con esse, dell’intero sistema”; e “proporzionata al fine da realizzare, bilanciando in maniera non irragionevole le esigenze dell’interesse generale della comunità e la tutela dei diritti fondamentali della persona, e ciò senza oneri individuali eccessivi”.

“Il legislatore ben può disincentivare i pensionamenti anticipati (…) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita (…). Tali scelte discrezionali sono chiamate a contemperare la salvaguardia della sostenibilità del sistema previdenziale con i principi di eguaglianza e ragionevolezza (...) e con la tutela della proporzionalità e dell’adeguatezza dei trattamenti pensionistici”. Così la sentenza n. 104 che ha dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità dell’art. 1, comma 299, della legge n. 208 del 2015, impugnato, in relazione agli artt. 2, 3, 36 e 38 Cost., nella parte in cui, per le pensioni anticipate decorrenti negli anni 2012, 2013 e 2014 e corrisposte a lavoratori che abbiano raggiunto la prevista anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017, limita l’esenzione dalla riduzione delle anzianità contributive maturate in data anteriore al 1° gennaio 2012 ai soli ratei di pensione corrisposti dal 1° gennaio 2016 e non include anche i ratei corrisposti dal 2012 al 2015. Il bilanciamento legislativo non è risultato irragionevole poiché le decurtazioni imposte alle pensioni anticipate si affiancano alle drastiche misure di riduzione della spesa previdenziale previste dal d.l. n. 201 del 2011 e incentrate sull’adeguamento dell’età di accesso alla pensione alla più elevata speranza di vita. La riduzione dei trattamenti anticipati, superata a regime dalla legge n. 232 del 2016 per le pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2018, esaurisce i suoi effetti nel quadriennio 2012-2015 e si proietta in un arco temporale definito. La riduzione, inoltre, si attesta sulla misura di un punto percentuale per ogni anno di anticipo rispetto all’età di sessantadue anni e sulla più elevata misura di due punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni; e si articola secondo un progredire graduale, commisurato al grado di anticipazione dell’età pensionabile e circoscritto entro limiti sostenibili, che non vanificano diritti fondamentali.

La sentenza n. 135 ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di costituzionalità dell’art. 5-sexies, commi 1, 4, 5, 7 e 11, della legge n. 89 del 2001, impugnato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto – regolando le modalità di pagamento degli indennizzi per irragionevole durata del processo – detterebbe una disciplina ingiustificatamente favorevole all’amministrazione debitrice e lederebbe il diritto di difesa del creditore. La normativa non ha aggiunto, ai fini dell’esperimento dell’esecuzione forzata o della proponibilità del ricorso per ottemperanza, al termine di 120 giorni già previsto, per tutti i crediti vantati nei confronti delle amministrazioni statali, dall’art. 14 del d.l. n. 669 del 1996 l’ulteriore termine dilatorio di sei mesi decorrente dalla data di adempimento degli obblighi comunicativi gravanti sul creditore. Simile presupposto interpretativo è stato disatteso “sia perché pretende di desumere, per implicito, da una disposizione transitoria − non censurata come tale − ciò che la disciplina a regime non dice e (…) esplicitamente anzi smentisce (dacché per testuale dettato del comma 7 i creditori non possono procedere ad esecuzione «prima che sia decorso il termine di cui al comma 5» e cioè appunto, e solo, il termine dilatorio di «sei mesi dalla data in cui sono assolti gli obblighi previsti dai commi precedenti»); sia perché non tiene conto del chiaro carattere di specialità del regime di riscossione dei crediti ex lege n. 89”, “dichiaratamente riferito, ed innegabilmente conformato, alle peculiarità, e attuali dimensioni, del corrispondente debito dell’amministrazione e delle procedure attivate per la sua esecuzione, che hanno finito con l’ingenerare una sorta di contenzioso parallelo a quello delle liti presupposte”. Correttamente interpretata, la normativa è risultata conforme

147 all’art. 3 Cost., escludendo la non cumulabilità dei suddetti termini ogni profilo di disparità di trattamento. Inoltre, la non coincidenza dei termini è giustificata “in ragione della sottolineata specificità della procedura liquidatoria degli indennizzi per equa riparazione della non ragionevole durata del processo rispetto alle procedure di pagamento degli altri debiti della pubblica amministrazione”. Né l’onere di produrre la dichiarazione e i documenti di cui al comma 1, relativamente a dati comunque in possesso del creditore, è stato reputato tale da rendere la posizione del titolare di credito ex lege n. 89 deteriore rispetto a quella del creditore ordinario, che deve pur sempre porre in essere gli adempimenti previsti dalle norme di contabilità di Stato. La nuova procedura di pagamento ha attuato “un ragionevole bilanciamento dell’interesse del creditore a realizzare il suo diritto (ciò che non è, appunto, in alcun modo impedito né reso eccessivamente gravoso) con l’interesse dell’amministrazione ad approntare un sistema di risposta, organico ed ordinato, con cui far fronte al flusso abnorme delle procedure relative ai crediti fondati su decreti ottenuti ai sensi della legge n. 89 del 2001. Obiettivo, questo, in vista del quale rileva anche l’effetto deflattivo riconducibile agli adempimenti preventivi sub comma 1, che possono consentire all’amministrazione di pagare quanto dovuto ex iudicato «entro» (ed eventualmente anche prima dello scadere del termine de)i sei mesi (…), così evitando successive procedure esecutive”. Alla dedotta violazione dell’art. 24 Cost. si è replicato che la norma “ha introdotto (…) solo l’onere, per i creditori di indennizzi ex lege n. 89 del 2001, di collaborare con l’amministrazione, attraverso una dichiarazione (che può essere presentata congiuntamente o pedissequamente alla notifica del decreto che costituisce il titolo) completa delle informazioni relative alla situazione creditoria, al fine di ottenerne il pagamento entro i sei mesi successivi, trascorso inutilmente i quali essi potranno agire in sede esecutiva. Si tratta, dunque, di un meccanismo procedimentale, non irragionevole, che non impedisce la tutela giurisdizionale, ma solo (…) la differisce (per un tempo non eccessivo) e la rende anzi eventuale, in coerenza con gli obiettivi generali di razionalizzazione e semplificazione dell’attività amministrativa”.

La sentenza n. 158 ha giudicato illegittimo, per violazione degli artt. 3, 31 e 37 Cost., l’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non escludeva dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, ai fini della corresponsione dell’indennità giornaliera di maternità, il periodo di congedo straordinario previsto dal successivo art. 42, comma 5, di cui la lavoratrice gestante avesse fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata. Nel negare l’indennità di maternità alla madre che, all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, beneficiasse da più di sessanta giorni del suddetto congedo, la disposizione sacrificava in maniera arbitraria la speciale adeguata protezione che l’art. 37, primo comma, Cost. accorda alla madre lavoratrice e al bambino, specificando e rafforzando la tutela della maternità e dell’infanzia già sancita in generale dall’art. 31, secondo comma, Cost. L’esclusione del congedo straordinario si è rivelata irragionevole anche alla luce delle speciali previsioni che non comprendono nel computo dei sessanta giorni tra l’inizio dell’assenza e l’inizio dell’astensione obbligatoria il periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità. La deroga stabilita per tali congedi si ispira a un’esigenza preminente di tutela, cosicché l’indennità di maternità è dovuta anche quando la discontinuità del rapporto di lavoro superi i sessanta giorni. Le ipotesi di congedo straordinario per assistere il coniuge o un figlio in condizioni di grave disabilità esibiscono esigenze di tutela egualmente rilevanti. “Si tratta, infatti, di congedo straordinario subordinato a presupposti oggettivi e temporali rigorosi, non equiparabile ad altre assenze, giustificate da motivi personali e di famiglia”. L’estensione dei beneficiari del congedo straordinario, operata dalla giurisprudenza costituzionale, ha risposto all’esigenza di “garantire la cura del disabile nell’ambito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene, allo scopo di tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione”. L’assetto prefigurato dal legislatore pregiudicava la madre che si facesse carico anche dell’assistenza al coniuge o al figlio disabili e attuava un “bilanciamento irragionevole nei confronti di due principi di primario rilievo costituzionale, la tutela della maternità e la tutela del disabile”. Imponendo una scelta tra l’assistenza al disabile e la ripresa dell’attività lavorativa per godere delle provvidenze legate alla maternità, la disciplina sacrificava indebitamente l’una o l’altra tutela e contrastava con il disegno costituzionale che tende a ravvicinare le due sfere di tutela e a farle convergere, nell’alveo della solidarietà familiare, oltre che nelle altre formazioni sociali. “La tutela della maternità e la tutela del disabile, difatti, pur con le peculiarità che le contraddistinguono, non sono antitetiche, proprio perché perseguono l’obiettivo comune di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

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La sentenza n. 194 ha giudicato parzialmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 in quanto prestabiliva interamente la misura dell’indennità dovuta al lavoratore illegittimamente licenziato in due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio. La norma – connotando l’indennità, oltre che come certa, anche come rigida, “perché non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio” e non incrementabile con apposite prove – ha leso il principio di ragionevolezza, “sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente”. La rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostrava la sua incongruenza soprattutto nei casi di anzianità di servizio non elevata, nei quali appariva ancor più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò potesse sempre ovviare la previsione della misura minima dell’indennità pari a quattro mensilità (innalzate a sei dal d.l. n. 87 del 2018). L’inadeguatezza dell’indennità forfetizzata rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato era altresì suscettibile di minare “anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto”. La norma non realizzava un equilibrato componimento degli interessi in gioco: “la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro”. Con il prevedere una tutela economica inadeguata a ristorare il danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, e a dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, essa comprimeva l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza. Il legislatore finiva così per tradire “la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato”.

Nel documento Giurisprudenza costituzionale dell'anno 2018 (pagine 143-147)