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Trattamento adeguatamente diverso di situazioni diverse

Nel documento Giurisprudenza costituzionale dell'anno 2018 (pagine 107-121)

Principi fondamentali 1. Il diritto alla vita (non comprende il diritto a morire)

7.1.2. Trattamento adeguatamente diverso di situazioni diverse

La violazione del principio di uguaglianza “sussiste solo qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non, invece, quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 155 del 2014, n. 108 del 2006 e n. 340 del 2004)”. Così la sentenza n. 13.

“Il raffronto operato tra diverse regolamentazioni, mirato a verificare, a fronte del principio di eguaglianza, la giustificatezza, o no, della scelta legislativa della disciplina non uniforme presuppone necessariamente l’omogeneità delle fattispecie poste in comparazione” (sentenze nn. 282 del 2010 e 161 del 2009; ordinanze nn. 41 del 2009, 71 e 30 del 2007) e “implica la valutazione degli elementi di

109 differenziazione con riguardo alla ratio delle disposizioni censurate, alle finalità perseguite dal legislatore e al più ampio contesto normativo in cui tali disposizioni si collocano”. Così la sentenza n. 32.

Nel “sindacato sulla ragionevolezza della disparità di trattamento tra due fattispecie” è onere del rimettente indicare “un idoneo tertium comparationis” che possa essere utilizzato dalla Corte come “termine di confronto” (ordinanza n. 184).

L’ordinanza n. 3 ha giudicato manifestamente infondata la questione relativa all’art. 4-bis, comma

1-quater, secondo periodo, ord. pen., impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non

equipara, ai fini dell’esonero dall’osservazione scientifica della personalità richiesta per la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare, il delitto di corruzione di minorenne al delitto di violenza sessuale attenuata per la minore gravità del caso, ove il primo, tenendo conto della pena inflitta dal giudice della cognizione, possa essere ritenuto dal tribunale di sorveglianza di minore gravità. La prospettata equiparazione è risultata incongrua, avendo il rimettente erroneamente individuato un tertium comparationis disomogeneo: “diversamente dal reato previsto dall’art. 609-bis, quello previsto dall’art. 609-quinquies si riferisce a un soggetto passivo minore di anni quattordici”. Posto che la violenza sessuale nei confronti dell’infraquattordicenne è prevista dall’art. 609-ter, il quale, in ragione dell’età, configura una circostanza aggravante, “il confronto tra la corruzione di minorenne e la violenza sessuale avrebbe dovuto essere fatto con l’ipotesi di violenza aggravata ai sensi dell’art. 609-ter cod. pen., anziché con quella dell’art. 609-bis”. E nell’ipotesi di violenza aggravata “non è esclusa la necessità dell’osservazione scientifica della personalità per almeno un anno”, così come non è esclusa per la fattispecie degli atti sessuali con minorenne (art. 609-quater cod. pen.).

La sentenza n. 13 ha rigettato la questione di costituzionalità del combinato disposto degli artt. 829, terzo comma, cod. proc. civ. e 27, comma 4, del d.lgs. n. 40 del 2006, censurato, in relazione all’art. 3 Cost., in quanto – prevedendo, secondo il diritto vivente, che il mutato regime di impugnabilità del lodo arbitrale per violazione delle regole di diritto non si applichi ai giudizi arbitrali promossi dopo il 2 marzo 2006, se azionati in forza di convenzione di arbitrato stipulata anteriormente – comporterebbe una disparità di trattamento tra situazioni analoghe. Le fattispecie a confronto non sono state ritenute assimilabili poiché “coloro che hanno stipulato una clausola compromissoria nella vigenza del vecchio testo dell’art. 829, terzo comma, cod. proc. civ., che prevedeva l’impugnabilità del lodo per violazione delle regole di diritto, salvo che le parti non avessero autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile, sono in una situazione obiettivamente diversa rispetto ai contraenti che, dopo il 2 marzo del 2006, vigente la nuova regola posta dall’art. 24 del d.lgs. 40 del 2006, debbono esprimere una specifica volontà per realizzare il medesimo obiettivo dell’impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto.

La sentenza n. 16 ha ritenuto non fondata, per l’erroneità della premessa interpretativa, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, censurato, in relazione all’art. 3, secondo comma, Cost., nella parte in cui prevede che non sia liquidato il compenso al difensore di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato qualora l’impugnazione sia dichiarata inammissibile, senza permettere alcuna distinzione in merito alla causa d’inammissibilità. La ratio della norma consiste nello “scoraggiare la proposizione, a spese dello Stato, di impugnazioni del tutto superflue, meramente dilatorie o improduttive di effetti a favore della parte, il cui esito di inammissibilità sia largamente prevedibile o addirittura previsto prima della presentazione del ricorso”. Tuttavia, il suo tenore letterale “non preclude affatto un’interpretazione che consenta di distinguere tra le cause che determinano l’inammissibilità dell’impugnazione”. L’interpretazione letterale è solo “il primo momento dell’attività interpretativa, che si completa con la ricerca e la verifica delle ragioni e dello scopo per cui la disposizione è stata posta (…). E l’interpretazione basata sulla ratio legis conduce alla conclusione che l’art. 106, comma 1, (…) non ricomprende i casi in cui (…) la ragione dell’inammissibilità risiede in una carenza d’interesse a ricorrere, sopravvenuta per ragioni del tutto imprevedibili al momento della proposizione del ricorso”.

La sentenza n. 20 ha giudicato non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 6 del d.l. n. 201 del 2011, impugnato, in relazione all’art. 3 Cost., in quanto – abrogando la pensione privilegiata per la generalità dei dipendenti pubblici e conservando tale beneficio solo agli appartenenti al comparto

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sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico – determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento. Invero, la disciplina della pensione privilegiata, “contraddistinta da una spiccata specialità sul versante oggettivo e soggettivo, non può assurgere a tertium comparationis, idoneo a giustificare l’estensione della normativa derogatoria a tutti i dipendenti pubblici. Il regime speciale apprestato dal legislatore rispecchia la peculiarità dei comparti difesa, sicurezza, vigili del fuoco e soccorso pubblico, individuati secondo caratteristiche ragionevolmente omogenee, e si raccorda, per un verso, al più elevato livello di rischio ordinariamente connesso al servizio svolto (…) e, per altro verso, alla mancanza di una specifica tutela assicurativa contro gli infortuni per le infermità contratte dai dipendenti di tali settori. Le situazioni poste a raffronto non si prestano, pertanto, a una valutazione comparativa, che imponga l’estensione della disciplina derogatoria”.

La sentenza n. 29 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6-ter del d.l. n. 193 del 2016, censurato dalla Regione Toscana, in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui consente a Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni che utilizzano per la riscossione coattiva l’ingiunzione fiscale di non aderire alla definizione agevolata, mentre non riconosce la stessa facoltà agli enti che utilizzano lo strumento del ruolo esattoriale, attraverso l’agente della riscossione. La disciplina “ha un ambito specifico e limitato” e “trova la sua ratio giustificatrice nell’affidamento della riscossione delle imposte ad Equitalia, prima, e all’ente ad essa succeduto, poi, tramite la emissione di ruoli. Da questo ambito rimane dunque estraneo il sistema dell’ingiunzione, che è gestito dagli enti impositori, direttamente ovvero tramite affidamento a terzi (…). Se ciò nonostante il legislatore statale ha ritenuto di prendere in considerazione anche questa procedura esecutiva, appare corretto che sia stata rimessa agli stessi enti la scelta della estensione o meno della definizione agevolata, oltre alla relativa disciplina, nel rispetto dell’ordinario riparto di competenze”. Il diverso trattamento tra i due metodi di riscossione non ha violato l’art. 3 Cost. “né sotto il profilo della disparità di trattamento, attesa la loro differenza strutturale proprio sul punto qualificante dell’intervento legislativo, né sotto quello della ragionevolezza”.

La sentenza n. 32 ha rigettato la questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 1, lett. d, del d.lgs. n. 122 del 2005, impugnato, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., nella parte in cui – nel definire “immobili da costruire” quelli per i quali sia stato richiesto il permesso di costruire e che siano ancora da edificare o la cui costruzione non risulti essere stata ultimata, versando in stadio tale da non consentire ancora il rilascio del certificato di agibilità – esclude dall’ambito applicativo della normativa di protezione ivi introdotta i contratti di acquisto di immobili per i quali non sia stata ancora presentata alcuna richiesta di permesso di costruire. La normativa “persegue la finalità di approntare una garanzia specifica dell’affidamento, meritevole di tutela, che l’acquirente ripone nell’effettiva realizzazione (o completamento, se già iniziata) della costruzione dell’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita; affidamento indotto dalla circostanza dell’intervenuto rilascio del permesso di costruire o almeno della già presentata richiesta per il suo ottenimento”. Nelle due ipotesi “l’offerta di vendita dell’immobile da costruire si presenta incanalata nel binario rispettivamente, in un caso, della già verificata compatibilità con gli strumenti urbanistici, nell’altro caso dell’attivazione del procedimento amministrativo diretto ad operare tale verifica. Questo contesto di legalità sotto l’aspetto urbanistico, che aggiunge una qualitas alla cosa futura promessa in vendita, costituisce di per sé un fattore rassicurante ed un indiretto incentivo all’acquisto per il promittente acquirente, persona fisica, radicando in quest’ultimo un affidamento maggiore nella determinazione di assentire l’impegno contrattuale di acquisto dell’immobile da costruire assumendone i relativi oneri”. Il legislatore ha approntato una specifica tutela di questo affidamento, prescrivendo, in particolare, l’obbligo del costruttore di prestare garanzia fideiussoria, che necessariamente deve accompagnarsi alla compravendita, a pena di nullità del contratto deducibile dall’acquirente. L’apparato di garanzie “esprime anzi tutto una tutela ulteriore e specifica rispetto a quella approntata dal codice del consumo (…) anche in un’ottica di responsabilizzazione del promittente acquirente a favore di iniziative edilizie già portate all’esame dell’autorità competente (…). Inoltre promuove indirettamente la stessa attività edilizia del costruttore promittente alienante che sia rispettosa delle regole di governo del territorio”. Il dato caratterizzante della fattispecie disciplinata è costituito dalla sua “collocazione nell’alveo del prescritto procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire e quindi di verifica della compatibilità di ciò che l’imprenditore sta costruendo – o si accinge a costruire – con la vigente normativa urbanistica. Ciò rappresenta l’elemento differenziale rispetto alla diversa fattispecie dell’immobile da costruire per il quale non sia stato nemmeno richiesto il relativo permesso e che pertanto non vede sorgere nel promittente acquirente quel particolare affidamento

111 nel contesto di legalità in cui si colloca l’iniziativa imprenditoriale di costruzione dell’immobile ove almeno tale permesso sia già stato richiesto”. L’acquisto di immobili da costruire “sulla carta” si connota come “operazione economica maggiormente rischiosa – ma non perciò illecita, né meramente aleatoria – per il promittente acquirente, che di ciò non può non essere consapevole anche al di là di specifici oneri informativi ove il contratto ricada nell’ambito di applicazione del codice del consumo. La tutela è quella codicistica e segnatamente la nullità del contratto (…) ordinaria ai sensi dell’art. 1472, secondo comma, cod. civ. laddove la cosa non viene ad esistenza. Ed è tale elemento, complessivamente valutato, che differenzia le fattispecie oggetto della comparazione posta dal giudice rimettente – quella oggetto del giudizio a quo e quella dedotta come tertium comparationis – sì da poterle conclusivamente valutare come non omogenee rispetto al principio di eguaglianza”, con la conseguenza che “non ingiustificata è la diversità di disciplina” denunciata. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore “perimetrare l’apparato delle garanzie” riferendone l’applicazione alla compravendita di immobili la cui futura costruzione già si collochi nell’alveo del rispetto della normativa urbanistica, senza che dal principio di eguaglianza “possa farsi derivare un’esigenza costituzionale di parificazione mediante l’estensione delle stesse garanzie anche alla diversa fattispecie della vendita di immobili da costruire per i quali non sia stato neppure richiesto il relativo permesso”.

La sentenza n. 33 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.

12-sexies, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui –

includendo la ricettazione tra i delitti per i quali, in caso di condanna o patteggiamento, è sempre disposta la speciale confisca allargata avente ad oggetto denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona, risulta essere titolare o avere la disponibilità in valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica – equiparerebbe irragionevolmente ipotesi fortemente eterogenee sul piano dell’idoneità a fondare una presunzione di pericolosità sociale. Invero, la presunzione di origine illecita dei beni del condannato, su cui si fonda la misura volta ad aggredire patrimoni illecitamente costituiti, insorge “non per effetto della mera condanna, ma unicamente ove si appuri – con onere probatorio a carico della pubblica accusa – la sproporzione tra detti beni e il reddito dichiarato o le attività economiche del condannato”, che “non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e significativo, da verificare con riferimento al momento dell’acquisizione dei singoli beni”. La presunzione, d’altra parte, è solo relativa, rimanendo confutabile dal condannato tramite la giustificazione della provenienza dei cespiti; e rimane comunque circoscritta in un ambito di ragionevolezza temporale. In altri termini, il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare “talmente lontano dall’epoca di realizzazione del reato spia da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna”. I requisiti della sproporzione e della ragionevolezza temporale rispondono all’esigenza di evitare un’abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto e permettono di valorizzare le diverse caratteristiche della singola vicenda concreta e il grado di pericolosità sociale rivelato dallo specifico fatto. Pertanto, quando si discuta di reati, come la ricettazione, che, per loro natura, non implicano un programma criminoso dilatato nel tempo e che non risultino altresì commessi in un ambito di criminalità organizzata, il giudice conserva la possibilità di verificare se, in relazione alle circostanze del caso concreto e alla personalità del suo autore, il fatto per cui è intervenuta condanna esuli in modo manifesto dal modello che vale a fondare la presunzione di illecita accumulazione di ricchezza.

La sentenza n. 34 ha rigettato la questione di costituzionalità dell’art. 83 cod. proc. pen., censurato, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di citare in giudizio il proprio assicuratore, quando questo sia responsabile civile ex lege per danni derivanti da attività professionale. La Corte non ha ritenuto estensibile all’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile del notaio la ratio decidendi della sentenza n. 112 del 1998 che ha giudicato lesiva dell’art. 3 Cost. la denunciata disposizione nella parte in cui non prevedeva che, nel caso di responsabilità civile derivante dall’assicurazione obbligatoria per la circolazione dei veicoli, l’assicuratore potesse essere citato nel processo penale dall’imputato. La posizione dell’assicuratore della responsabilità civile automobilistica possiede specifiche caratteristiche che la rendono del tutto peculiare: il danneggiato ha azione diretta nei suoi confronti, vi è litisconsorzio necessario tra responsabile e assicuratore nel giudizio promosso contro quest’ultimo e il danneggiante convenuto in sede civile ha la possibilità di chiamare in causa l’assicuratore. La garanzia assicurativa per la circolazione svolge una funzione plurima di diretta

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salvaguardia sia della vittima che del danneggiante e l’assicuratore assume la posizione di garanzia per il fatto altrui presupposta dall’art. 185, secondo comma, cod. pen. Perciò, la sentenza del 1998 ha disposto “l’allineamento, anche in sede penale, dei poteri processuali di chiamata riconosciuti in sede civile, onde evitare che l’effettività della predetta funzione venga pregiudicata dalla scelta del danneggiato di far valere la sua pretesa risarcitoria mediante costituzione di parte civile nel processo penale, anziché nella sede naturale”. In seguito, la sentenza n. 75 del 2001 e l’ordinanza n. 300 del 2004 hanno negato l’estensibilità del decisum ad altre ipotesi di responsabilità civile ex lege per fatto altrui, in cui non risultano riscontrabili le peculiarità della responsabilità civile automobilistica, o all’assicurazione facoltativa. L’assicurazione del notaio è un’assicurazione obbligatoria che, “se per un verso garantisce, come ogni altra, l’assicurato, per altro verso è destinata – negli intenti del legislatore – a tutelare anche l’interesse del terzo danneggiato dall’attività notarile alla certezza del ristoro del pregiudizio patito”. Tuttavia, “il legislatore non si è spinto sino a prevedere la possibilità di un’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, analoga a quella che contraddistingue la responsabilità civile automobilistica”: elemento dirimente al fine di “escludere che la posizione dell’assicuratore possa essere inquadrata nel paradigma del responsabile civile ex lege”.

La configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione della pena “costituiscono materia affidata alla discrezionalità del legislatore, involvendo apprezzamenti tipicamente politici. Le scelte legislative sono pertanto censurabili, in sede di sindacato di legittimità costituzionale, solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio” (sentenze nn. 179 del 2017, 236 e 148 del 2016, 273 e 47 del 2010; ordinanza n. 71 del 2007), “come avviene quando ci si trovi a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione” (sentenze nn. 56 e 23 del 2016, 81 del 2014, 68 del 2012; ordinanza n. 30 del 2007). “Il confronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte legislative, presuppone, dunque, necessariamente l’omogeneità delle ipotesi poste in comparazione” (sentenza n. 161 del 2009; ordinanza n. 41 del 2009). Così la sentenza n. 35 che ha giudicato non fondata la questione riguardante l’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000 (nel testo anteriore alle modifiche operate dal d.lgs. n. 158 del 2015), impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto – indicando per il delitto di indebita compensazione il limite di punibilità in 50.000 anziché 150.000 euro annui – darebbe luogo a un trattamento ingiustificatamente deteriore rispetto al reato di dichiarazione infedele, punito dal precedente art. 4 più severamente, quanto ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.lgs. del 2015, e ritenuto di identico disvalore. Invero, le figure criminose in comparazione sono risultate “eterogenee per oggetto materiale, condotta tipica e (…) per sfera di tutela”. L’art. 4 punisce il contribuente che, al fine di evadere le imposte dirette o l’IVA, indichi nelle relative dichiarazioni annuali elementi attivi inferiori a quelli effettivi o elementi passivi inesistenti; l’art. 10-quater punisce chi omette di versare somme dovute mediante l’abusivo utilizzo dell’istituto della compensazione tributaria, attuato tramite l’inserimento di crediti non spettanti o inesistenti nel modello di pagamento unitario. “È dunque diverso, anzitutto, l’oggetto materiale dei due illeciti. Nel primo caso, il mendacio del contribuente si esprime nella dichiarazione annuale relativa alle imposte sui redditi o all’IVA; nell’altro, in un documento fiscale con distinte caratteristiche e funzioni, quale il cosiddetto modello F24”. Per quanto riguarda la condotta tipica, l’esposizione di crediti di imposta inesistenti non è inclusa nella sfera applicativa della dichiarazione infedele; inoltre, “la sola compensazione ammessa in sede di presentazione della dichiarazione annuale relativa alle imposte sui redditi o all’IVA è quella verticale: laddove, invece, in sede di versamento unitario, può procedersi anche (…) alla compensazione orizzontale, ossia tra imposte diverse”. Infine, risponde di indebita compensazione non solo “chi ometta di versare imposte dirette o l’IVA utilizzando indebitamente in compensazione crediti concernenti altre imposte (anche regionali) o crediti di natura previdenziale, ma anche chi si avvalga di analogo artificio per evitare di corrispondere tali ultime imposte ovvero contributi dovuti ad enti di previdenza. (…) anche sul piano della sfera applicativa, la fattispecie dell’indebita compensazione risulterebbe, dunque, eterogenea rispetto a quella della dichiarazione infedele, il cui perimetro di tutela è ristretto alla sola imposizione diretta e sul valore aggiunto”. “In difetto della necessaria omogeneità tra le fattispecie criminose”, nessun argomento a sostegno della tesi del rimettente si è potuto trarre dall’analisi delle rispettive pene edittali. “La quantificazione delle soglie di punibilità risponde, infatti, a logiche distinte e non sovrapponibili a quelle che presiedono al dosaggio delle pene. Resta quindi escluso, in linea generale, che possa postularsi un principio di necessaria proporzionalità tra il livello delle soglie di rilevanza penale del fatto e l’intensità della risposta sanzionatoria”. Nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore del 2015, pur diversificando

113 nettamente il trattamento sanzionatorio dell’indebita compensazione secondo che siano utilizzati crediti non spettanti o inesistenti, ha mantenuto invariata per entrambe le ipotesi la medesima soglia di punibilità, senza che in ciò possa scorgersi alcuna violazione del principio di eguaglianza”. Se anteriormente al d.lgs.

Nel documento Giurisprudenza costituzionale dell'anno 2018 (pagine 107-121)