I rapporti etico sociali
5. Il diritto alla salute
5.1. La prevenzione e il principio di precauzione
“A fronte di una copertura vaccinale insoddisfacente nel presente e incline alla criticità nel futuro, questa Corte ritiene che rientri nella discrezionalità – e nella responsabilità politica – degli organi di governo apprezzare la sopraggiunta urgenza di intervenire, alla luce dei nuovi dati e dei fenomeni epidemiologici frattanto emersi, anche in nome del principio di precauzione che deve presidiare un ambito così delicato per la salute di ogni cittadino come è quello della prevenzione” (sentenza n. 5).
5.2. Il diritto alla cura efficace, in condizione di eguaglianza in tutto il Paese
“Questa Corte ha già chiarito che il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica (sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002) deve essere garantito in condizione di eguaglianza in tutto il paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale. Tale principio vale non solo (come ritenuto nelle sentenze appena citate) per le scelte dirette a limitare o a vietare determinate terapie o trattamenti sanitari, ma anche per l’imposizione di altri. Se è vero che il «confine tra le terapie ammesse e terapie non ammesse, sulla base delle acquisizioni scientifiche e sperimentali, è determinazione che investe direttamente e necessariamente i principi fondamentali della materia» (sentenza n. 169 del 2017), a maggior ragione, e anche per ragioni di eguaglianza, deve essere riservato allo Stato – ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. – il compito di qualificare come obbligatorio un determinato trattamento sanitario, sulla base dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili”. Così la sentenza n. 5.
5.3. La flessibilità della normativa in campo sanitario in funzione dell’evoluzione delle conoscenze medico-scientifiche
“Nel presente contesto (…) il legislatore ha ritenuto di dover rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, configurando un intervento non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche. Nulla esclude che, mutate le condizioni, la scelta possa essere rivalutata e riconsiderata. In questa prospettiva di valorizzazione della dinamica evolutiva propria delle conoscenze medico-scientifiche che debbono sorreggere le scelte normative in campo sanitario, il legislatore – ai sensi dell’art. 1, comma 1-ter del decreto-legge n. 73 del 2017, come convertito – ha opportunamente introdotto in sede di conversione un sistema di monitoraggio periodico che può sfociare nella cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini (…). Questo elemento di flessibilizzazione della normativa, da attivarsi alla luce dei dati emersi nelle sedi scientifiche appropriate, denota che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso”. Così la sentenza n. 5, che ha ritenuto non fondate le censure proposte dalla Regione Veneto sul d.l. n. 73 del 2017, sull’obbligo vaccinale dei minori.
5.4. Le vaccinazioni obbligatorie per i minori
La sentenza n. 5 ha dichiarato non fondate, in riferimento a tutte le censure, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1, 1-bis, 1-ter, 2, 3, 4 e 6-ter; 3; 3-bis; 4; 5; 5-quater e 7 del d.l. n. 73 del 2017, promosse dalla Regione Veneto, in relazione all’introduzione di dieci (inizialmente dodici) vaccinazioni obbligatorie per i minori fino a sedici anni di età, inclusi i minori stranieri non accompagnati, stabilendo, per i casi di inadempimento, sanzioni amministrative pecuniarie e il divieto di accesso ai servizi educativi per l’infanzia. La Regione contesta l’asserita repentina introduzione degli obblighi, ritenendo che il legislatore non abbia bilanciato in modo equilibrato, conformemente al principio di proporzionalità, la tutela della salute, collettiva e individuale, e l’autodeterminazione
193 personale in materia sanitaria, garantita dagli artt. 2, 3 e 32 Cost., nonché dagli artt. 1 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dall’art. 8 della Convenzione EDU, e dagli artt. 5, 6 e 9 della Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina. Ad avviso della ricorrente, la normativa censurata, per conseguire gli auspicati obiettivi di prevenzione sanitaria, adotta misure più severe di quelle che sarebbero strettamente necessarie, prevedendo l’obbligo anziché la persuasione; le sanzioni sarebbero o non realmente dissuasive ovvero eccessive; sarebbe violato il principio di precauzione, mancando una previa accurata valutazione della situazione epidemiologica ed una apposita sperimentazione (la Regione afferma che le norme censurate avrebbero introdotto «una sorta di grottesca “sperimentazione di massa” obbligatoria (…), senza il sostegno di un preventivo sistema di farmacovigilanza e senza una supervisione bioetica»). La Corte, preliminarmente, ripercorre la sua giurisprudenza in materia di vaccinazioni, secondo cui: a) l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività (da ultimo sentenza n. 268 del 2017), nonché, nel caso di vaccinazioni obbligatorie, con l’interesse del bambino, che esige tutela anche nei confronti dei genitori che non adempiono ai loro compiti di cura (ex multis, sentenza n. 258 del 1994); b) la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili, e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990). La Corte constata, poi, che i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici (la libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie, la tutela della salute individuale e collettiva, l’interesse del minore) e che il contemperamento di questi molteplici principi lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo. Questa discrezionalità deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (sentenza n. 268 del 2017), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia (sentenza n. 282 del 2002). Di poi, la Corte passa in rassegna la varietà di approcci che emerge sul tema nel diritto comparato ed illustra l’evoluzione della legislazione italiana in materia, in cui si registra il susseguirsi di politiche vaccinali di vario segno, incentrate talvolta più sull’obbligo talaltra più sulla raccomandazione. Dopo aver rilevato che negli anni più recenti, si è assistito a una flessione preoccupante delle coperture, alimentata anche dal diffondersi della convinzione – priva di basi scientifiche – che le vaccinazioni siano inutili, se non addirittura nocive, la Corte afferma che oggi si assiste a una inversione di tendenza – dalla raccomandazione all’obbligo di vaccinazione – in cui si inserisce anche la normativa oggetto del presente giudizio. Tutto ciò considerato, la Corte così riconosce la ragionevolezza della disciplina censurata: “Valutata alla luce del contesto descritto nei suoi tratti essenziali, la scelta del legislatore statale non può essere censurata sul piano della ragionevolezza per aver indebitamente e sproporzionatamente sacrificato la libera autodeterminazione individuale in vista della tutela degli altri beni costituzionali coinvolti, frustrando, allo stesso tempo, le diverse politiche vaccinali implementate dalla ricorrente. Il legislatore, infatti, intervenendo in una situazione in cui lo strumento della persuasione appariva carente sul piano della efficacia, ha reso obbligatorie dieci vaccinazioni: meglio, ha riconfermato e rafforzato l’obbligo, mai formalmente abrogato, per le quattro vaccinazioni già previste dalle leggi dello Stato, e l’ha introdotto per altre sei vaccinazioni che già erano tutte offerte alla popolazione come “raccomandate”. Non è corretto, dunque, affermare – come fa la ricorrente – che la legge ha repentinamente introdotto dal nulla l’imposizione di un ampio numero di vaccinazioni; essa ha invece innovato il titolo giuridico in nome del quale alcune vaccinazioni sono somministrate, avendo reso obbligatorio un certo numero di vaccinazioni che in precedenza erano, comunque, già raccomandate. Indubbiamente, il vincolo giuridico si è fatto più stringente: ciò che in precedenza era raccomandato, oggi è divenuto obbligatorio. Ma nel valutare l’intensità di tale cambiamento – ai fini del giudizio sulla ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore con il decreto-legge n. 73 del 2017 e della conseguente compressione dell’autonomia regionale – occorre peraltro tenere presenti due ordini di considerazioni. Il primo è che nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra
194
raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo (tanto che sul piano del diritto all’indennizzo le vaccinazioni raccomandate e quelle obbligatorie non subiscono differenze: si veda la sentenza n. 268 del 2017). In quest’ottica, occorre considerare che, anche nel regime previgente, le vaccinazioni non giuridicamente obbligatorie erano comunque proposte con l’autorevolezza propria del consiglio medico. Il secondo è che nel nuovo assetto normativo, basato, come si è detto sull’obbligatorietà (giuridica), il legislatore in sede di conversione ha ritenuto di dover preservare un adeguato spazio per un rapporto con i cittadini basato sull’informazione, sul confronto e sulla persuasione: in caso di mancata osservanza dell’obbligo vaccinale, l’art. 1 comma 4 del d.l. n. 73 del 2017, prevede un procedimento volto in primo luogo a fornire ai genitori (o agli esercenti la potestà genitoriale) ulteriori informazioni sulle vaccinazioni e a sollecitarne l’effettuazione. A tale scopo, il legislatore ha inserito un apposito colloquio tra le autorità sanitarie e i genitori, istituendo un momento di incontro personale, strumento particolarmente favorevole alla comprensione reciproca, alla persuasione e all’adesione consapevole. Solo al termine di tale procedimento, e previa concessione di un adeguato termine, potranno essere inflitte le sanzioni amministrative previste, peraltro assai mitigate in seguito agli emendamenti introdotti in sede di conversione. Nel presente contesto, dunque, il legislatore ha ritenuto di dover rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale, configurando un intervento non irragionevole allo stato attuale delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche. Nulla esclude che, mutate le condizioni, la scelta possa essere rivalutata e riconsiderata. In questa prospettiva di valorizzazione della dinamica evolutiva propria delle conoscenze medico-scientifiche che debbono sorreggere le scelte normative in campo sanitario, il legislatore – ai sensi dell’art. 1, comma 1-ter, del d.l. n. 73 del 2017 – ha opportunamente introdotto in sede di conversione un sistema di monitoraggio periodico che può sfociare nella cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini (e segnatamente di quelli elencati all’art. 1, comma 1-bis: morbillo, rosolia, parotite, anti-varicella). Questo elemento di flessibilizzazione della normativa, da attivarsi alla luce dei dati emersi nelle sedi scientifiche appropriate, denota che la scelta legislativa a favore dello strumento dell’obbligo è fortemente ancorata al contesto ed è suscettibile di diversa valutazione al mutare di esso”.
5.5. La libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie (l’incriminazione dell’aiuto al suicidio)
Si veda, in relazione all’ordinanza n. 207, la voce L’incriminazione dell’aiuto al suicidio, funzionale
alla tutela del diritto alla vita, specialmente delle persone più deboli e vulnerabili – Invito al legislatore a tutelare l’autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, anche finalizzate a liberarlo dalle sofferenze per una morte ritenuta dignitosa in I principi civili – I principi costituzionali in materia penale – I reati.
6. La disabilità
6.1. Il congedo straordinario retribuito concesso al figlio per l’assistenza al genitore gravemente disabile (estensione del beneficio al figlio che instauri la convivenza con il genitore successivamente alla presentazione della richiesta)
La sentenza n. 232 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 2, 3, 29 e 32 Cost., dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non includeva nel novero dei legittimati a fruire del congedo ivi previsto, e alle condizioni stabilite dalla legge, il figlio che, al momento della presentazione della richiesta, ancora non convivesse con il genitore gravemente disabile, ma che tale convivenza successivamente instaurasse, in caso di mancanza, decesso o patologie invalidanti del coniuge convivente, del padre e della madre, anche adottivi, dei figli conviventi, dei fratelli e delle sorelle conviventi, dei parenti o affini entro il terzo grado conviventi, legittimati a richiedere il beneficio in via prioritaria secondo l’ordine normativamente determinato. L’istituto del congedo straordinario, “circoscritto a ipotesi tassative e contraddistinto da presupposti rigorosi”, è previsto per l’assistenza a persona in condizioni di disabilità grave debitamente accertata. Esso non può superare la durata complessiva di due anni per ciascuna persona portatrice di handicap ed è retribuito con un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione, configurandosi come un periodo di sospensione del rapporto di lavoro coperto da contribuzione figurativa. Sul versante soggettivo, il congedo spetta, in primo luogo, al coniuge convivente, legittimato a goderne entro sessanta giorni della richiesta; in caso di mancanza,
195 decesso o patologie invalidanti del coniuge convivente, subentrano il padre o la madre anche adottivi. La mancanza, il decesso o le patologie invalidanti dei genitori conferiscono a uno dei figli conviventi il diritto di richiedere il congedo straordinario, che è poi riconosciuto in favore di uno dei fratelli o delle sorelle conviventi quando anche i figli conviventi manchino, siano deceduti o soffrano di patologie invalidanti. L’ambito di applicazione dell’istituto è stato progressivamente esteso per impulso della giurisprudenza costituzionale e del legislatore che ne ha recepito le indicazioni. In particolare, la Corte ha ampliato la platea dei beneficiari, includendovi dapprima i fratelli o le sorelle conviventi con il disabile, anche nell’ipotesi in cui i genitori siano impossibilitati a provvedere all’assistenza del figlio perché a loro volta inabili (sentenza n. 233 del 2005), e successivamente, in via prioritaria rispetto agli altri congiunti, il coniuge convivente (sentenza n. 158 del 2007), il figlio convivente, nell’ipotesi di assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura del disabile (sentenza n. 19 del 2009), e, da ultimo, i parenti o gli affini entro il terzo grado conviventi, in caso di mancanza, decesso o patologie invalidanti degli altri legittimati (sentenza n. 203 del 2013). Il congedo, “originariamente concepito come strumento di tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori di handicap grave”, “ha finito così con l’assumere una portata via via più ampia, in armonia con l’esigenza di salvaguardare la cura del disabile nell’ambito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene” e di “tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione” (sentenza n. 158 del 2018). “Nell’estendere il congedo straordinario oltre l’originaria cerchia dei genitori, il legislatore ha attribuito rilievo esclusivo alla preesistente convivenza con il disabile, al fine di salvaguardare quella continuità di relazioni affettive e di assistenza che trae origine da una convivenza già in atto. La convivenza non si esaurisce in un dato meramente formale e anagrafico, ma esprime, nella quotidiana condivisione dei bisogni e del percorso di vita, una relazione di affetto e di cura. Tale presupposto, ispirato a una finalità di preminente tutela del disabile, rischia nondimeno, per una sorta di eterogenesi dei fini, di pregiudicarlo, quando manchino i familiari conviventi indicati in via prioritaria dalla legge e vi sia solo un figlio, all’origine non convivente, pronto a impegnarsi per prestare la necessaria assistenza. In questa specifica circostanza, l’ancoraggio esclusivo al criterio della convivenza finisce con il vanificare la finalità del congedo straordinario. Quest’ultimo mira a colmare le lacune di tutela e a far fronte alle emergenti situazioni di bisogno e alla crescente richiesta di cura che origina, tra l’altro, dai cambiamenti demografici in atto, in particolare, a quelle situazioni di disabilità che si possono verificare in dipendenza di eventi successivi alla nascita o in esito a malattie di natura progressiva o, ancora, a causa del naturale decorso del tempo (…). Un criterio selettivo così congegnato compromette il diritto del disabile di ricevere la cura necessaria dentro la famiglia, proprio quando si venga a creare una tale lacuna di tutela e il disabile possa confidare – come extrema ratio – soltanto sull’assistenza assicurata da un figlio ancora non convivente al momento della richiesta di congedo. Tali situazioni sono ugualmente meritevoli di adeguata protezione, poiché riflettono i mutamenti intervenuti nei rapporti personali e le trasformazioni che investono la famiglia, non sempre tenuta insieme da un rapporto di prossimità quotidiana, ma non per questo meno solida nel suo impianto solidaristico. Può dunque accadere che la convivenza si ristabilisca in occasione di eventi che richiedono la vicinanza (…) quale presupposto per elargire la cura al disabile. Il ricomporsi del nucleo familiare si caratterizza in questi casi per un ancor più accentuato vincolo affettivo. Il requisito della convivenza ex ante, inteso come criterio prioritario per l’identificazione dei beneficiari del congedo, si rivela idoneo a garantire, in linea tendenziale, il miglior interesse del disabile. Tale presupposto, tuttavia, non può assurgere a criterio indefettibile ed esclusivo, così da precludere al figlio, che intende convivere ex post, di adempiere in via sussidiaria e residuale i doveri di cura e di assistenza, anche quando nessun altro familiare convivente, pur di grado più lontano, possa farsene carico”. La preclusione sacrificava in maniera irragionevole e sproporzionata l’effettività dell’assistenza e dell’integrazione del disabile nella famiglia. “Il figlio che abbia conseguito il congedo straordinario ha (…) l’obbligo di instaurare una convivenza che garantisca al genitore disabile un’assistenza permanente e continuativa”.
7. L’assistenza
7.1. L’erogazione di provvidenze o sovvenzioni direttamente da parte dello Stato in materie di competenza regionale (diritti fondamentali strettamente inerenti alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana)
“Come affermato dalla costante giurisprudenza costituzionale, solo in circostanze eccezionali, quando ricorrano imperiose necessità sociali, la potestà statale in questione può consentire l’erogazione di
196
provvidenze ai cittadini o la gestione di sovvenzioni direttamente da parte dello Stato in materie di competenza regionale (sentenze n. 192 del 2017, n. 273 e n. 62 del 2013, n. 203 del 2012, n. 121 e n. 10 del 2010). In particolare, ha scritto questa Corte, quando ciò «[…] risulti necessario allo scopo di assicurare effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in quanto strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana, soprattutto in presenza delle peculiari situazioni sopra accennate, deve potere essere garantito su tutto il territorio nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo, mediante una regolamentazione coerente e congrua rispetto a tale scopo» (sentenza n. 10 del 2010)”. Così la sentenza n. 87.
7.2. L’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica
Si veda, in relazione alla sentenza n. 106, la corrispondente voce infra in Lo straniero. 7.3. L’accesso agli asili nido pubblici
In linea di principio, “se al legislatore, sia statale che regionale (e provinciale), è consentito introdurre una disciplina differenziata per l’accesso alle prestazioni assistenziali al fine di conciliare la massima fruibilità dei benefici previsti con la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili”, tuttavia “la legittimità di una simile scelta non esclude che i canoni selettivi adottati debbano comunque rispondere al principio di ragionevolezza” (sentenza n. 133 del 2013) ed essere “in ogni caso coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto principale di fruibilità delle provvidenze” (sentenze nn. 168 del 2014 e 40 del 2011). L’introduzione di regimi differenziati “è consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioè giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio” (sentenza n. 172 del 2013). Mentre la residenza “costituisce, rispetto a una provvidenza regionale, un criterio non irragionevole per l’attribuzione del beneficio (sentenza n. 432 del 2005), non altrettanto può dirsi quanto alla residenza protratta per un predeterminato e significativo periodo minimo di tempo (…). La previsione di un simile requisito, infatti, ove di carattere generale e dirimente, non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari, non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben possono connotare la domanda di