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La ragionevolezza delle scelte sanzionatorie del legislatore

Nel documento Giurisprudenza costituzionale dell'anno 2018 (pagine 149-154)

Principi fondamentali 1. Il diritto alla vita (non comprende il diritto a morire)

7.2. I principi di ragionevolezza e di proporzionalità

7.2.5. La ragionevolezza delle scelte sanzionatorie del legislatore

Nei limiti del “controllo costituzionale di proporzionalità (che vieta risposte sanzionatorie nel complesso palesemente sproporzionate), il legislatore è libero di cumulare sanzioni di genere diverso per il medesimo fatto” (sentenza n. 43).

Ai fini del “giudizio sulla ragionevolezza intrinseca della cornice edittale” disegnata da una norma incriminatrice, è onere del rimettente indicare un “idoneo tertium comparationis” che “individui una

151 soluzione sanzionatoria già operante nell’ordinamento, la quale permetta alla Corte (…) di intervenire senza indebitamente interferire nella sfera delle scelte di politica sanzionatoria rimesse al legislatore” (ordinanza n. 184).

La sentenza n. 111 ha dichiarato non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 15, cod. strada, impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto – prevedendo, in caso di protrazione della sosta limitata o regolamentata, la sanzione da 25 a 100 euro per ogni periodo oltre il quale si protrae la violazione – detterebbe una disciplina irragionevolmente gravosa e sproporzionata rispetto a quella stabilita per la protrazione della sosta permanentemente vietata per la quale la sanzione amministrativa si applica per ogni periodo di ventiquattro ore. Un’interpretazione costituzionalmente orientata ha indotto a ritenere che il periodo di protrazione della violazione, che consente la reiterazione della sanzione, non si riferisce alla sosta autorizzata per il periodo determinato dal pagamento effettuato dall’utente o indicato nel disco orario esposto. I regolamenti comunali disciplinano la sosta autorizzandola in determinate fasce orarie della giornata, nelle quali vigono i limiti imposti per la sosta regolamentata o limitata. Pertanto, è ragionevole riferire il periodo di cui al comma censurato alla protrazione della sosta oltre la fascia di vigenza giornaliera o infragiornaliera della sosta, limitata o regolamentata, come determinata dai regolamenti comunali. Non è la concreta specifica limitazione del disco orario o della tariffa selezionata dall’utente a determinare il periodo oltre il quale deve essere irrogata la sanzione, bensì la protrazione oltre la fascia oraria della sosta limitata o regolamentata, cioè oltre il complessivo periodo fissato dai regolamenti comunali. “Le sanzioni per le violazioni così intese saranno certamente più gravose rispetto a quella relativa alla violazione del divieto di sosta permanente, ma sicuramente non sproporzionate; invero, mentre la sanzione per la protrazione del divieto di sosta permanente può essere reiterata ogni ventiquattro ore, quella relativa alla sosta limitata o regolamentata è irrogabile alla fine di ogni fascia oraria, verosimilmente due volte al giorno in caso di due fasce di regolamentazione giornaliere”.

La discrezionalità legislativa in materia di prescrizione penale “deve essere esercitata (…) sempre nei limiti del rispetto del principio di ragionevolezza e in modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee”. Così la sentenza n. 112 che ha rigettato le questioni di costituzionalità dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., impugnato, in relazione all’art. 3 Cost., in quanto – raddoppiando il termine di prescrizione dei reati di frana colposa e naufragio colposo – irragionevolmente equiparerebbe il termine prescrizionale di tali fattispecie colpose a quello stabilito per le corrispondenti figure dolose (12 anni), benché punite più severamente per il loro maggior disvalore. La Corte non ha ritenuto estensibili gli argomenti impiegati dalla sentenza n. 143 del 2014 per giudicare illegittima l’applicazione del meccanismo del raddoppio del termine prescrizionale alla fattispecie di incendio colposo, che determinava un irragionevole ribaltamento della scala di gravità dei reati per cui l’ipotesi dolosa si prescriveva in minor tempo di quella colposa. Un simile assetto non poteva giustificarsi né con considerazioni legate al grado di allarme sociale, essendo impensabile che un incendio colposo resista all’oblio nella coscienza sociale più a lungo dello stesso fatto doloso, né con ragioni probatorie, essendo insostenibile che causare un incendio con colpa, anziché con dolo, innalzi verticalmente, nella generalità dei casi, il tasso di complessità dell’attività di accertamento dell’illecito. Le ipotesi di frana e naufragio colposi hanno rivelato “un evidente tratto differenziale” rispetto a quella già scrutinata dell’incendio. “Stante il livello delle pene edittali, il meccanismo del raddoppio rende il termine di prescrizione dei delitti in parola, non già nettamente più lungo (com’era per l’incendio), ma esattamente uguale a quello dei corrispondenti delitti dolosi”: la frana dolosa si prescrive in dodici anni (massimo edittale della pena) e lo stesso tempo occorre per la prescrizione della frana colposa, per effetto del raddoppio del termine minimo di sei anni di prescrizione dei delitti; anche per il naufragio, ove riguardante nave non adibita a trasporto di persone, sia la fattispecie dolosa che quella colposa si prescrivono in dodici anni. Richiamando la sentenza n. 265 del 2017, di rigetto di analoghe questioni riguardanti il delitto di crollo di costruzioni o altro disastro colposo, il Collegio ha escluso che vi fosse un’esigenza costituzionale inderogabile di stabilire “per l’ipotesi colposa un termine diverso e più breve di quello valevole per la versione dolosa del medesimo reato. In effetti, l’equiparazione del termine prescrizionale delle due forme di realizzazione dello stesso delitto – dolosa e colposa – non rappresenta affatto una anomalia introdotta per la prima volta dalla legge n. 251 del 2005” di riforma della prescrizione. “Al contrario, il fenomeno era già ampiamente noto al sistema anteriore”, ispirato al criterio delle fasce di gravità dei reati. Anche nel nuovo sistema, fondato sulla regola unitaria che correla il tempo

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di prescrizione al massimo edittale di pena, “permane (…) un ragguardevole numero di casi di equiparazione”, “segnatamente per effetto della soglia dei sei anni, quale termine minimo di prescrizione dei delitti”: nelle numerose ipotesi in cui le pene massime del delitto doloso e del suo omologo colposo, pur sensibilmente differenziate, non eccedano i sei anni, entrambe le fattispecie si prescrivono nello stesso tempo. Del resto, a “differenziare la fattispecie dolosa da quella colposa, assicurando la proporzionalità del trattamento sanzionatorio al disvalore del fatto, provvede la pena” e non è imprescindibile che alla diversificazione delle risposte punitive si coniughi, sempre e comunque, quello dei termini di prescrizione. Infatti, il legislatore può ritenere, nella sua discrezionalità, che “in rapporto a determinati delitti colposi la resistenza all’oblio nella coscienza sociale e la complessità dell’accertamento dei fatti siano omologabili a quelle della corrispondente ipotesi dolosa, giustificando, con ciò, la sottoposizione di entrambi ad un identico termine prescrizionale”, anche in deroga alla disciplina generale. Pertanto, è rimasta nel confine del legittimo e ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa la previsione di un regime che implica la semplice equiparazione dei termini prescrizionali dell’ipotesi colposa e di quella dolosa, e non già l’ingiustificabile scavalcamento del termine fissato per quest’ultima. I delitti di frana e naufragio colposi “individuano disastri (…) idonei anch’essi a suscitare, pur quando provocati colposamente, un marcato allarme sociale e forieri, al tempo stesso, nella generalità dei casi, di problematiche assai complesse sul piano dell’accertamento (…). Anche con riferimento alle figure delittuose in discorso ben si giustifica, quindi, l’intento del legislatore di evitare, tramite il meccanismo del raddoppio, che le nuove regole introdotte nel 2005 provocassero una energica compressione dei termini prescrizionali”.

In materia penale, la prescrizione “deve essere considerata un istituto sostanziale, che il legislatore può modulare attraverso un ragionevole bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse a perseguire i reati fino a quando l’allarme sociale indotto dal reato non sia venuto meno (potendosene anche escludere l’applicazione per delitti di estrema gravità), ma sempre nel rispetto” del principio di legalità sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. nel cui alveo rientra un istituto che incide sulla punibilità della persona, “riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena”. Così la sentenza n. 115 che ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 2 della legge n. 130 del 2008, censurato, per manifesta irragionevolezza, nella parte in cui ordina l’esecuzione dell’art. 325 TFUE, come interpretato dalla sentenza Taricco della Corte di giustizia dell’8 settembre 2015. In esito a rinvio pregiudiziale, è stato confermato che la regola di diritto europeo – comportante l’obbligo del giudice di disapplicare talune norme interne in materia di prescrizione dei reati concernenti l’IVA – non opera nei giudizi a quibus e, prima ancora, non è idonea a penetrare nell’ordinamento nazionale perché in contrasto con uno dei suoi principi costituzionali supremi: la legalità sostanziale in materia penale (che comprende l’istituto della prescrizione), con particolare riguardo all’esigenza di determinatezza del regime di punibilità. Analoga questione è stata reputata manifestamente infondata dall’ordinanza n. 243.

La sentenza n. 149 ha giudicato illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l’art. 58-quater, comma 4, ord. pen., nella parte in cui – precludendo, in caso di condanna all’ergastolo, la concessione dei benefici penitenziari prima dell’effettiva espiazione di ventisei anni di pena detentiva – si applicava ai condannati all’ergastolo per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione che avessero cagionato la morte del sequestrato; e, in via consequenziale, nella parte in cui si applicava ai condannati all’ergastolo per il delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione che avessero cagionato la morte della vittima. L’appiattimento all’unica e indifferenziata soglia di ventisei anni per l’accesso ai benefici indicati nel precedente art. 4-bis, primo comma, ledeva “il principio – sotteso all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario in attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena – della progressività trattamentale e flessibilità della pena (…), ossia del graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l’intero arco dell’esecuzione della pena. Tale principio si attua (…) nell’ambito di un percorso ideale le cui prime tappe sono rappresentate dall’ammissione al lavoro all’esterno e dalla concessione di permessi premio, volti questi ultimi a stimolare la regolare condotta del detenuto, attestata dall’avere questi manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali (…). Il percorso di progressivo reinserimento sociale dell’ergastolano prosegue poi, in caso di esito positivo di questi primi esperimenti, con la sua ammissione al più incisivo beneficio della semilibertà, che comporta l’autorizzazione a trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al

153 reinserimento (....); ed è destinato ad avere il suo culmine nella concessione della liberazione condizionale, subordinata all’accertamento che il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento (...) e caratterizzata dall’integrale sospensione dell’esecuzione della pena residua, che si estinguerà laddove non intervengano cause di revoca nei cinque anni successivi alla sua concessione”. La disciplina censurata sovvertiva irragionevolmente la logica gradualistica per i soli condannati all’ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione, terrorismo o eversione. E consentiva che tali condannati potessero teoricamente accedere alla liberazione condizionale, per effetto delle detrazioni maturate a titolo di liberazione anticipata, in un momento anteriore a quello, pari a ventisei anni, in cui era possibile accedere ai permessi premio, al lavoro all’esterno e alla semilibertà: benefici “concepiti dal legislatore come naturalmente prodromici rispetto alla liberazione condizionale, che implica la completa (e potenzialmente definitiva) uscita dal carcere del condannato”. Inoltre, la disposizione de qua, “sterilizzando ogni effetto pratico delle detrazioni di pena a titolo di liberazione anticipata sino al termine di ventisei anni”, riduceva fortemente, per il condannato all’ergastolo, l’incentivo a partecipare all’opera di rieducazione, in cui si sostanzia la ratio dello stesso istituto della liberazione anticipata. Dilazionando sino al termine di ventisei anni la possibilità di accedere a qualsiasi beneficio penitenziario, era assai probabile che il condannato all’ergastolo per i titoli di reato in considerazione potesse non avvertire alcun pratico incentivo a impegnarsi nel programma rieducativo, in assenza di una qualsiasi tangibile ricompensa in termini di anticipazione dei benefici che non fosse proiettata in un lontanissimo futuro ultraventennale. Simile disciplina frustrava l’essenziale finalità della liberazione anticipata, la quale costituisce un tassello essenziale del vigente ordinamento penitenziario e della sottostante filosofia di risocializzazione.

In materia di sanzioni disciplinari, numerose sentenze “hanno ritenuto illegittime, per contrasto con l’art. 3 Cost., disposizioni che comportavano l’automatica destituzione del pubblico dipendente in conseguenza della sua condanna in sede penale per determinati reati” (sentenze nn. 268 del 2016, 363 del 1996, 197 del 1993 e 16 del 1991). “Tali pronunce riposano essenzialmente sul presupposto secondo cui il principio di eguaglianza-ragionevolezza esige, in via generale, che sia conservata all’organo disciplinare una valutazione discrezionale sulla proporzionale graduazione della sanzione disciplinare nel caso concreto”. “Il principio non è, peraltro, senza eccezione” (sentenze nn. 234 del 2015 e 112 del 2014) ove gli automatismi siano posti a presidio di preminenti interessi dello Stato di diritto. I descritti orientamenti sono stati ripresi dalla sentenza n. 197 che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede in via obbligatoria la sanzione della rimozione per il magistrato condannato in sede disciplinare per i fatti contemplati dal precedente art. 3, comma 1, lett. e (ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili pendenti presso l’ufficio giudiziario di appartenenza o presso altro ufficio del distretto di Corte d’appello nel quale esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai difensori di costoro, nonché ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti). La sanzione è “destinata a essere applicata ai magistrati, ai quali è affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato, e che per tale ragione sono tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni (…) ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto”. L’ottenimento di prestiti o agevolazioni da persona che il magistrato sa essere coinvolta in un procedimento pendente presso il proprio ufficio o presso altro del distretto costituisce “condotta che crea, sul piano oggettivo, il pericolo di distorsione dell’attività giurisdizionale in favore del soggetto che tali prestiti o agevolazioni ha corrisposto” e che “in ogni caso determina – ove la notizia relativa venga a conoscenza del pubblico – un significativo e pernicioso indebolimento della fiducia dei consociati nell’indipendenza e imparzialità dello stesso ordine giudiziario”. Non è stata perciò ritenuta manifestamente irragionevole “la scelta del legislatore di colpire indefettibilmente con la sanzione della rimozione la totalità delle condotte” rientranti nell’alveo applicativo dell’art. 3, comma 1, lett. e), “caratterizzate peraltro da una piena consapevolezza del magistrato sulle qualità dei propri benefattori, da provarsi compiutamente nell’ambito del procedimento

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disciplinare, e al netto comunque delle vicende di scarsa rilevanza, alle quali risulta applicabile la causa esimente prevista dall’art. 3-bis”. Rispetto all’obiettivo legittimo di restaurare la fiducia dei consociati nell’indipendenza, correttezza e imparzialità del sistema giudiziario, compromessa o anche solo messa in pericolo dalla condotta del magistrato, l’opzione legislativa non è apparsa censurabile “sotto il profilo della sua idoneità a conseguire un tale obiettivo, apparendo plausibile che una reazione ferma contro l’illecito disciplinare possa effettivamente contribuire all’obiettivo delineato”; “sotto il profilo della sua necessità rispetto all’obiettivo medesimo, non essendo affatto scontato che esso possa essere conseguito mediante una sanzione più mite, e che comunque non determini la definitiva cessazione dall’esercizio delle funzioni giurisdizionali”; e sotto il profilo della proporzionalità della sanzione: “quest’ultima – in nome della tutela di un interesse essenziale per lo Stato di diritto – interferisce, certo, in maniera assai gravosa con i diritti fondamentali del soggetto che ne è colpito, ma lascia altresì a quest’ultimo la possibilità di intraprendere altra professione, con il solo limite del divieto di continuare a esercitare la funzione giurisdizionale”.

La determinazione del trattamento sanzionatorio per i reati “è riservato alla discrezionalità del legislatore, in conformità a quanto stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost.; tuttavia, tale discrezionalità incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite (…) superato allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa”. L’esigenza di mobilità o individualizzazione della pena e la conseguente attribuzione al giudice, nella sua determinazione in concreto, di una certa discrezionalità nella commisurazione tra il minimo e il massimo previsti dalla legge costituiscono “naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale (…), rispetto ai quali l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità”, sicché “previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il volto costituzionale del sistema penale”. Così la sentenza n. 222 che ha giudicato illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 nella parte in cui disponeva che la condanna per uno dei fatti di bancarotta fraudolenta ivi previsti importasse l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni, anziché fino a dieci anni. Le predette pene accessorie temporanee “incidono in senso fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato, riducendo drasticamente la sua possibilità di esercitare attività lavorative per un arco temporale di dieci anni, destinati a decorrere (…) dopo l’integrale esecuzione della pena detentiva. (…) Conseguenze sanzionatorie così severe certamente si lasciano legittimare, al metro del principio di proporzionalità della pena, in relazione alle ipotesi più gravi di bancarotta fraudolenta”. Tuttavia, la durata fissa decennale non è stata ritenuta “ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”: l’art. 216 della legge fallimentare “raggruppa una pluralità di fattispecie che, già a livello astratto, sono connotate da ben diverso disvalore, come dimostrano i relativi quadri sanzionatori”. Anche all’interno delle singole figure di reato, “la gravità dei fatti concreti ad esse riconducibili può essere marcatamente differente, in relazione se non altro alla gravità del pericolo di frustrazione delle ragioni creditorie (in termini sia di probabilità di verificazione del danno, sia di entità del danno medesimo, anche in termini di numero delle persone offese) creato con la condotta costitutiva del reato”. Per contro, la durata delle pene accessorie restava, da un lato, “indefettibilmente determinata in dieci anni”, a prescindere dalla qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato e dalla gravità concreta delle condotte costitutive, e, dall’altro, insensibile all’eventuale sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti. Una simile rigidità applicativa generava la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi e appariva distonica rispetto ai principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Nel sistema della vigente legge fallimentare si è rintracciata “una diversa soluzione, in grado di sostituirsi a quella prevista dalla disposizione (…) censurata, e di inserirsi al tempo stesso armonicamente all’interno della logica già seguita dal legislatore” e volta a colpire in modo severo i responsabili di bancarotta fraudolenta. I successivi artt. 217 e 218 prevedono le medesime pene accessorie ma dispongono che la loro durata sia stabilita discrezionalmente dal giudice fino a un massimo determinato dalla legge di due anni nel caso della bancarotta semplice e di tre anni nel caso del ricorso abusivo al credito. La medesima logica, già presente e operante nel sistema, è

155 stata agevolmente trasposta nell’art. 216, “attraverso la sostituzione dell’attuale previsione della durata

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