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Il parametro del giudizio

Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale 1. Premessa

7. Il parametro del giudizio

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legislatore statale e regionale il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – ha nuovamente indotto la Corte a soffermarsi sui rapporti dell’ordinamento interno con quello europeo e con le convenzioni internazionali.

Nel rinviare alla più dettagliata esposizione svolta infra, Parte II, cap. IV, si segnala la sentenza n. 99, ove si è rammentato che il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea “non è necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente (…) e si impone soltanto quando occorra risolvere un dubbio interpretativo”. Nella specie, si è escluso, per l’inequivoco significato della pertinente disciplina sovranazionale, che ricorressero i presupposti per accogliere l’istanza, proposta in via subordinata da alcune parti, di investire il supremo giudice europeo. Il Collegio ha altresì negato di dover interpellare la Corte di giustizia con un rinvio pregiudiziale sulla validità della detta disciplina, come ugualmente richiesto dalle parti private. La sentenza n. 239 ha parimenti rigettato una richiesta, formulata da alcune parti costituite, di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in quanto “la questione della compatibilità con i trattati del sistema di soglie facoltative, variabili e nazionali non è pregiudiziale alla decisione della questione di costituzionalità” ed è stata prospettata “in un rapporto di subordinazione e non di pregiudizialità” rispetto alla seconda.

Il tema dei rapporti tra ordinamento interno e norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è stato sviluppato nelle sentenze nn. 43 e 120.

La sentenza n. 43 ha ribadito che le disposizioni della CEDU e dei suoi protocolli addizionali “vivono nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte EDU (…) che introduce un vincolo conformativo a carico dei poteri interpretativi del giudice nazionale quando può considerarsi consolidata”. Il mutamento di significato della normativa interposta, determinato da una sopravvenuta pronuncia della grande camera della Corte di Strasburgo “che esprime il diritto vivente europeo”, ha comportato la restituzione degli atti al rimettente per una nuova valutazione della rilevanza della questione. La sentenza n.

120, nel motivare l’ammissibilità dell’evocazione quale parametro interposto della Carta sociale europea, ha

osservato che essa “presenta spiccati elementi di specialità rispetto ai normali accordi internazionali, elementi che la collegano alla CEDU. Se quest’ultima, infatti, ha inteso costituire un sistema di tutela uniforme dei diritti fondamentali civili e politici (…), la Carta ne costituisce il naturale completamento sul piano sociale poiché (…) gli Stati membri del Consiglio d’Europa hanno voluto estendere la tutela anche ai diritti sociali, ricordando il carattere indivisibile di tutti i diritti dell’uomo”. Per queste sue caratteristiche, la Carta “deve qualificarsi fonte internazionale, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. Essa è priva di effetto diretto e la sua applicazione non può avvenire immediatamente ad opera del giudice comune ma richiede l’intervento” della Corte cui deve essere “prospettata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del citato primo comma dell’art. 117 Cost., della norma nazionale ritenuta in contrasto con la Carta. Ciò tanto più in considerazione del fatto che la sua struttura si caratterizza prevalentemente come affermazione di principi ad attuazione progressiva, imponendo in tal modo una particolare attenzione nella verifica dei tempi e dei modi della loro attuazione”.

In relazione all’evocato parametro interposto dell’art. 7 CEDU, la sentenza n. 22 ha ritenuto impropriamente richiamato (accanto all’art. 117, primo comma, Cost.) l’art. 11 Cost. Si è registrata una sola ipotesi in cui i rimettenti hanno richiamato specifiche disposizioni della CEDU senza fare riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 6).

L’art. 117, primo comma, Cost. è stato altresì evocato nei giudizi conclusi con le sentenze nn. 6, 12, 14,

22, 24, 77, 88, 89, 92, 93, 99, 105, 114, 126, 132, 135, 158, 167, 177, 194, 212, 222, 223, 240, 248 e con le

ordinanze nn. 19, 54, 154, 190, 207, 234.

La sentenza n. 194 ha sanzionato come inammissibile una questione in cui il rimettente aveva evocato, quale parametro interposto rispetto agli artt. 117, primo comma, e 76 Cost., una convenzione internazionale non ratificata dall’Italia, come tale inidonea a generare vincoli costituzionalmente imposti al legislatore nazionale.

Nel giudizio incidentale di costituzionalità è stata spesso prospettata la violazione del riparto delle competenze legislative tra Stato, Regioni e Province autonome stabilito dall’art. 117 Cost. (sentenze nn. 9,

14, 52, 110, 113, 126, 150, 151, 160, 177, 196, 209, 217; ordinanze nn. 76, 192, 242). Talvolta, è stato

evocato il contrasto con lo statuto di ente ad autonomia differenziata (sentenze nn. 46 e 134; ordinanza n.

61 La sentenza n. 14 ha esaminato prioritariamente, “in quanto logicamente preliminari”, le censure di violazione dell’art. 117, commi secondo, lett. m), e terzo, Cost. con le quali il rimettente revocava in dubbio la competenza della Regione ad adottare la norma impugnata.

Meno frequente è risultata, invece, la denunciata violazione di altre disposizioni del Titolo V della Parte II della Costituzione (sentenze nn. 2, 15, 52, 113, 126, 134, 160, 188; ordinanze nn. 192 e 242).

Infine, si segnalano le sentenze nn. 4, 10, 189 in materia di delega legislativa nonché la sentenza n. 99 sulla sindacabilità dei presupposti che legittimano l’adozione del decreto-legge.

La sentenza n. 189 ha precisato che la censura di violazione dell’art. 76 Cost. “viene preliminarmente in esame per il suo carattere pregiudiziale, in quanto inerente al corretto esercizio della funzione legislativa”.

8. La questione di legittimità costituzionale e i poteri interpretativi dei giudici comuni

Come già accennato supra (par. 4), l’esame nel merito di una questione postula che il giudice a quo abbia esperito il doveroso preliminare tentativo di ricercare un’interpretazione costituzionalmente orientata del testo legislativo che intende sottoporre allo scrutinio della Corte. Il rimettente deve, pertanto, fare uso dei propri poteri interpretativi allo scopo di valutare se sia possibile superare il dubbio di costituzionalità attraverso un’interpretazione adeguatrice della disposizione sospettata di illegittimità, tale da renderla conforme ai principi costituzionali. In ossequio alla regola di conservazione degli atti giuridici, i Giudici hanno confermato che, in linea di principio, “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)” (sentenza n. 77). La sentenza n. 77 ha altresì puntualizzato che, “ove sia improbabile o difficile” prospettare “un’interpretazione costituzionalmente orientata”, la questione deve essere scrutinata nel merito. L’ordinanza n. 207 ha ribadito che “l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione”; e non influisce sull’ammissibilità delle questioni “la circostanza che il presupposto ermeneutico su cui esse poggiano risulti recepito (…) in un’unica pronuncia resa da una sezione semplice della Corte di cassazione (…) che, proprio perché isolata, non sarebbe di per sé idonea a determinare (…) la formazione di un diritto vivente”. Per contro, lo scrutinio del merito “è precluso dalla mancata o inadeguata sperimentazione, da parte del giudice

a quo, della possibilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei prospettati dubbi di

legittimità costituzionale e tale da determinarne il loro superamento o da renderli comunque non rilevanti nel procedimento a quo” (sentenza n. 91).

La sentenza n. 91 ha sanzionato l’inadeguato espletamento del tentativo di interpretazione conforme, osservando che il rimettente “non ha compiuto un accurato esame delle opzioni interpretative rese possibili dal contesto normativo in cui si colloca la norma censurata”; ne è derivata l’inammissibilità di questioni “poste senza tenere conto della praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, diversa da quella prospettata e coerente con la cornice normativa in cui la norma si colloca”.

La Corte ha, invece, esaminato il merito delle questioni ogni qual volta i rimettenti abbiano ritenuto, con motivazione non implausibile, che gli sforzi interpretativi per rendere la norma impugnata conforme al dettato costituzionale superassero i limiti posti dall’ordinamento all’attività ermeneutica. La recente giurisprudenza richiamata dalla sentenza n. 15 ha escluso che “il mancato ricorso da parte del giudice a quo ad un’interpretazione costituzionalmente orientata possa essere causa d’inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale, quando vi sia un’adeguata motivazione circa l’impedimento a tale interpretazione, in ragione del tenore letterale della disposizione”. La sentenza n. 132 ha precisato che “esula dall’ammissibilità e attiene, per contro, al merito della questione” l’interrogativo “se l’ermeneusi prescelta sia da considerare la sola persuasiva”; e che l’esame del merito “richiede, in primo luogo, la verifica della praticabilità di valide alternative ermeneutiche che consentano di interpretare la disposizione impugnata in modo conforme a Costituzione”.

In taluni casi sono state respinte eccezioni di inammissibilità delle questioni per omesso o inadeguato espletamento del tentativo di interpretazione conforme delle disposizioni impugnate (sentenze nn. 15, 40,

77, 132, 135, 197; ordinanza n. 207).

La sentenza n. 77 ha riconosciuto ai rimettenti di avere, “con motivazione plausibile, escluso la possibilità di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata”. Per la sentenza n. 132, “il rimettente

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ha espressamente escluso di poter praticare una lettura costituzionalmente orientata della disposizione censurata”, “sulla base di una motivazione articolata e congrua”. La sentenza n. 135 ha sostenuto che il rimettente “ha (…) non già omesso, bensì risolto con esito negativo la verifica di praticabilità di una esegesi costituzionalmente orientata della normativa denunciata, per l’ostacolo che ha, non immotivatamente, ravvisato nella lettera della stessa. E ciò consente di superare il vaglio di ammissibilità delle questioni conseguentemente sollevate, la correttezza, o meno, del cui presupposto interpretativo, attiene, invece, al merito e cioè alla successiva verifica di fondatezza o non delle questioni”.

La sentenza n. 13 ha evidenziato che “il giudice a quo ritiene ostativa ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata l’esistenza di un diritto vivente, di cui sarebbero espressione le richiamate sentenze delle sezioni unite della Corte di cassazione”. La sentenza n. 32 ha ritenuto ammissibile la questione “sotto il profilo della plausibile esclusione di una diversa lettura della disposizione censurata in chiave di interpretazione adeguatrice, avendo il tribunale rimettente puntualmente e correttamente rilevato che il dato testuale della disposizione non consente l’estensione della speciale normativa di tutela”. Per la sentenza n. 41, il rimettente – osservando che la lettera della disposizione “non permette alcuna interpretazione costituzionalmente orientata, a causa dell’inequivoco riferimento al limite di tre anni previsto ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva” – “ha assolto con motivazione adeguata e convincente il proprio obbligo di verificare la praticabilità dell’interpretazione adeguatrice prima di sollevare un incidente di legittimità costituzionale, sicché le questioni sono (…) ammissibili”. La sentenza n. 43 ha considerato ammissibile il quesito, essendo stata “motivatamente e convincentemente esclusa la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata”. Ad avviso della sentenza n. 88, il rimettente non doveva “motivare l’impraticabilità dell’interpretazione adeguatrice prospettata dall’Avvocatura, incompatibile con il diritto vivente”. La sentenza n. 114 ha riconosciuto che il rimettente “ha sperimentato la possibilità di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, ma l’ha correttamente esclusa perché il suo dato testuale è inequivocabile”. Secondo la sentenza n. 173, il rimettente “ha adeguatamente motivato le ragioni critiche che lo inducono a non ritenere percorribile la interpretazione costituzionalmente orientata” adottata invece dal giudice di primo grado.

L’attenzione della Corte a che i giudici comuni esercitino la funzione interpretativa alla quale sono chiamati non determina, tuttavia, un’acritica accettazione dei relativi esiti. Ne discende il potere del Collegio di censurare l’erroneo presupposto interpretativo da cui il promovimento della questione ha tratto origine. In proposito, si vedano nel senso dell’inammissibilità le sentenze nn. 2 e 105, della manifesta inammissibilità l’ordinanza n. 76 e nel senso della manifesta infondatezza l’ordinanza n. 237. Le sentenze nn. 16, 22, 24, 53,

99, 116, 131, 218, 240 hanno giudicato infondate altrettante questioni per l’erroneità del presupposto

interpretativo fatto proprio dal rimettente. L’erroneo presupposto rilevato dalla sentenza n. 105 è consistito nel fatto che il rimettente ha negato ogni rilievo ai fini della decisione del processo a quo a una precedente sentenza di illegittimità, ascrivibile alla categoria delle additive di principio che, ove enunciate in maniera puntuale e quindi suscettibili di diretta applicazione, impongono di ricercare all’interno del sistema la soluzione più corretta, anche quando la pronuncia rimetta al legislatore l’attuazione del principio da essa introdotto. Infatti, “è dovere del giudice, chiamato ad applicare la Costituzione” e le sentenze adottate a garanzia della stessa, “fondare la sua decisione sul principio enunciato, che è incardinato nell’ordinamento quale regola di diritto positivo, ancor prima che il legislatore intervenga per dare ad esso piena attuazione. In tale direzione, del resto, si è già orientato il diritto vivente, quando ha affermato che, nelle more dell’intervento legislativo, la norma applicabile, idonea a produrre effetti nell’ordinamento, è solo quella che si ispira al principio enunciato” dalla Corte.

La sentenza n. 52 ha sanzionato con l’inammissibilità della questione il difetto di motivazione in ordine alla premessa interpretativa accolta dal rimettente. Per i Giudici, la positiva verifica della sussistenza della giurisdizione non esclude il potere della Corte di “valutare la correttezza della premessa interpretativa da cui muove il rimettente”. “Il controllo in ordine alla giurisdizione concerne infatti la sussistenza di un presupposto della legittima instaurazione del giudizio principale. Rispetto a questo costituisce verifica diversa (successiva, nonché logicamente e giuridicamente differente) quella avente ad oggetto il contenuto della disposizione censurata. Quest’ultima attiene infatti alla premessa interpretativa, della quale si impone il controllo (…) anche allo scopo di stabilire la pertinenza” dei parametri evocati.

Il potere-dovere dell’autorità giudiziaria di interpretare la legge alla luce dei principi costituzionali porta la Corte a escludere che le possa essere sottoposto un mero dubbio interpretativo, giacché la ricerca di

63 soluzioni ermeneutiche costituzionalmente orientate non può tradursi in una sorta di “tutela” a favore del giudice comune. È così consolidato l’atteggiamento di rifiuto dei Giudici di assecondare richieste volte a ottenere un avallo all’opzione ermeneutica prescelta dal rimettente, che evidenziano un uso improprio dell’incidente di costituzionalità.

In diverse occasioni sono state respinte eccezioni di inammissibilità delle questioni per impropria richiesta di avallo interpretativo (sentenze nn. 33 e 69; ordinanza n. 207).

La sentenza n. 33 ha escluso che “le considerazioni svolte dal giudice a quo in sede di motivazione sulla rilevanza (…) trasformino l’odierno incidente di costituzionalità in una quaestio facti attinente all’interpretazione e all’applicazione della norma censurata”.

Diversa è la prospettiva per la Corte e per il giudice qualora si sia formato un “diritto vivente”, definibile come l’interpretazione del diritto scritto consolidatasi nella prassi applicativa. Nei casi in cui si afferma, prevalendo su altre possibili opzioni ermeneutiche, il diritto vivente preclude alla Corte di sperimentare una propria interpretazione e viene a porsi come oggetto di scrutinio, mentre per il giudice vi è l’alternativa tra seguire un’interpretazione adeguatrice (quando la ritiene possibile) oppure sollevare questione di costituzionalità della norma vivente. Secondo la sentenza n. 39, il giudice a quo, “libero di privilegiare una diversa lettura del dato normativo, ben può scegliere di uniformarsi a un’interpretazione che assurge oramai al rango di diritto vivente e richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i precetti costituzionali”. La sentenza n. 52 ha rammentato che la presenza del diritto vivente induce, di regola, la Corte “ad assumere la disposizione censurata nel significato da questo ritenuto, astenendosi dal fornirne uno proprio. Affinché ciò accada, è però necessario che sussista un’elaborazione giurisprudenziale che connoti la norma censurata in termini appunto di diritto vivente, circostanza ricorrente in presenza di un’interpretazione offerta dalla Corte di cassazione, alla quale compete la funzione nomofilattica”. In mancanza di un diritto vivente, ossia di un’esegesi della disposizione da parte del giudice di legittimità, il Collegio procede all’interpretazione della disposizione, mentre “grava sul rimettente l’onere di esplicitare le ragioni della premessa interpretativa dalla quale egli muove per dubitare della legittimità costituzionale della medesima. Siffatto onere non può essere escluso neanche qualora, come nella specie, il giudice a quo sia vincolato in punto di sussistenza della giurisdizione”.

La sentenza n. 13 ha sottolineato che l’interpretazione, della cui legittimità dubita il rimettente, “corrisponde a un orientamento delle sezioni unite della Corte di cassazione, espresso con tre sentenze”; perciò, si è ravvisata “un’ipotesi di diritto vivente, a cui il giudice a quo può uniformarsi o meno (…), restando però libero, nel secondo caso, di assumere il diritto vivente ad oggetto delle proprie censure”.