• Non ci sono risultati.

Trattamento uniforme di situazioni identiche o assimilabili

Nel documento Giurisprudenza costituzionale dell'anno 2018 (pagine 121-128)

Principi fondamentali 1. Il diritto alla vita (non comprende il diritto a morire)

7.1.3. Trattamento uniforme di situazioni identiche o assimilabili

Appartiene alla discrezionalità del legislatore la scelta di “dettare discipline diverse in materia di riscatto in ordinamenti previdenziali diversi, che prevedono regolazioni peculiari per aspetti specifici, come la determinazione dei periodi temporali ammissibili al riscatto o il costo della relativa contribuzione”; tuttavia, “tale discrezionalità incontra il limite della ragionevolezza, a fronte del quale discipline diverse che regolano situazioni che presentano espliciti caratteri di omogeneità non sono compatibili con il principio dettato dall’art. 3 Cost.”. Così la sentenza n. 11 che ha giudicato illegittimo, per violazione dell’indicato parametro, l’art. 67 del r.d.l. n. 680 del 1938, nella parte in cui non prevedeva la facoltà dei dipendenti degli enti locali di riscattare il servizio prestato in qualità di vice pretore reggente per un tempo non inferiore a sei mesi, riconosciuta dall’art. 14, lett. b), del d.P.R. n. 1092 del 1073 ai dipendenti statali. Il diverso trattamento riservato ai primi non è risultato giustificabile in mancanza di “oggettivi elementi idonei a motivare il perdurare di una differenziazione fra dipendenti statali e dipendenti degli enti locali, di fronte ad una attività di significativa rilevanza, quale quella di vice pretore onorario reggente, che presenta analoga valenza sia per l’impiego statale, che per l’impiego presso enti locali”.

La sentenza n. 14 ha rigettato la questione di costituzionalità dell’art. 4, comma 2, lett. c), della legge pugliese n. 31 del 2008, impugnato, in relazione all’art. 3 Cost., in quanto – stabilendo che, entro 180 giorni dalla presentazione della comunicazione di inizio lavori, il soggetto autorizzato alla realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili deve depositare presso la Regione fideiussione a prima richiesta rilasciata a garanzia della realizzazione dell’impianto – determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra il titolare dell’autorizzazione unica e i soggetti autorizzati all’esito di analoghi procedimenti che resterebbero titolari di una facoltà, e non di un dovere, di esercitare l’attività autorizzata. La pertinente legislazione statale prevede, per il rilascio dell’autorizzazione alla costruzione di impianti eolici, l’impegno del richiedente al rilascio di un’unica fideiussione a garanzia della rimessione in pristino dello stato dei luoghi, riferibile sia all’ipotesi di dismissione conseguente alla conclusione del ciclo produttivo, sia a quella di dismissione di un impianto la cui costruzione sia stata iniziata ma non completata ovvero realizzata in difformità dall’autorizzazione. La legge regionale, pur contemplando una duplicità di fideiussioni per le indicate ipotesi di dismissione, non è aggravatoria della disciplina statale di principio, riflettendo l’opzione per una subarticolazione del meccanismo di garanzia in relazione alle dette ipotesi, in corrispondenza delle quali sono previste due autonome, complementari e non sovrapponibili, fideiussioni. La prima, sub lett. d), è riferita all’ipotesi di fine esercizio dell’impianto, cioé della conclusione del ciclo produttivo di un impianto regolarmente realizzato; la seconda, di cui alla censurata lett. c), è riferita alla diversa ipotesi di anticipata dismissione di intrapresi lavori di costruzione di un impianto poi non realizzato. In questo secondo caso, la fideiussione non consegue al fatto della mera mancata realizzazione dell’impianto poiché il relativo deposito è dovuto solo entro 180 giorni dalla comunicazione di inizio lavori. La realizzazione dell’impianto non concreta, dunque, un obbligo, per l’operatore che abbia ottenuto il titolo autorizzatorio. Questi – dopo avere, entro il congruo termine a sua

123 disposizione, liberamente deciso di procedere alla costruzione dell’impianto assentito e intrapreso i relativi lavori – è tenuto, solo dopo la comunicazione di inizio lavori e nei successivi 180 giorni, a depositare la fideiussione in esame.

La sentenza n. 15 ha reputato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 739, della legge n. 208 del 2015, censurato, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto – interpretando l’art. 23, comma 7, del d.l. n. 83 del 2012, che abroga la facoltà dei Comuni di aumentare le tariffe dell’imposta comunale sulla pubblicità (art. 11, comma 10, della legge n. 449 del 1997), nel senso che l’abrogazione non ha effetto per i Comuni che già si siano avvalsi di tale facoltà prima della data di entrata in vigore del decreto (26 giugno 2012) – introdurrebbe un irragionevole trattamento discriminatorio tra i contribuenti e tra i Comuni. La norma interpretativa, lungi dal ripristinare retroattivamente la potestà comunale di applicare maggiorazioni alle tariffe, si è limitata a precisare la salvezza degli aumenti deliberati al 26 giugno 2012, tenuto conto che a tale data il d.l. n. 16 del 2012 aveva nuovamente attribuito ai Comuni la facoltà di deliberare le maggiorazioni. Era dunque possibile che essi avessero già deliberato in tal senso: di qui la necessità di chiarire gli effetti dell’abrogazione disposta dal d.l. n. 83, precisando che la stessa non poteva far cadere le delibere già adottate e che il 26 giugno del 2012 era il termine ultimo per la validità delle maggiorazioni disposte per l’anno d’imposta 2012. Nulla ha detto, invece, il comma in esame sulla possibilità di confermare o prorogare, successivamente al 2012, di anno in anno, le tariffe maggiorate, preclusa dal venir meno della norma che simili maggiorazioni ammetteva. Pertanto, l’intervento interpretativo non ha creato ingiustificate disparità di trattamento.

La sentenza n. 33 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.

12-sexies, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui

include la ricettazione tra i delitti per i quali, in caso di condanna o patteggiamento, è sempre disposta la speciale confisca allargata avente ad oggetto denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona, risulta essere titolare o avere la disponibilità in valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica. La misura, volta a colpire beni di sospetta origine illecita, poggia su una presunzione, già ritenuta non irragionevole dall’ordinanza n. 18 del 1996, di “provenienza criminosa dei beni posseduti dai soggetti condannati per taluni reati, per lo più (ma non sempre) connessi a forme di criminalità organizzata: in presenza di determinate condizioni, si presume, cioè, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone”. Il legislatore ha operato una scelta di politica criminale, individuando delitti particolarmente allarmanti, idonei a creare un’accumulazione economica, a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti, e traendo una presunzione iuris tantum di origine illecita del patrimonio sproporzionato a disposizione del condannato, basata sulla ritenuta capacità dei medesimi delitti di essere perpetrati in forma quasi professionale e di porsi quali fonti di illecita ricchezza. Anche la ricettazione – “reato contro il patrimonio, integrato dal fatto di chi, a fini di profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare” – è, “per sua natura, un delitto idoneo a determinare un’illecita accumulazione di ricchezza e suscettibile, secondo l’osservazione sociologica, di essere perpetrato in forma professionale o, comunque sia, continuativa”.

La sentenza n. 53 ha rigettato, per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di costituzionalità dell’art. 671 cod. proc. pen., censurato, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto – non prevedendo, in caso di pluralità di condanne intervenute per il medesimo reato permanente in relazione a distinte frazioni della condotta, il potere del giudice dell’esecuzione di rideterminare una pena unica, che tenga conto dell’intero fatto storico accertato nelle plurime sentenze irrevocabili, e di assumere le determinazioni conseguenti in tema di concessione o revoca della sospensione condizionale – porrebbe il condannato in posizione irragionevolmente deteriore rispetto all’autore di un identico fatto giudicato unitariamente nonché all’autore di più reati avvinti da concorso formale o continuazione, il quale può fruire di un cumulo giuridico, anziché materiale, delle pene. La disposizione stabilisce che, quando siano state pronunciate più sentenze o decreti penali irrevocabili in procedimenti distinti contro la stessa persona, il giudice dell’esecuzione può applicare, su istanza del condannato o del pubblico ministero, la disciplina del reato continuato, oltre a quella del concorso formale, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione: essa postula, dunque, la pluralità dei reati commessi dal condannato.

124

Il reato permanente è illecito unico di durata, a consumazione prolungata nel tempo, nel quale l’offesa al bene protetto si protrae per effetto della protrazione della condotta lesiva. Tuttavia, la permanenza può interrompersi e dare luogo a una pluralità di reati non solo per cause naturalistiche, quale il temporaneo esaurirsi della condotta, ma anche per cause giudiziarie. La contestazione e l’accertamento di differenti segmenti temporali del reato permanente – giustificati dall’intento di evitare effetti di immunità penale – non incorrono nel divieto di bis in idem (che postula l’identità naturalistica del fatto, ivi comprese le circostanze di tempo) ma attengono a fatti diversi e autonomi. Nel caso di interruzione giudiziale della permanenza, è applicabile ai vari segmenti di condotta autonomamente giudicati la disciplina del reato continuato, anche in sede esecutiva: del resto, l’identità del disegno criminoso, richiesta dal codice penale per cementare i vari fatti di reato avvinti dalla continuazione, è facilmente riscontrabile nella determinazione volitiva che sorregge le singole porzioni temporali di una condotta antigiuridica omogenea, dipanatasi nel tempo senza soluzione di continuità, quale quella integrativa del reato permanente. L’art. 671 cod. proc. pen. è così risultato pianamente riferibile anche all’ipotesi in discussione. Identica questione è stata dichiarata manifestamente infondata dall’ordinanza n. 195.

La sentenza n. 73 ha giudicato illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., l’art. 1, commi 732 e 733, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui non prevedeva che potessero essere integralmente definiti in via agevolata, con il versamento di una percentuale delle somme dovute, anche i procedimenti giudiziari pendenti alla data del 30 settembre 2013 concernenti il pagamento in favore degli enti titolari diversi dallo Stato dei canoni e degli indennizzi per l’utilizzo dei beni demaniali marittimi e delle relative pertinenze. La natura civilistica e processuale della norma ne comportava “la necessaria uniformità di applicazione alle analoghe situazioni pendenti: ciò anche in ragione della sostanziale omogeneità degli interessi inerenti ai concessionari e agli enti pubblici potenziali beneficiari del meccanismo transattivo”. La pronuncia ha, invece, considerato non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione, impugnata dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in riferimento agli artt. 3 Cost. e 48 e ss. dello statuto speciale, nella parte in cui disciplina il pagamento agevolato in favore dello Stato dei canoni e degli indennizzi per l’utilizzo dei beni demaniali marittimi e delle relative pertinenze dati in gestione alla Regione. La norma consente ai soggetti interessati di “definire i procedimenti giudiziari pendenti, relativi al pagamento in favore dello Stato di canoni e indennizzi di beni del demanio marittimo statale – ivi compresi quelli gestiti dalla Regione – tramite il versamento di una frazione della somma in contestazione. Pertanto, con riguardo alla categoria dei beni demaniali statali gestiti dalla Regione la norma vigente già comprende la facoltà degli interessati di pervenire alla definizione agevolata in favore dello Stato”.

La sentenza n. 77 ha dichiarato illegittimo, per violazione anche dei principi di ragionevolezza e uguaglianza, l’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. (come modificato dal d.l. n. 132 del 2014), nella parte in cui non prevedeva che il giudice potesse compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistessero altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, oltre quelle ivi tassativamente individuate nella soccombenza reciproca, nell’assoluta novità della questione trattata e nel mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. La rigidità delle ipotesi tassative escludeva “altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa” dall’area delle deroghe alla regola generale ma non assoluta che prescrive la condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa. L’ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che “risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia”, con conseguente alterazione dei termini della lite non ascrivibile alla condotta processuale delle parti. “Questa evenienza sopravvenuta (…) non è di certo nella disponibilità delle parti, le quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì che, nei casi di non prevedibile

overruling, l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto

dell’orientamento poi disatteso e superato” merita di essere tutelato. Tale ratio può rinvenirsi anche in altre fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia, come una norma di interpretazione autentica o uno ius superveniens con efficacia retroattiva, una pronuncia di illegittimità costituzionale, una decisione di una Corte europea, una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea. Simili sopravvenienze, ove concernenti una questione dirimente per la decisione della controversia, “sono connotate da pari gravità ed eccezionalità, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice”. Ciò può predicarsi anche per l’ipotesi di assoluta novità della questione, legata a una situazione

125 di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza: in simmetria, “è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a gravi ed eccezionali ragioni”. Del resto, la stessa soccombenza reciproca, che, al pari delle ipotesi nominate, facoltizza il giudice a compensare le spese, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma implica una qualche discrezionalità del giudice, chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente. Il legislatore ha indebitamente “tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche”. È stata, invece, rigettata la questione rivolta a introdurre nell’impugnato art. 92, secondo comma, un’ulteriore ragione di compensazione delle spese che tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa, ossia del rapporto di lavoro subordinato, e della condizione soggettiva di debolezza del lavoratore agente nei confronti del datore. La norma, “non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio processuale” (art. 111, secondo comma, Cost.). E le ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare le spese “rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte debole del rapporto controverso”. In generale, “la condizione soggettiva di lavoratore non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore”, mentre, “nelle controversie di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perché, in via eccezionale, possa comportare siffatto esonero. La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente non abbiente, e quindi debole, risiede nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del contenzioso, alla speciale tutela prevista dal secondo comma dell’art. 38 Cost., che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito. Invece la qualità di lavoratore della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) − per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente”. “La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte debole del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese” (in materia di contributo unificato per le spese di giustizia).

La sentenza n. 89 ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge siciliana n. 9 del 2015, impugnato, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto – modificando il comma 1 dell’art. 12 della legge regionale n. 9 del 2013 e i criteri ivi previsti di determinazione del canone annuo dovuto dai soggetti esercenti l’attività di cava nel territorio siciliano – darebbe luogo a ingiustificate discriminazioni, ponendo sullo stesso piano, a parità di superficie interessata, tutti i soggetti che svolgono attività estrattiva, quale che sia il materiale oggetto dell’iniziativa imprenditoriale e la relativa capacità remunerativa. La censura si è basata su presupposti logici non coerenti con la ratio della disposizione de

qua. La ragione fondante della prestazione patrimoniale “si lega sia allo sforzo amministrativo correlato a

tale attività di impresa; sia all’esigenza di far gravare il costo del (…) disagio patito dalla collettività sui soggetti, che, ottenuto il titolo legittimante, determinano il pregiudizio ambientale” intrinsecamente connesso all’attività estrattiva. La disposizione “persegue, anche, l’ulteriore obiettivo della individuazione del metodo applicativo più idoneo a garantire una puntuale esazione del dovuto. (…) La diversa possibilità di rendimento dell’attività, in ragione del maggior valore di mercato del materiale estratto, deve ritenersi ininfluente una volta che si colleghi il canone in esame non ai valori di produzione reddituale della relativa iniziativa imprenditoriale, bensì alla esigenza di compensare il costo amministrativo ed il disagio ambientale conseguenti alla attività di cava. In particolare, i profili di erosione territoriale e ambientale conseguenti all’attività estrattiva prescindono dalla potenziale redditività della relativa iniziativa economica, che ovviamente troverà, invece, rilievo nella determinazione dell’imponibile ai fini della tassazione sul reddito delle imprese. Infatti, nei criteri di determinazione del canone introdotti dalla novella, viene data rilevanza essenziale alla deturpazione del

126

paesaggio, certamente correlata alla quantità di superficie interessata dall’attività di scavo; e, nell’ottica indennitaria, si tempera il relativo parametro coniugandolo con il riferimento ai volumi di estrazione autorizzati, ancor più concretamente indicativi dell’effettiva modificazione ambientale assentita”.

Le ragioni della deflazione processuale “debbono recedere di fronte ai principi posti dagli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., perché l’esigenza della corrispettività fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa”. Così la sentenza n. 141 che ha giudicato illegittimo, per violazione degli indicati parametri, l’art. 517 cod. proc. pen. nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova. La pronuncia si è allineata a una consolidata giurisprudenza che ha riconosciuto all’imputato la facoltà di chiedere il giudizio abbreviato e il patteggiamento anche in caso di contestazione patologica o fisiologica di una circostanza aggravante, di un reato concorrente o di un fatto diverso. Sia che la nuova contestazione si riferisca a fatti già risultanti dagli atti di indagine (ipotesi patologica) sia che inerisca a elementi acquisiti nel corso dell’istruzione dibattimentale (ipotesi fisiologica), la Corte ha ritenuto necessario restituire all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni circa la fruizione dei riti alternativi che costituisce una delle modalità più qualificanti di esercizio del diritto di difesa. La preclusione stabilita dal legislatore discriminava irragionevolmente l’imputato in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero; e, nel caso di nuova contestazione fisiologica, illegittimamente discriminava, quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena, l’imputato che subiva il nuovo addebito rispetto a chi fosse stato chiamato a rispondere della medesima imputazione sin dall’inizio. La mancata previsione della facoltà per l’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, nel caso di

Nel documento Giurisprudenza costituzionale dell'anno 2018 (pagine 121-128)