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2. Evoluzione storica della normativa nazionale in materia di prostituzione e tratta

2.2. Dentro le case, per quasi un secolo.

In Italia l’evoluzione storica del quadro normativo sulla prostituzione ha seguito fasi alterne e contrastanti.

Per tracciare lo scenario normativo occorre partire dalle politiche, poiché è difficile scindere il fenomeno dalla sua regolazione pubblica. La politica seguita dal Regno d’Italia fu dapprima quella del regolamentarismo, che intendeva “controllare” il fenomeno della prostituzione attraverso una serie di licenze e lo permetteva all’interno di quelle che erano definite “case di tolleranza”.

Il 15 febbraio 1860, seguendo l’esperienza francese inaugurata da Napoleone nel 1802, Camillo Benso conte di Cavour emanava il “Regolamento del servizio di

sorveglianza sulla prostituzione” rimasto in vigore, con limitate modifiche, fino al

1958, anno di approvazione della legge n.75, meglio conosciuta come “Legge Merlin”.

Esteso prima alle province del Nord fino alla Toscana annesse al Regno d’Italia con i plebisciti di quell’anno, con l’Unità d’Italia entrò in vigore anche nelle province del Sud45.

Il Regolamento Cavour (decreto ministeriale del 15/2/1860) fu il primo atto che determinava le condizioni alle quali l’esercizio della prostituzione era consentito e le forme in cui si doveva manifestare il controllo di polizia ed il controllo sanitario su chi esercitasse la prostituzione. Ne era presupposto il fermo, la visita forzata, l’“iscrizione” della donna “notoriamente” dedita alla prostituzione e la sua obbligata registrazione in una delle due categorie previste (la prostituta isolata, che esercita in casa, e la prostituta di bordello)46.

Fu proprio il Regolamento Cavour a segnare la nascita delle case di tolleranza, così chiamate perché tollerate e disciplinate dallo Stato. Il precipuo obiettivo del regolamento era quello di controllare la prostituzione dal punto di vista igienico- sanitario e a tale scopo, infatti, veniva prevista la creazione, in ogni capoluogo di provincia e di circondario, di un Ufficio Sanitario con l’unico compito di sorveglianza delle prostitute (art. 1)47.

Le donne dovevano obbligatoriamente essere iscritte all’Ufficio sanitario, dopo essersi sottoposte a visita sanitaria (artt.17,18,19,22). La prostituta era privata della libertà di disporre del proprio corpo: la scoperta di un’infezione era preludio all’ingresso obbligato in un sifilocomio, ospedale retto da regole disciplinari di tipo carcerario48, e della stessa libertà di movimento, sia nel frequentare luoghi pubblici

                                                                                                                         

45 Strazza M., La legge e l’alcova, in Storia in network, n. 144, Ottobre 2008. Consultabile al sito

internet: http://www.storiain.net/arret/num144/artic5.asp

46 Prina F., La legislazione in Italia, in AA.VV., Manuale di intervento sociale nella prostituzione di

strada, Comunità edizioni, Capodarco di Fermo, 1998, p. 39.

47 Melotti S., Prostituzione: dalla legge Merlin alle recenti proposte de iure condendo, Tesi di dottato

in Diritto Penale, Università degli Studi di Parma, 2009.

(teatri, osterie ecc.), per evitare che si desse all’adescamento, sia nella possibilità di uscire dal territorio comunale per evitare i controlli e l’obbligo di visita e di cura. Il cardine della normativa era, dunque, la vigilanza sanitaria, concentrata sullo strumento della cosiddetta "patente" (artt. 24, 26 e 27), rilasciata dalla Pubblica Sicurezza e necessaria per l'esercizio dell'attività, dove venivano annotate le visite sanitarie bisettimanali (art. 71). Tali controlli, da eseguirsi "con la massima diligenza

e con tutti i mezzi che nello stato attuale della scienza" erano "riconosciuti utili a rendere più certa la diagnosi delle malattie veneree" (art. 72), avevano anche un

costo: 1 lira per la visita ordinaria, 1,5 lire per la visita a domicilio, gratis per le prostitute attestate come “miserabili” dalle amministrazioni comunali dei paesi d'origine e, perciò, da ritenersi esentate49.

L’art. 32 imponeva alle meretrici una serie di impedimenti, quali, ad esempio, quello di uscire dalle case di tolleranza con abiti indecenti o in condizioni di ubriachezza, quello di frequentare le piazze o le vie principali delle città, quello di affacciarsi alle finestre o frequentare i teatri.

Come già evidenziato, tuttavia, la vera novità di tale normativa deve rintracciarsi principalmente nell’istituzione delle prime case di tolleranza, definite “postriboli”. La legge tollerava due differenti categorie di postriboli: quelli in cui le meretrici avevano domicilio fisso e quelli in cui le stesse si recavano per motivo di prostituzione. Chiunque avesse voluto aprire un postribolo doveva ottenere una licenza (concessa dall’Autorità di Pubblica Sicurezza) e pagare, poi, le tasse. Le case erano divise in tre categorie: prima, seconda e terza, la legge fissava le tariffe che andavano dalle 5 lire per le case di lusso alle 2 lire per le case popolari50.

Già negli anni immediatamente successivi all’emanazione del Regolamento Cavour, tuttavia, non mancarono di alzarsi le voci critiche, alimentate dalle influenze che la prospettiva abolizionista esercitava in altri paesi. La dubbia posizione dello Stato, che traeva utili da un’attività ritenuta moralmente inaccettabile, era, infatti, da più parti criticata51.

                                                                                                                         

49 Strazza M., op.cit. 50 Melotti S.,op.cit.. 51 Strazza M., op.cit., p. 40.

Due regolamenti successivi, il Regolamento Crispi del 1888 e il regolamento Nicotera del 1891, ritoccarono in maniera solamente parziale il quadro di riferimento normativo in materia di prostituzione.

Il Regolamento Crispi, espressione dell’impegno degli abolizionisti presenti in Italia, tentò di limitare gli aspetti di più chiara discriminazione e repressione della libertà personale, anche se mantenne praticamente invariato il rapporto tra lo Stato e le prostitute.

In questo regolamento era prevista una dettagliata regolamentazione delle case di prostituzione definite come “le case, i quartieri e qualsiasi altro luogo di ricovero

chiuso dove si esercita il meretricio” e, altresì, “quelle case o piani di case, in tutto o in parte affittate a scopo di prostituzione, ancorché ciascuna meretrice viva isolatamente”. Si impediva, poi, l’apertura delle stesse vicino ad asili, scuole e luoghi

di culto e si ordinava che le persiane restassero sempre chiuse (è proprio da qui che deriva la denominazione di “case chiuse” con cui le stesse venivano abitualmente identificate). Il Regolamento Crispi, rispetto alla precedente normativa, stabiliva l’abolizione delle visite e delle cure obbligatorie (trasformate in volontarie) ma, soprattutto, intendeva creare percorsi di riabilitazione delle prostitute attraverso l’istituzione e dei patronati e attraverso il reato di detenzione coatta di una donna, anche qualora fosse entrata spontaneamente all’interno di un postribolo.

La novità più evidente portata dalla normativa era, poi, l'ampliamento a tutta la popolazione più povera del trattamento sanitario per le malattie veneree all'interno di specifici reparti negli ospedali. Le prostitute erano, così, identificate come uno dei vari gruppi di contagio e il controllo medico veniva, poi, svincolato dal controllo di polizia, stabilendo che il ricovero delle prostitute affette da sifilide dovesse avvenire in reparti specializzati all’interno degli ospedali, e non più nei sifilocomi. Nell’intenzione del legislatore ciò avrebbe dovuto facilitare la “riabilitazione delle

prostitute”52 ma la mentalità corrente faticava ad accettare una riforma del genere: le malattie veneree erano indice di depravazione morale e, quindi, i contagiati andavano separati dalla “gente per bene”.

                                                                                                                         

52 Morale A., Studio sulla prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, Tipografia

Il Regolamento Crispi fu sottoposto a parecchie critiche, che si levarono in particolare contro la prevista eliminazione dell’obbligatorietà dei controlli igienico-sanitari. Il Regolamento Nicotera, promulgato nel 1891, cercò di arginare tali critiche prevedendo una disciplina intermedia fra le disposizioni di Cavour e quelle di Crispi. Questo regolamento reintrodusse un sistema più severo di controlli igienici: le visite sanitarie diventarono nuovamente obbligatorie e la vigilanza della polizia divenne costante. Il Ministro ordinò, poi, anche un censimento di tutte le meretrici che vennero, conseguentemente, regolarmente registrate nelle varie regioni e nelle diverse città. Nicotera decise, inoltre, di cambiare la tariffa. Poiché anche le 2 lire dell'epoca di Cavour erano troppo alte, (un operaio guadagnava 3 lire al giorno) e molti ricorrevano alla prostituzione libera, evitando quindi i controlli sulle malattie veneree, il prezzo fu fatto scendere a 1 lira, 50 centesimi per i militari e 70 centesimi per i sottufficiali.

Quest’ultima regolamentazione restò in vigore fino al 1905, quando venne promulgato un nuovo Regio decreto che obbligava ai medici di riportare alle autorità le eventuali patologie riscontrate fra le prostitute nelle case di tolleranza. Oltre a questo controllo diretto lo Stato manteneva, inoltre, una serie di poteri discrezionali di tipo diverso esercitati dalle autorità di polizia (come le norme sul vagabondaggio, sul foglio di via obbligatorio ecc.).

Nel Novecento, a emarginare sempre più il fenomeno della prostituzione, in un momento in cui era meno sentita la minaccia sanitaria per il miglioramento delle condizioni igieniche e per i progressi della medicina, interveniva Cesare Lombroso che, con Guglielmo Ferrero, pubblicava nel 1893 “La donna delinquente, la

prostituta e la donna normale”, dove rafforzava le sue teorie antropologiche

sostenendo che "la regressione naturale delle donne è la prostituzione, e non la

criminalità.53”. Se le donne divenivano prostitute, secondo Lombroso questo era a causa della “pazzia morale, alla mancanza di pudore e all’insensibilità, all'infamia

del vizio”, venendo attirate da ciò che è vietato e dandosi, così, a tale genere di vita,

trovandovi la maniera migliore per guadagnarsi l'esistenza senza lavorare54.

                                                                                                                         

53 Lombroso C., Ferrero G., La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Et.al, Milano,

2009, p.588.

In epoca fascista la prospettiva regolamentarista continuò a mietere approvazioni: il meretricio venne, infatti, regolato definitivamente dal titolo VII del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza approvato con Regio Decreto 18 giugno 1931 n.773 (artt. 190-208) e dal titolo VII del relativo regolamento di attuazione approvato con Regio Decreto del 6 marzo 1940 n.635 (artt. 345- 361).

In conformità a questo sistema la prostituzione poteva essere esercitata solo in quei luoghi che l’autorità di pubblica sicurezza precisava fossero “locali di meretricio”: la prostituzione esercitata fuori da questi ultimi, però, non era ritenuta un illecito a condizione che non si svolgesse abitualmente e in locali chiusi. Il T.U.L.P.S definiva, poi, il principio dell’obbligo di pagamento delle tasse da parte non solo dei tenutari, ma anche delle prostitute, e stabiliva una larga serie di poteri di controllo e vigilanza da parte dell’autorità di Pubblica Sicurezza. Insieme si mantenettero i controlli rigidi non solo sui luoghi, ma anche sulle persone attraverso la schedatura, l’obbligo alle donne di portare con sé il libretto sanitario aggiornato e di sottoporsi a controlli e cure55. Quello che è doveroso evidenziare è, poi, come dal T.U.L.P.S emergesse la preoccupazione di chiarire che le case chiuse non fossero “autorizzate” ma solo “tollerate” con le dovute e opportune cautele previste a tutela del buon costume, dell’igiene e della sicurezza56.