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Capitolo 1 Autismo: complessità e sfida del fenomeno

1.4 Definizione del disturbo e criteri diagnostici

1.4.2 La deriva della gabbia classificatoria

Negli ultimi anni si è assistito ad un vero e proprio dibattito che ha portato la comunità scientifica ad interrogarsi su quale sia la definizione categoriale più appropriata da utilizzare per parlare di autismo. Tale dibattito non sembra essere recente, anzi, le sue origini risalgono alle origini del disturbo stesso: si sono susseguite, infatti, definizioni dell’autismo che vanno da “psicosi infantile” (Kanner, 1943), “autismo” (Bleuler, 1911), “psicopatia autistica” (Asperger, 1991), “disturbo pervasivo dello sviluppo” (DSM-IV, 2000), “spettro autistico” (Wing, 1997; DSM-5, 2013), “autism-like condition” (Kraijer, 1997), “autismi” (Canevaro, 2000).

Ciò che emerge oggi è che i cambiamenti “definitori” evidenziano la ricerca e la comprensione scientifica del fenomeno, costantemente in evoluzione, e dovrebbero influenzare il modo stesso in cui l'autismo viene percepito, compreso e definito all’interno delle società. Le differenze ideologiche, le credenze, i valori di una società hanno, a loro volta, un impatto sul linguaggio che viene utilizzato per descrivere o definire un fenomeno come quello dell’autismo.

La deriva di tale prospettiva è da rintracciare in quel fenomeno che Miguel Benasayag nel testo “L’epoca delle passioni tristi” (2013) definisce come “gabbia classificatoria”. Ciò che accade è che la persona non viene compresa nella molteplicità che caratterizza la sua esistenza ma viene classificata e fatta rientrare all’interno di etichette precostituite. Lo psicanalista argentino, utilizza come esempio di tale deriva proprio il passaggio da una medicina della diagnosi ad una medicina della classificazione che si è affermata, a livello internazionale, attraverso i documenti di classificazione internazionale. Da una logica “clinica

classificatoria” bisogna ritornare alla logica della “molteplicità”. Occorre, in questo senso, considerare la molteplicità non per definire le impotenze ma per scoprire le potenzialità che ciascuno possiede.

Dal punto di vista pedagogico tale riflessione si ricollega, necessariamente, alla concezione di persona intesa come essere molteplice non riducibile ad un insieme di sintomi da classificare e curare attraverso protocolli clinici fissi ed immutabili. Tutto ciò risulta essere particolarmente vero per le persone con disturbo dello spettro autistico: ogni persona con autismo è differente da tutte le altre; non esistono protocolli di intervento definiti; non esistono cure universali; non esistono modelli ri-educativi univoci.

Lorcan Kenny (2015), proprio sul tema dell’etichettamento, ha condotto un’interessante ricerca all’interno della quale ha chiesto alla comunità autistica inglese e a coloro che si interessano di autismo “Which terms should be used to describe autism?”. L’idea della ricerca è nata dai movimenti dei diritti delle persone con disabilità sviluppatisi nel mondo e dalla considerazione che l’uso della lingua potrebbe non adattarsi ai bisogni e alle preferenze di comunità o gruppi specifici. Secondo Jim Sinclair (2013) non è errato o irrispettoso utilizzate le parole “persona con autismo” poiché al disturbo viene anteposta la persona il che non implica che l’autismo debba obbligatoriamente connotarsi come fenomeno negativo. Tale visione si avvicina al concetto di neurodiversità (Singer, 2016) attraverso il quale l’autismo viene considerato come una delle infinite forme che la mente umana può assumere. I risultati dello studio di Kenny (2015) mostrano che non esiste un modo universalmente accettato dalle persone con autismo per descrivere l'autismo. I termini utilizzati dai membri della comunità variano considerevolmente; i principali sono “autismo”, “sullo spettro autistico”, e in misura minore, “disturbo dello spettro autistico”. I professionisti hanno segnalato una chiara preferenza per l'uso di termini quali “persona con autismo”, “persona con Asperger”, mentre persone con autismo e genitori hanno privilegiato i primi termini “autistico” o “persona autistica”. Tali risultati sembrerebbero essere contrastanti con l’attuale concezione della disabilità, secondo la quale la persona non è disabile ma ha una disabilità (ICF, 2001). I dati della ricerca hanno suggerito che i termini utilizzati per descrivere l’autismo dipendono, strettamente, dalle distanze che si hanno col fenomeno: quanto più la persona è a contatto con il fenomeno tanto più si tende ad utilizzare termini

che sembrano evidenziare la disabilità e non la persona. In realtà così non è. L’analisi qualitativa dei dati ha messo in evidenza che gli adulti con autismo ritengono che utilizzare un linguaggio che separa l’autismo dall’identità della persona mina le caratteristiche positive dell’autismo e perpetua la nozione secondo la quale l’autismo è un modo intrinsecamente sbagliato di essere. Per questa comunità, dunque, i termini “autistico” e “persona autistica” debbano essere preferiti ad altri poiché l’autismo è una parte onnicomprensiva dell’identità della persona.

L’aspetto interessante che emerge dalla ricerca è l’adozione di un approccio incentrato sulla persona che ha implicazioni importanti per ricercatori, medici e professionisti. Le persone autistiche e le loro famiglie sono, spesso, escluse dalle decisioni che influenzano la loro vita, tanto da sentirsi privati dei propri diritti. Inoltre, le parole o le frasi che le persone pronunciano o utilizzano possono avere un impatto sulla percezione che la società ha delle persone autistiche e sull’identità dell’individuo stesso (Blaska, 1993; Froschl et al., 1984; Zola, 1993). Sulla base di tali affermazioni diviene ragionevole, dunque, far si che si interessa del fenomeno del disturbo dello spettro autistico utilizzi termini accettati dalle persone con autismo per descrivere una condizione che è principalmente loro. Infine un ultimo spunto di riflessione emerge dagli adulti con autismo che preferiscono l’uso del termine “spettro autistico”. Lorna Wing (1975) ha coniato questo termine per evidenziare l'eterogeneità delle caratteristiche comportamentali legate all’autismo. Tuttavia, il termine “spettro” si riferisce anche alla continuità tra la popolazione generale e la popolazione con autismo. Si è sviluppata, infatti, un’ampia ricerca volta all’indagine della presenza di tratti autistici nell’intera popolazione (Lai et al., 2013). L'idea che tutti condividano elementi dello spettro autistico non è stata ben accettata dal campione della ricerca. In particolar modo le persone con autismo ritengono che la nozione “dei tratti” banalizzi le reali difficoltà e le differenze che coloro che sono autistici affrontano.