Capitolo 2 Il cammino della ricerca sull’autismo
2.2 Lo sviluppo delle teorie psicodinamiche: l’orthogenic school
Nel periodo di tempo che va dalle pubblicazioni dei lavori di Kanner ed Asperger alle prime ricerche condotte attraverso il metodo scientifico, per lo studio del disturbo dello spettro autistico, si sono sviluppate teorie ed interpretazioni del disturbo come risultato di processi psicodinamici conflittuali.
Il movimento psicanalitico, a partire dagli studi e dalle teorie del suo padre fondatore Sigmund Freud, si è espanso e diversificato nel corso del tempo e, nonostante lo sfondo freudiano comune, spesso presenta divergenze interne (Bateman, Holmes, 1998). L’idea generale che si afferma è che l’autismo sia una forma estrema di difesa che il bambino mette in atto per proteggersi o da un mondo che percepisce come pericoloso o dall’assenza di cure da parte dei caregiver. Partendo dalla osservazione dello sviluppo psichico del bambino, Margaret Mahler (1952; 1958; 1978) afferma, infatti, che l’autismo rappresenti una fase di sviluppo normale che tutti i bambini vivono e dalla quale alcuni, per difendersi da stimoli sensoriali forti, non escono o alla quale altri, per via di eventi traumatici, regrediscono dopo un suo iniziale superamento. Per la psicologa americana, infatti, tutti i bambini dalla nascita fino a circa due mesi di vita vivono in uno stato di isolamento psichico, di non differenziazione tra l’Io e l’ES, tra il Sé e il mondo oggettuale, all’interno del quale il sé basta a sé stesso. Il superamento di tale fase di sviluppo, attraverso i processi di simbiosi e di separazione-individuazione, porta alla nascita psicologica della persona. Quando il neonato percepisce il mondo esterno come pericoloso per il proprio mondo psichico o quando risulta incapace, per via dell’assenza di cure adatte, di rispondere ed adattarsi agli stimoli esterni ciò che accade è che mantiene e consolida la fase di autismo normale nella sua forma, però, patologica.
Differente è, invece l’interpretazione proposta da Donald Winnicott che in una sua opera, intitolata “Fear of breakdown” (1974), descrive l’autismo come un’inversione dei processi maturativi dell’individuo che dipende dal rapporto che il bambino instaura con il suo ambiente facilitante. Il bambino, infatti, passa da uno stato di dipendenza assoluta dall’ambiente facilitante ad uno di indipendenza relativa sino all’indipendenza; quando all’interno di tale processo di sviluppo il bambino sperimenta angosce arcaiche (ritorno ad uno stato di non integrazione, perdita di coesione psicosomatica, perdita del senso della realtà, ecc…) viene a costituirsi una struttura difensiva che non permette all’io di maturare e di divenire indipendente dall’ambiente facilitante. È la deficienza ambientale a generare l’autismo poiché il bambino, non potendo provvedere da subito alla propria esistenza, dipende totalmente da esso. Quando l’ambiente non si adatta ai bisogni del bambino e non lo supporta nel processo di sviluppo questo sperimenta la minaccia di annientamento e si trova incapace di stabilire relazioni con la realtà esterna.
Gli studi di Melanie Klein danno, invece, particolare rilievo al mondo interno del bambino, al rapporto tra gli oggetti buoni (esperienze gratificanti) e gli oggetti cattivi (esperienze frustranti), tra l’Io che ama e quello che odia. L’Io già dalla nascita, secondo la psicanalista, riesce a sperimentare stati di angoscia e ad utilizzare meccanismi di difesa che gli permettono di gestire la polarità degli istinti, quello di vita e quello di morte che proietta nella relazione oggettuale. Il bambino, infatti, vive la relazione con il caregiver sotto due diverse prospettive: come esperienza gratificante quanto la relazione di cura riesce a soddisfare i bisogni primari; come esperienza frustrante quando il caregiver è assente o non soddisfa i bisogni del bambino. Sulla base di tali esperienze il bambino sperimenta pulsioni d’amore e di aggressività dirette verso lo stesso oggetto poiché lo percepisce come oggetto parziale. Solo in seguito il bambino percepirà l’oggetto come totale ed imparerà a gestire le pulsioni in modo che l’istinto di vita prevalga su quello di morte. Quando l’ambiente non è stato abbastanza gratificante il bambino non riesce ad integrare l’oggetto parziale in oggetto totale, le pulsioni distruttive e l’istinto di morte prevalgono ma essendo inaccettabili dall’Io, l’Io stesso si annienta sfociando in forme di autismo (Klein, 1946).
La teoria psicodinamica che ha avuto però maggior successo e che ha influenzato in maniera significativa l’idea dell’autismo inteso come “fortezza vuota” è quella di Bruno Bettelheim (1976). L’autismo viene concepito dallo psicanalista austriaco come una situazione estrema, traumatica, dove l’individuo percepisce la propria vita come esposta ad un pericolo di disintegrazione all’interno di un contesto non prevedibile e incerto. Tale stato non è altro che l’effetto di una situazione ambientale che anziché contenere e smentire le angosce del lattante le ha confermate e convalidate. L’ambiente instabile coincide con il desiderio di non esistenza del bambino da parte di un caregiver; un rifiuto radicale della nascita del lattante che porta quest’ultimo ad uno stato di privazione emotiva estrema.
Da tali interpretazioni del disturbo sono derivati trattamenti che, attraverso la pratica psicoanalitica, cercano di ristabilire l’equilibrio intrapsichico che l’Io ha perso nelle prime fasi di vita e sviluppo. La prima tappa obbligata, secondo i diversi sostenitori di tali teorie, è l’allontanamento del bambino dall’ambiente disintegrante, ovvero dalla famiglia. Questa, in quando primo ambiente di vita, viene considerata la causa dell’autismo dei bambini: le pratiche di maternage risultano, infatti, deficitarie, inadatte, ed inappropriate ad accompagnare e favorire lo sviluppo psichico del bambino. Spetta al terapeuta ristabilire tale equilibrio all’interno di un ambiente terapeutico totale. Proprio Bettelheim dedica diversi scritti (1950; 1955; 1976) al Sonia Shankman Orthogenic School, istituto di recupero psichico da lui fondato e diretto nell’Università di Chicago. Lo psicanalista austriaco descrive l’istituto come un luogo all’interno del quale i bambini con disturbi psichici vengono convinti a ristrutturare la propria personalità in modo che essa possa proteggerli da elementi esterni dannosi (1989). Le pratiche di recupero, che consistono nel rivivere e risolvere conflitti intra-psichici passati, richiedono tempi lunghi, almeno tre anni di permanenza del bambino nell’istituto, e non sempre garantiscono il rientro del piccolo paziente nell’ambiente familiare: i bambini che non raggiungono la sanità mentale totale sono trasferiti in istituti speciali.
La comunità scientifica si è sempre posta, nei confronti di tali studi, in maniera critica arrivando, in alcuni casi, anche a ritenere tali teorie infondate e dannose (Pitfield, Oppenheim, 1964; Cox, Rutter, Newman, Bartak, 1975; Eisenberg, 2001; Vivanti, 2010; Cottini, 2002). L’infondatezza delle teorie è
data dalla mancanza dell’utilizzo di un metodo scientifico che provi quanto affermato. Ricerche condotte dai gruppi di ricerca di Pitfield (1964) e Cox (1975), comparando le pratiche di maternage di famiglie con bambini con autismo con quelle di famiglie con bambini con altri disturbi e bambini con sviluppo tipico, mostrano che in molti casi di rifiuto affettivo da parte dei genitori non si generi autismo nei bambini e, in altri casi, le pratiche di maternage tra le varie famiglie non differiscono affatto. In maniera quasi intuitiva, inoltre, si potrebbe affermare che se l’ambiente familiare fosse la reale causa del disturbo l’allontanamento da essa dovrebbe portare i bambini alla guarigione; in realtà, come presentato dallo stesso Bettelheim la guarigione non è assicurata. Il danno che ne deriva è determinato dalle pratiche di allontanamento del bambino dalla famiglia: conseguenze negative si hanno, infatti, sia sul bambino che viene allontanato dal nucleo familiare che fino a quel momento ha rappresentato il suo principale ambiente di vita, sia sui genitori che si sentono colpevoli di un reato mai commesso.