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Capitolo 4 Dall’apprendimento all’insegnamento

4.1 Trattamento educativo o clinico-riabilitativo?

Gli approcci educativi dedicati all’autismo che si sono rivelati essere, nel corso del tempo, funzionali all’apprendimento di comportamenti, abilità e capacità comunicativo–sociali, vengono spesso definiti come “trattamenti

educativi” dove il termine trattamento rimanda all’origine riabilitativa e clinica dei principi di base che sono stati poi trasposti in ambito educativo ed adattati ai contesti scolastici e alle finalità educative (Agrillo, Sibilio, 2016). Goussot (2015) individua l’origine dell’uso del lemma “trattamento” nel paradigma biomedico che, fino agli inizi dei primi anni del duemila, ha permeato tutti gli ambiti di vita dell’uomo compreso quello educativo.

Si è assistito, infatti, all’interpretazione e all’inscrizione delle difficoltà di apprendimento, che esistono in qualsiasi processo di crescita e sviluppo, all’interno di categorie quali norma e salute. Come spiega Goussout (2015) la tendenza alla medicalizzazione derivante da tale paradigma fa si che gli alunni vengano categorizzati sulla base di criteri diagnostici e che gli interventi educativi acquisiscano un alto tasso di tecnicismo e di applicazione procedurale. Tale tendenza emerge in maniera evidente nella metà degli anni novanta, quando vengono marginalizzati gli aspetti sociali, relazionali e culturali del processo di sviluppo in favore di tecniche che risultano essere più attendibili sul piano scientifico. Alla pedagogia e alla didattica, infatti, vengono mosse critiche relative: alla mancanza di una ricerca che tenga conto dei risultati già esistenti e delle esperienze condotte; ad un tipo di ricerca speculativa e non supportata da dimostrazioni scientifiche; alla mancanza di un metodo di ricerca quantitativo con protocolli, tecniche e strategie definite; alla mancanza di comunicazione tra la ricerca accademica e il mondo educativo (Goussot, 2015).

Si assiste così allo sviluppo di procedure di insegnamento da applicare in modo standardizzato e che traggono spunto da approcci di tipo psicologico e metodi quantitativi; la tendenza è, infatti, quella di catalogare, definire e classificare attraverso l’uso di strumenti di valutazione che riducono la complessità dell’uomo a processi di sviluppo e crescita.

Interessanti critiche alla logica della medicalizzazione dell’educativo sono state mosse Martyn Hammersley, docente e ricercatore in scienze dell’educazione e scienze sociali della Open University, che precisa alcuni aspetti fondamentali della ricerca in educazione: in ambito educativo, per via dello statuto epistemologico, è necessario far riferimento ad un pluralismo metodologico di ricerca; lo sviluppo umano, la relazione ed il processo di insegnamento-apprendimento hanno un alto tasso di imprevedibilità, per cui il modello di tipo causalistico risulta essere inadeguato; il paradigma bio-medico

trascura il ruolo del contesto sociale e storico-culturale, dunque, non tiene conto dei rapporti che gli uomini instaurano e dei processi sociali sottostanti tali rapporti mentre la relazione educativa è mediata dal contesto storico-sociale di riferimento, dalla soggettività delle persone; generalizzare categorie diagnostiche o tecniche di intervento in ambito educativo non è utile poiché ogni alunno ha una propria storia, un proprio personale percorso di crescita, vive in un determinato contesto scolastico ed ha diritto ad un’educazione personalizzata; la medicalizzazione non tiene conto dei codici culturali, dei vissuti degli alunni e dei docenti, dei valori che spingono famiglie e scuola ad agire in virtù dell’educazione delle nuove generazioni.

Accade, però, che lo sguardo e l’osservazione pedagogica vengono, pian piano sostituiti dallo sguardo diagnostico-clinico che punta l’attenzione non sulle potenzialità, le capacità e gli interessi dell’alunno ma bensì sui suoi sintomi, incapacità e problemi. Gli insegnati si trovano, dunque, ad avere una percezione distorta del proprio compito educativo. Goussot scrive che i docenti indossano “gli occhiali del neuropsichiatra o dello psicologo clinico per osservare gli alunni, in particolare quelli considerati come difficili e problematici. Lo sguardo è quello diagnostico che mette l’accento sui sintomi, le difficoltà e le disfunzionalità, sostituisce lo sguardo pedagogico che punta invece sulle potenzialità, le capacità e il saper fare […] l’insegnante in questo modo trova anche un alibi per delegare all’esperto del disturbo e del sintomo la gestione del caso e non s’interroga più sulle proprie modalità d’insegnamento, la sua didattica e la sua postura pedagogica nella relazione con gli alunni” (2015, p.33).

Accade allora che anche l’intervento individualizzato diviene uno strumento standardizzato ed identico agli altri poiché non calato sulla specificità delle relazioni educative e del contesto di vita del bambino ma basato esclusivamente sulla categoria diagnostica di riferimento.

Di fronte a bambini con autismo, che sembra non vogliano imparare o che non posseggano gli strumenti per poterlo fare, i docenti aspettano risposte dagli esperti, cercano soluzioni preconfezionate che non esistono data la natura complessa del disturbo.

Goussot propone, a tal riguardo, una rivendicazione, da parte dei docenti, del proprio ruolo e dei propri compiti. I docenti, infatti, devono rivendicare la

scientificità del proprio lavoro ed osservare attraverso una lente pedagogica gli interessi dell’alunno, le personali modalità di apprendimento, le inclinazioni, le capacità ed il linguaggio che utilizza per poter personalizzare le pratiche di insegnamento. Il docente deve, inoltre, divenire padrone consapevole della relazione educativa ed organizzarla sulla base delle dinamiche di gruppo, sempre presenti nelle classi, al fine di creare condizioni favorevoli allo sviluppo dell’apprendimento attraverso strumenti quali l’ascolto, la mediazione ed intenzionalità consapevole.

Tale prospettiva è maturata sempre più a partire dai primi anni del duemila quando, attraverso l’emersione e lo sviluppo del paradigma bio- psico- sociale la pedagogia e la didattica hanno trovato sostegno a ciò che da sempre hanno professato. Le difficoltà di apprendimento, infatti, non vengono più considerate come risultato di un deficit a carico del sistema organico della persona ma come il risultato dell’interazione tra componente biologica psicologica e sociale. Emerge, dunque, la necessità di riconsiderare il contesto sociale e culturale all’interno del quale il progetto educativo si realizza: ciò comporta necessariamente una valutazione dei trattamenti e degli interventi sviluppati in ambito clinico-riabilitativo al fine di comprendere se e come questi possano essere adattati ed utilizzati in ambito educativo. Il docente deve dunque operare secondo uno schema di riflessività; deve essere in grado di analizzare quanto proposto dall’esterno, comprenderne le concezioni, i valori e le idee, scegliere quali elementi del modello utilizzare in ambito educativo perché utili ed adattarli alle pratiche.