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Aristotele torna poi al suo proposito principale, cioè dimostrare come il ruolo della privazione sia ciò che permette di superare le aporie che rendevano inspiega- bile il movimento ai pensatori della scuola eleatica e che spingevano Platone ad af- fermare che della realtà sensibile, molteplice e in divenire, non è possibile avere una conoscenza vera ma solo un‘opinione. Il loro errore fu confondere la materia con la privazione, mentre per lo Stagirita esse non coincidono, infatti afferma che ―materiam quidem non ens esse secundum accidens, privationem autem per se; et materiam quidem prope et quodammodo substantiam, privationem autem nequaquam‖72

.

Stabilita questa distinzione, il divenire può essere spiegato agevolmente attra- verso una dinamica simile a quella del desiderio, che non potrebbe darsi senza la mancanza dell‘oggetto desiderato:

―Existente enim quodam divino et bono et appetibili, aluid quidem contrarium ipsi dicimus esse, aliud autem, quod natura aptum est appetere et desiderare ipsum secundum suam ipsius naturam (…). Attamen neque ipsum suam ipsius possibile est appetere formam, propterea quod non est indigens, neque contrarium, corruptiva anim sunt suiinvicem contraria: sed hoc est materia, sicut si foemina masculum, et turpe pulchrum…‖73.

La forma non può desiderare se stessa né ciò che le è contrario, pena la distruzione, né per lo stesso motivo la privazione può desiderare la forma: i due contrari non sono gli elementi desideranti. Solo la materia può essere l‘elemento che desidera, mentre l‘oggetto desiderabile non può che essere la forma, in quanto la privazione è non essere per sé, elemento negativo e indesiderabile. Ad esempio, considerando un mutamento da bianco a nero, dovremmo dire che, nel momento iniziale, il bianco non è nero e, affinché ci sia divenire, è questo ‗non‘ che deve essere trasformato in qualcosa di positivo, è il ‗non essere nero‘ ciò che deve mutare ed è quindi solo que- sto l‘aspetto che interessa a coloro che riflettono sul divenire, perché il bianco, se considerato in quanto bianco, non ha nulla in sé che spieghi il mutamento in un al- tro colore, mentre se considerato come ‗non nero‘, cioè come privazione del suo contrario, allora si dà la possibilità della trasformazione. Solo l‘inserimento di que- sto ‗non‘ permette di rendere dinamico ciò che è stabile. D‘altra parte, la materia non potrebbe desiderare se non fosse priva di ciò che desidera: è la privazione il vero elemento motore del processo di acquisizione di forma da parte del sostrato. La materia è, eppure diviene, perché ospita in sé una mancanza e senza tale non essere non si darebbe neppure la processualità della realtà sensibile, quella processualità che cade direttamente sotto i nostri sensi e, come tale, non può essere negata:

71 Ivi, p. 303. 72 A

RISTOTELE, De Physico auditu, I,t. 79, f. 44K (Phys., 192a 4-5). 73 Ivi, t. 81, ff. 45M-46A (ivi, 192a 16-23).

―Nobis autem supponatur ea, quae sunt natura, aut omnia aut quaedam moveri: manifestum est autem ex inductione‖74.

Aristotele riesce quindi ad integrare il non essere nell‘essere grazie all‘introduzione del concetto di privazione, che è non ens per se ma che viene attri- buito al sostrato, il quale diventa a sua volta non ens per accidens: solo in quanto af- fetta dalla privazione la materia è non essere determinato (ossia non è non essere in senso assoluto, ad esempio, un oggetto bianco non è nero, ma non si può affatto dire che non sia tout-court), ma una volta cessata l‘azione della privazione tale difetto viene meno. Questa relazione tra materia e privazione consente inoltre di affermare che la materia, in un certo senso, è ingenerabile e incorruttibile:

―Corrumpitur autem et fit, est quidem ut sic, est autem ut non: quatenus enim est, id in quo secundum se corrumpitur, quod enim corrumpitur in hoc est privatio. Quatenus autem secundum potentiam, non per se, sed incorruptibilem et ingenitam necesse est ipsam esse‖75.

A subire il processo di generazione e corruzione è sempre il sostrato determinato o dalla forma o dal suo contrario, quindi è il non essere particolare definito dalla pri- vazione (che è sempre l‘altra faccia dell‘essere particolare determinato dalla forma), il quale è destinato a sparire con l‘assunzione di una nuova forma. La materia di- viene solo in quanto ospita in sé la privazione mentre, se considerata in sé, al di là della forma e del suo contrario, è un sostrato neutro ed indifferenziato, come sembra suggerire Aristotele, che tuttavia tende a riferire i suoi esempi a materie particolari:

―Subiecta autem natura scibilis est secundum analogiam. Ut enim ad statuam aes, aut ad lectum lignum, aut ad aliud aliquid habentium formam materiam et informe se habet priusquam accipiat formam, sic haec ad substantiam, et hoc aliquid, et quod est se habet‖76.

Questa indeterminatezza è ciò che, da un lato, impedisce alla materia di mutare, in quanto non essendo né ‗x‘ né ‗-x‘ non può evolversi nel suo opposto (e, come af- ferma lo Stagirita, il mutamento avviene sempre da un contrario all‘altro), e quindi le consente di fungere da sostrato permanente. Dall‘altro lato, però, la stessa inde- terminatezza la configura come una pura possibilità e in questo consiste il legame tra il concetto di sostrato e il concetto di potenza, che nel primo libro della Physica è solo accennato: se la materia non è di per sé caratterizzata in alcun modo, può as- sumere qualsiasi forma e può divenire qualsiasi cosa. Soltanto il sopraggiungere di una forma determinata può cristallizzare il possibile in reale, quindi soltanto l‘acquisizione di una forma attualizza la pura potenzialità della materia, che proprio per questo non ha di per sé un‘esistenza effettiva.

Anche per Averroè è necessario un sostrato comune al di sotto del mutamento

74 Ivi, t. 11, f. 10H-K (ivi, 185a 12-14). Dato il contesto, con il termine ‗inductio‘, che traduce il greco

‘\epagwgéh’, Aristotele sembra riferirsi non tanto al sillogismo induttivo, quanto al processo conoscitivo generale con cui dall‘esperienza sensibile del particolare si passa all‘intellezione dell‘universale. L‘enfasi sembra quindi posta sulla necessità dell‘apporto dei sensi alla conoscenza.

75 Ivi, t. 82, f. 46G-I (ivi, 192a 25-29). 76 Ivi, t. 69, f. 40G (ivi, 191a 8-12).

tale che sia ―in potentia ens omnes dispositiones substantiales, et accidentales, et hac dicitur prima materia et prima hyle‖77. Sostenendo questa posizione, il filosofo di Cordoba dimostra di dare particolare rilevanza al concetto di materia prima, intesa come sostrato universale che precede ogni determinazione corporea (pur non es- sendo del tutto scevra di corporeità) in modo tale da rendere possibile l‘acquisizione di qualsiasi forma. In Aristotele questa considerazione resta quasi implicita perché, sebbene il procedimento da lui illustrato conduca quasi necessariamente a porre l‘esistenza di un sostrato ultimo e neutro al di sotto di tutti i mutamenti, gli esempi forniti dallo Stagirita sono sempre relativi a materie particolari, come il legno, il bronzo o l‘oro. Inoltre, Averroè collega esplicitamente il concetto di privazione a quello di potenza: la materia è in potenza ogni cosa perché è priva di tutte le forme, cioè è in potenza proprio in quanto è ciò ―cui accidit privatio non in sua substantia‖78

, ossia ciò che è caratterizzato accidentalmente dalla privazione, che è puro nulla (non ens per se), ponendosi così come non ens per accidens. In questo modo, il divenire avviene allo stesso tempo sia dal non ente, che però non è vera negazione dell‘essere, sia dall‘ente, che però non è affermazione assoluta di tutti i modi dell‘essere79

. La privazione è il concetto che permette di gettare un ponte tra la nega- zione assoluta e l‘affermazione assoluta.

Anche l‘Aquinate esplicita il concetto di materia prima come sostrato di ogni forma, conoscibile per analogia con le forme assunte ed ―ens et unum in quantum est in potentia ad formam‖ 80, ma senza l‘incisività di Averroè. In riferimento ai con- cetti di atto e potenza, Tommaso si richiama al primo capitolo del nono libro della Metaphysica, che a sua volta riassume il dodicesimo capitolo del quinto libro, in cui l‘impotenza è definita come privazione di potenza e quindi ricollegata ai vari signi- ficati di ‗privazione‘. Ma il vero collegamento tra i due concetti è costituito da que- sto: ―Ex ente igitur in potentia fit aliquid per se, ex ente autem in actu, vel ex non ente, fit aliquid per accidens‖81

. L‘atto è esplicitamente ricollegato alla forma iniziale della cosa che muta e quindi anche alla privazione della forma finale che la caratte- rizza, e la privazione, che è non ens per se, non è in grado di produrre alcun muta- mento se considerata in se stessa. Tuttavia, solo ciò che ha connaturata in sé la pri- vazione è autenticamente fonte del divenire, mentre ciò che è già completamente attualizzato (la forma iniziale) non può essere, di per sé, causa di trasformazione, perché non manca di nulla e non ha quindi nessuno stimolo all‘evoluzione.

Aristotele, come abbiamo visto, critica coloro che hanno identificato materia e non ens e a questo riguardo Bruno commette un piccolo errore, com‘è stato notato da Tocco. Il Nolano, infatti, classifica Parmenide tra coloro che non hanno ben com- preso la materia anziché tra coloro che l‘hanno totalmente negata. Aristotele, invece, rivolge questa critica a Platone e ai suoi seguaci che, seguendo la negazione parme- nidea della molteplicità e del divenire, riducono la materia a non essere82

. Al di là di

77 A

VERROÈ, In Physicam, I, comm. 63 (f. 38D). 78 Ivi, comm. 79 (f. 45C).

79 Cfr. ivi, comm. 75 (f. 43F-I).

80 TOMMASO, In Physicam, I, lect. XIII, n. 9. 81 Ivi, lect.

XIV, n. 8. 82 Cfr. T

questo errore, Bruno riporta la distinzione aristotelica tra materia e non ens per accidens da una parte e privazione e non ens per se dall‘altra, distinzione che consente di affermare senza contraddizione che le cose divengono dal non essere, cioè dalla privazione: ―Fit ergo aliquid ex non ente secundum accidens, quia fit ex materia, quae est secundum accidens non ens; fit item aliquid ex non ente per se, quia est ex privatione, quae scilicet est non ens per se‖83.

Bruno, proseguendo in maniera puntuale, riproduce il passo in cui Aristotele dimostra come, ricorrendo al concetto di privazione, sia possibile superare l‘assurda conclusione secondo cui la materia desidererebbe il proprio annientamento: se la materia, non distinta dalla privazione, desidera la forma, che è il suo contrario, al- lora desidera la propria distruzione, il che è assurdo. Se invece si distinguono mate- ria, l‘elemento desiderante, e privazione, la causa del desiderio, non si cade più in questa assurdità84

.

Poco più in là, commentando il passo in cui Aristotele sostiene l‘ingenerabilità e l‘incorruttibilità della materia in quanto potenza, Bruno osserva che nemmeno la privazione è generabile e corruttibile e solo in senso lato la si può definire ‗contrario corrotto‘:

―Item neque contrarium ipsum seu privatio est corruptibilis iuxta veram corruptibilitatis et generabilitatis rationem; latius autem istis vocabulis utentes corruptionem dicimus privationem quamlibet, qua aliquid de esse procedit ad non esse, sicut illa privatio contrarium corruptum dicitur, quia ablatum, sicut et accidentia etiam et qualitates dicuntur corrumpi‖85.