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1.4.3 La privazione come principio per accidens

Dato il rapporto tra i contrari fin qui delineato e data la necessità del sostrato, Aristotele precisa che i principi del divenire possono esser considerati anche sol- tanto due:

―Quocirca est quidem ut duo dicenda sint principia, est autem ut tria, et est quidem ut contraria (...), est autem ut non: a seinvicem enim contraria pati impossibile. Solvitur autem et hoc, propterea quod aliud est subiectum, hoc enim non est contrarium. (...) Et manifestum est quod oportet subiici aliquid contrariis, et contraria duo esse, quodam autem modo alio non necessarium est. Sufficiens enim erit alterum contrariorum absentia et praesentia facere mutationem‖60.

La forma, assieme al sostrato, sarebbe pertanto sufficiente a spiegare il divenire con

58 Cfr. ARISTOTELE, De generatione, I,tt. 11-21, ff. 350C-354D (De gener. et corr., 317a 32-319b 5). 59 Cfr. B

RUNO, Libri Phys. expl., p. 300. 60 A

la sua assenza o presenza.

A partire da questa affermazione, Averroè introduce la distinzione tra principia per se e principia per accidens del divenire. Infatti, forma e sostrato ―sunt pars substantiae rei‖61, cioè permangono in ciò che costituisce il risultato finale del pro- cesso del divenire, ossia il sinolo, e da essi avviene propriamente la generazione, quindi ―necesse est ut omne generabile generetur ex forma et subiecto‖62, mentre la privazione, in quanto non è parte del prodotto del divenire, ha soltanto un ruolo transitorio e non contribuisce a definire la natura della cosa generata.

Tommaso d‘Aquino ripropone questa distinzione, ma coglie l‘occasione per pre- cisare che la privazione è semplice assenza di forma che caratterizza accidental- mente il sostrato e non un‘attitudine alla forma, che è già qualcosa di positivo:

―privatio (...) non est aliqua aptitudo ad formam, vel inchoatio formae, vel aliquod principium imperfectum activum, ut quidam dicunt, sed ipsa carentia formae vel contrarium formae quod subiecto accidit‖63.

L‘Aquinate si riferisce polemicamente a una dottrina elaborata dal suo maestro Al- berto Magno, che prendeva le mosse dalla tradizione neoplatonico-agostiniana. Nella tarda antichità, infatti, sul problema del passaggio dall‘atto alla potenza si sviluppò una scuola di pensiero che unì alla dottrina aristotelica suggestioni stoiche e neoplatoniche e che trovò il suo sbocco nella filosofia cristiana con Agostino. Que- sto filone sostiene che la potenzialità della materia consiste in una capacità di svi- luppo dovuta al fatto che in essa sono già presenti le forme, seppure incomplete e confuse, che verranno poi portate all‘atto e alla perfezione dal principio attivo. In questo modo, le rationes seminales degli stoici e di Plotino diventano le attitudini alla forma o inchoationes formae64.

Alberto Magno definisce inchoatio formae l‘appetito della materia per la forma e la connette immediatamente con la privazione: la materia, infatti, è pura potenzialità, ma ―potentia haec est potentia inchoationis formae, hoc modo quo omnis habitus inchoantur in sua privatione; ambitus enim unius generis continet et privationem et habitum‖65. Questa inchoatio formae o aptitudo formalis è da considerarsi come passiva potentia recipiendi formam perché prepara la materia ad accogliere l‘azione degli agenti naturali. Nella cosmologia di Alberto Magno, in realtà, la diversità delle di- sposizione della materia luogo per luogo sono determinate dai primi agenti naturali, cioè gli influssi celesti, quindi le particolari privazioni che provocano le singole inchoationes sono pur sempre passive perché frutto di un agente estrinseco, anche se mettono la materia nella condizione di cacciar fuori le forme dal suo seno, piuttosto che di limitarsi a riceverle passivamente dal solo efficiente. A una simile sugge-

61 AVERROÈ, In Physicam, I, comm. 65, f. 39B. 62 Ivi, f. 39C.

63 T

OMMASO, In Physicam, I, lect. XIII, n. 5.

64 Per una trattazione esauriente di questo argomento, cfr. B

RUNO NARDI, La dottrina d‟Alberto Magno

sull‟«inchoatio formae», in ID., Studi di filosofia medievale, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1960,

pp. 67-101.

65 A

LBERTO MAGNO,Summa theologiae, II, q. 4, m. 2, a. 4 (citato in NARDI B., La dottrina d‟Alberto Magno

stione Bruno non è certo indifferente: ricordiamo infatti che, nel criticare la dottrina aristotelica della privazione, aggiunge esplicitamente che ad essa è ―congionta certa disposizione‖66

.

All‘affermazione aristotelica che i principi del divenire possono essere conside- rati anche soltanto la materia e la forma e che sia possibile porre in secondo piano la privazione, nella Figuratio Bruno aggiunge delle illationes che, pur non corrispon- dendo in maniera precisa al testo aristotelico67, sono comunque fedeli al suo spirito e riecheggiano le interpretazioni di Averroè e dell‘Aquinate. In questo contesto, Bruno sottolinea soprattutto il concetto della permanenza del sostrato al di sotto del processo di mutazione e, come tutti i commentatori che l‘hanno preceduto, distin- gue tra i principi per sé, cioè il sostrato e la forma che permangono nel risultato fi- nale del divenire, e il principio per accidente, ossia la privazione che, pur inne- scando l‘intero processo, non permane nel risultato. Si tratta di termini non utilizzati da Aristotele, ma fedeli comunque alle sue osservazioni sulla non permanenza della privazione nel sinolo e ormai entrati nel lessico scolastico68

.

Le medesime osservazioni ritornano anche nei Libri Physicorum, laddove Bruno distingue tra principi ed elementi. I principi intrinseci, dice il Nolano, sono anche elementi che costituiscono la cosa fatta, mentre la privazione, sebbene sia causa e principiante (e non principio), non è affatto elemento, poiché non sussiste nel risul- tato del mutamento69, pur avendolo innescato:

―Duo quidem sunt per se principia et intrinseca, seu in re facta seu in effectu, et quae rationem elementi habent; tria vero, si adnumeretur principium quod habet rationem causae et principiantis, et non elementi, et hoc est contrarium quod privationem appellamus: et hoc ad generationem pertinere magis dicimus quam ad res genitas, quia tale principium est quale in principiato non inspicitur, et ideo principium secundum accidens esse videtur‖70.

Questo è ripetuto anche poco oltre: dei contrari, quello che recede è la privazione e quello che permane è la forma e, nel definire il risultato del divenire, sono sufficienti materia e forma, anche se la privazione serve a spiegare il divenire stesso:

―Duo quidem, si ad elementa, ex quibus res principiata componitur, respiciamus, in quibus privationi nullus est locus, quandoquidem

66 B

RUNO, Causa, p. 744.

67 Delle prime tre illazioni si può trovare una corrispondenza precisa (Cfr. A

RISTOTELE, De physico

auditu, I,t. 59, f. 35G – Phys., 190a 9-13; ivi, t. 61, f. 36I-K – ivi, 190 a 21-23; ivi, t. 66, f. 39 D-E – ivi, 190b 23-27), le altre quattro sono invece ispirate ai commenti di Averroè.

68 Cfr. B

RUNO, Figuratio, pp. 151-152.

69 Anche questa osservazione è genuinamente aristotelica: nella Metaphysica, infatti, Aristotele definisce

‗elemento‘ ―ex quo componitur primo inexistenti indivisibili specie in aliam speciem‖ (ARISTOTELE,

Metaphysica, V, t. 4, f. 104L; Metaph., 1014a 36-37), sottolineando così il carattere di intrinsecità (in-

existens) che l‘elemento deve possedere per essere tale. I principi intrinseci e permanenti, pertanto,

sono elementi, mentre le cause transeunti non lo sono.

70 B

definientes subiectum, utpote eius rationem adducentes essentialem, materia contenti sumus atque forma‖71.