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La trattazione teorica degli elementi sublunari inizia nella seconda parte del terzo libro del De caelo e si apre con la definizione di elemento: ―Sit itaque Elementum, illud corporum in quod alia corpora dividuntur, quod inest potentia, aut actu: hoc enim utro modo adhuc ambiguum est. Ipsum autem est indivisibile in diversa specie‖3. Gli elementi sono le parti ultime che compongono i corpi e che non pos- sono essere ulteriormente suddivise non perché siano a tutti gli effetti indivisibili, ma perché non possono essere risolte in entità di natura diversa: il risultato della divisione di un elemento sarà costituito da parti omogenee e uguali a quello stesso elemento, mentre il risultato della suddivisione di un corpo composto sarà costituito

3 A

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da parti diverse fra loro e diverse dal corpo iniziale. A questo proposito, Averroè sente il dovere di precisare che questi elementi non sono gli stessi di cui Aristotele ha trattato nella Physica, cioè i tre principi del divenire materia, forma e privazione:

―hic autem intendit declarare elementa corporum compositorum tantum, quae aequivoce dicuntur elementa cum illis, quoniam, cum compositorum dividetur, non existunt in actu. Forma enim corrumpitur et materia induit aliam formam (…); elementum enim est aliquid in actu, cum compositum dissolvatur in ipsum, sed ipsum non dissolvitur in alia existentia in actu‖4.

Gli elementi di cui Aristotele sta ora parlando sono impropriamente definiti tali perché, una volta dissolto il composto, essi possono sussistere in atto, mentre forma e materia non esistono attualmente una volta separati, anzi la forma si corrompe e la materia ne accoglie di nuove per poter sussistere e pertanto non possono essere de- finite elementi se non equivocamente. La non sussistenza dei principi al di fuori del sinolo è presentata da Averroè con un certo sbilanciamento dalla parte della forma, che assume un carattere più evanescente della materia, la quale, in quanto sostrato, ‗sopravvive‘ alla perdita della forma iniziale grazie al subentrare di una nuova forma.

Come ho già accennato, questo (assieme ad un breve cenno sulla dimostrazione dell‘esistenza degli elementi che vedremo fra poco) è l‘unico argomento su cui è possibile esaminare l‘opinione di Tommaso d‘Aquino. Il domenicano divide la defi- nizione in tre parti: ―prima est, quod elementum aliorum corporum est, in quo alia corpora dividuntur seu resolvuntur‖5

. Da ciò deriva che anche materia e forma sono elementi in quanto entrano nella composizione delle cose, ma tuttavia non sono og- getto di questa analisi perché Aristotele vuole trattare ―de elementis quae sunt corpora‖6, mentre i principi suddetti concorrono alla formazione dei corpi ma non sono essi stessi corpi. L‘Aquinate, come Averroè, sente il bisogno di distinguere tra elementi e principi, ma riconosce a questi ultimi lo status di ―universalia elementa‖7 in quanto, non ancorando la definizione alla loro esistenza in atto fuori dal compo- sto, si limita ad osservare che questi sono i componenti ultimi di ogni cosa. Si noti che, nel commentare il primo libro della Physica, anche Bruno tendeva ad attribuire a materia e forma lo status di elementi in quanto sussistenti nel composto, risultando in ciò più vicino all‘Aquinate che ad Averroè8

.

Per Tommaso, la seconda parte della definizione consiste nel fatto che ―elementum existit in eo cuius est elementum, potentia aut actu‖9

. In questo passo, Aristotele non stabilisce se il tipo di esistenza degli elementi nei composti sia poten- ziale o attuale e per Tommaso questa mancata definizione è posta ―sub dubitatione‖10, cioè si dovrebbe intendere che lo Stagirita sia ancora in dubbio tra le

4 A

VERROÈ, In De coelo, III,comm. 31, f. 201A-B. 5 T

OMMASO D‘AQUINO, In De Caelo, III, l. VIII, n. 6. 6 Ibid.

7 Ibid.

8 Cfr. supra, p. 36. 9 T

OMMASO, In De caelo, III, l. VIII, n. 6. 10 Ibid.

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teorie di Empedocle e Anassagora, che prevedono una generazione per aggrega- zione ed implicano l‘esistenza attuale degli elementi, e quella che ritiene che la ge- nerazione avvenga per alterazione e implichi un‘esistenza potenziale degli elementi. Anche Averroè aveva notato la duplicità delle opzioni indicata da Aristotele, ma l‘aveva ricondotta a una precisa volontà di proporre una definizione universale che potesse essere accettata anche dai suoi avversari: ―haec definitio est universalis omnibus opinionibus de elemento‖.11

Infine, la terza parte della definizione è che ―elementum non dividitur in alia, scilicet diversa secundum speciem‖12. Ciò significa che dalla divisione di un ele- mento si otterranno più parti dello stesso elemento, ma non parti di natura diversa. Per questa ragione l‘Aquinate afferma che ―etiam elementa locutionis dicuntur litterae, quae non dividitur in diversa secundum speciem‖13, richiamando un esem- pio fatto da Aristotele nella Metaphysica14

e così spiegato da Averroè: ―sicut elementa syllabarum, quae dividuntur in consonantes et vocales, istae enim litterae non dividuntur in alias diversas ab eis (…) et cum voces compositae, scilicet dictiones, dissolventur, ad istas pervenient‖15. Le lettere sono considerate gli elementi della parola in quanto non ulteriormente scomponibili, mentre le sillabe, che sono invece divisibili in lettere, non sono elementi.

Aristotele intende dapprima dimostrare l‘esistenza degli elementi, per poi de- terminarne il numero, la natura e la localizzazione; tuttavia in quest‘opera sembra dare per scontato che i quattro elementi proposti dai suoi predecessori siano i corpi semplici sui quali verte la sua indagine. Non dimostra la liceità di questa identifica- zione in quanto non spiega né a quale titolo fuoco, aria, acqua e terra possano essere considerati corpi semplici, né perché non se ne possano ammettere altri oltre a que- sti quattro.

Lo strumento euristico che Aristotele userà per comprovare tutte le sue argo- mentazioni consiste nello stabilire una connessione tra i tipi di movimento e i tipi di corpi. In primo luogo, l‘esistenza degli elementi è dimostrata dal fatto che, poiché esistono movimenti semplici e movimenti composti e che i corpi composti hanno movimenti composti, ai movimenti semplici devono corrispondere corpora simplicia16

. L‘unico altro commento disponibile di Tommaso d‘Aquino è per l‘appunto la fedele esposizione di questa dimostrazione, di cui Averroè non fa men- zione alcuna:

―omnis corporis naturalis est aliquis proprius motus; et cum sint quidam motus simplices, quidam mixti, manifestum quod mixti motum sunt mixtorum corporum, simplices autem sunt simplicium corporum. Et ex hoc

11 AVERROÈ, In De coelo, III, comm. 31, f. 200M. 12 TOMMASO, In De caelo, III, l. VIII, n. 6. 13 Ibid.

14 ―Elementum dicitur, ex quo componitur primo inexistenti indivisibili specie in aliam speciem, ut

vocis elementa, ex quibus componitur vox et in quae ultima dividitur: illa vero non amplius in alias voces ab ipsis specie diversa, sed et si dividantur, particulae tamen eorum eiusdem speciei sunt, ut aquae particula aqua, sed non syllabae‖(ARISTOTELE, Metaphysica, V, t. 4, f. 104L; Metaph., 1014a 27-31). 15 A

VERROÈ, In libros Metaphys., V, comm. 4, f. 105I. 16 A

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manifestum est quod sunt quaedam corpora simplicia cum sint quidam motus simplices‖17.

Il problema successivo consiste nello stabilire se il numero degli elementi sia fi- nito o infinito: questa seconda teoria fu sostenuta sia da Anassagora, che riteneva esistessero infinite omeomerie, sia dagli atomisti pre-socratici. Entrambe queste po- sisizioni sono rifiutate in primo luogo per un‘esigenza euristica di semplicità: ―manifestum est quod longe melius est finita facere principia et haec [quoque] minima, si eadem quidem omnia demonstranda sint, quemadmodum censent et qui in Mathematicis versantur‖18

. In secondo luogo, il numero degli elementi deve es- sere finito perché sono limitati i criteri per i quali un corpo si distingue dagli altri, anche se lo stesso Aristotele ammette che per ora questo argomento è solo una petitio principii in quanto ―differunt enim ipsis sensibilibus, haec autem finita sunt, oportet autem hoc ostendi‖19

. Se il primo argomento deriva da un‘esigenza di rigore e semplicità che possa avvicinare la filosofia della natura alle discipline matemati- che e alla loro certezza, il secondo deriva invece da una serie di osservazioni empiri- che che possono essere assunte come ipotesi, ma che richiedono anche una dimo- strazione rigorosa. Tra le varie caratteristiche che differenziano i corpi, tuttavia, ce n‘è almeno una di cui è già possibile dimostrare la finitezza: se i corpi semplici sono dotati di moti semplici e i moti semplici sono in numero finito in quanto solo due sono i luoghi naturali verso i quali un corpo può dirigersi con un moto rettilineo, allora anche i corpi semplici saranno in numero finito. Questo è l‘argomento defini- tivo e si basa sia sulla connessione tra corpi e movimenti che abbiamo evidenziato, sia sulla teoria dei luoghi naturali, sviluppata nei primi due libri del De caelo, in cui si dimostra che, come conseguenza della finitezza e della circolarità del cosmo, esi- stono un alto assoluto, che corrisponde al suo estremo limite, e un basso assoluto, cioè il suo centro. La radice ultima di questa argomentazione è dunque di natura cosmologica.

Gli elementi sono finiti in numero, ma resta da stabilire se siano più d‘uno o uno solo, come hanno sostenuto molti dei predecessori di Aristotele, che hanno di volta in volta identificato l‘

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arcéh con l‘acqua, l‘aria, il fuoco o un elemento intermedio tra acqua e aria, che produce tutti gli altri elementi aumentando o diminuendo la sua densità. Dopo aver smentito tutte queste teorie, lo Stagirita ricorre nuovamente all‘argomento-chiave della relazione tra corpi e movimenti: se il corpo semplice fosse uno solo, allora esisterebbe un solo movimento semplice, ma ―praeterea, quomodo determinatum est prius, quod plures sunt naturales motus, manifestum est quod impossibile est unum esse elementum‖20. Infatti, dal momento che esistono due luoghi naturali, esistono almeno due moti rettilinei che si dirigono verso di essi, quindi esisteranno almeno due corpi semplici o due tipi di corpi semplici: quelli che

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OMMASO, In De caelo, III, l. VIII, n. 9. 18 A

RISTOTELE, De coelo, III, t. 35, f. 202G (De caelo, 302b 26-29). Tra parentesi saranno indicati i casi di

dubbio scioglimento delle abbreviazioni, mentre tra parentesi tonde indicherò le integrazioni finalizzate alla comprensione del testo.

19 Ivi, t. 36, f. 203D-E (ivi, 302b 32-303a 2). 20 Ivi, t. 51, f. 213B (ivi, 304b 19-21).

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vanno verso l‘alto e quelli che vanno verso il basso. A questi due moti, a medio e ad medium, Averroè aggiunge per completezza il terzo moto circa medium, cioè il moto circolare dei cieli a cui corrisponde l‘etere che forma le sfere celesti, di cui Aristotele aveva già trattato nei libri precedenti del De caelo21.

Aristotele ha così stabilito che i corpi semplici sono molteplici ma non infiniti in numero, tuttavia non cerca di determinare quanti siano esattamente prima di pas- sare al problema successivo, che consiste nella questione se gli elementi siano eterni oppure se siano sottoposti al processo di generazione e corruzione. La prima ipotesi viene rapidamente scartata grazie all‘osservazione empirica che il fuoco si estingue perché è spento dal suo contrario o perché si esaurisce da sé.

Averroè insiste sul fenomeno della corruzione del fuoco spiegando che quando esso si estingue per sé ciò accade per difetto di materia, ma non per un difetto in- trinseco al sostrato stesso che, come afferma Aristotele nella Physica, è incorruttibile. Tale fenomeno avviene ―ex contrario, sed modo accidentali‖22, cioè per azione del contrario che modifica la materia in modo che sia adatta ad ospitarlo. La materia prima indeterminata è incorruttibile, ma la materia ‗seconda‘ determinata da una forma è corruttibile in quanto tale forma è transeunte e, una volta venuta meno, verrà meno anche il sinolo, cioè la materia formata in quanto tale. Se dunque esi- stono generazione e corruzione, ciò accade a causa del susseguirsi di forme tempo- ranee in un sostrato permanente e quindi ciò porta a concludere che anche i cosid- detti elementi, in quanto generabili e corruttibili, sono composti di materia e forma e, ancora una volta, Averroè imputa la responsabilità del loro carattere transeunte alla forma: ―omnis pars elementorum recipit generationem et corruptionem in omnibus partibus et hoc demonstrat eas esse compostia ex materia et forma, et quod generatio et corruptio in eis est in forma‖23

.

Se il fuoco è corruttibile e quindi anche generabile, sostiene Aristotele, lo stesso varrà per gli altri elementi. In tal caso, gli elementi non possono generarsi da qual- cosa di incorporeo, infatti ciò implicherebbe che il luogo in cui avviene la genera- zione sia vuoto e ciò è impossibile. Per Averroè la distinzione tra corporeo e incor- poreo è in realtà la distinzione tra corpo in atto e corpo in potenza: ―intendit per non corpus, non corpus in actu, non privationem simplicem‖24

. Infatti ogni trasforma- zione, com‘è stato dimostrato nella Physica, deve avvenire a partire da un sostrato ma, mentre l‘alterazione, l‘aumento e la diminuzione e il movimento locale impli- cano che tale sostrato sia definito da accidenti determinati, cioè dalle qualità, quan- tità e luoghi a partire dai quali avviene il mutamento, la generazione delle sostanze richiede che il sostrato manchi di queste determinazioni accidentali. Tuttavia, se i primi tre tipi di movimento richiedono la presenza di un corpo in atto, cioè di un sostrato già determinato dagli accidenti suoi propri e dalle privazioni particolari (simplices)25

ad essi correlati, si potrebbe ipotizzare che la generazione richieda un

21 Cfr. A

VERROÈ, In De coelo, III, comm. 41, f. 207B. 22 Ivi, comm. 52, f. 215L.

23 Ibid.

24 Cfr. ivi, comm. 54, f. 216G.

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sostrato totalmente indifferenziato, caratterizzato dalla privazione assoluta. Ma così non è: la generazione di un corpo richiede un sostrato atto a diventare corpo: ―necesse est, si generatio fuerit ex corpore in potentia, ut sit vacuum: quia actus separabitur a potentia in generato, et sic separabitur dimensio a materia et erit dimensio separata, et hoc sonat vacuum‖26

. Il puro corpo in potenza corrisponde al vuoto e per questo c‘è una caratteristica che il sostrato non può non avere se da esso si devono generare i corpi: esso deve possedere una certa dimensionalità, perché le dimensioni separate dalla materia altro non sono che il vuoto: è facile notare che, in questa spiegazione delle considerazioni aristoteliche sull‘ingenerabilità dei corpi dal vuoto, Averroè sta ricorrendo alla sua dottrina delle dimensiones interminatae.

Gli elementi non possono generarsi dal vuoto, ma non è nemmeno possibile che derivino da un corpo diverso e anteriore a essi, come sostiene Aristotele:

―hoc autem, si gravitatem habebit aut levitatem, elementorum erit aliquod; nullam autem cum habeat propensionem, immobile erit et mathematicum: tale autem cum sit, non erit in loco (...). Si igitur erit in loco et alicubi, erit aliquod elementorum. Si autem non erit in loco, nihil ex ipso erit‖27.

Innanzitutto, un corpo deve essere dotato di movimento perché, se fosse immo- bile, sarebbe un ente matematico e non si troverebbe in alcun luogo, quindi non esi- sterebbe se non come ente di ragione. Dunque, se tale corpo esistesse, dovrebbe avere una propensione verso l‘alto o verso il basso, cioè dovrebbe avere peso o leg- gerezza, e quindi sarebbe collocabile in uno dei luoghi naturali; ma in questo caso dovrebbe giocoforza coincidere con uno degli elementi ai quali dovrebbe essere an- teriore. Da questa dimostrazione è possibile evincere che il possesso di peso e legge- rezza e la localizzazione siano le caratteristiche che determinano la natura dei corpi semplici. Date queste conclusioni, i corpi semplici non possono che generarsi gli uni dagli altri e questo induce Averroè ad affermare che ―ex hoc apparet quod subiectum eorum sit idem, et quod sint composita ex materia et forma‖28, cioè a ricondurre ancora una volta le trasformazioni reciproche degli elementi all‘interazione di materia e forma.

Aristotele rifiuta però le teorie degli atomisti, per i quali gli elementi si generano per aggregazione e disgregazione reciproca, perché queste non implicherebbero vera generazione, ma solo l‘alterazione di un‘unica materia. Anche le teorie pitago- riche e platoniche, secondo le quali ciò avverrebbe per cambiamento di figura o per scomposizione di superfici, devono essere respinte perché è necessario che i principi siamo simili alle cose che da essi derivano:

―Oportet enim fortassis sensibilium quidem sensibilia, sempiternorum vero sempiterna, corruptibilium autem corruptibilia esse principia, atque omnino eiusdem generis cum iis quae subiiciuntur‖29.

26 AVERROÈ, In De coelo, III, comm. 54, f. 216L.

27 ARISTOTELE, De coelo, III, t. 55, f. 217F-G (De caelo, 305a 24-30). 28 A

VERROÈ, In De coelo, III, comm. 55, f. 218D. 29 A

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Di conseguenza, i principi delle cose corporee e sensibili devono essere corporei e sensibili, mentre le superfici, che sono enti matematici, non lo sono affatto. A questo proposito, Averroè specifica che ―intelligendum est propinqua, non remota, quia principia rerum sensibilium remota non sunt sensibilia, ut prima forma et prima materia, neque etiam principia rerum corruptibilium remota sunt corruptibilia‖30

. Forma e materia, in sé, non sono né generabili né corruttibili, ma è il composto da esse formato ad esserlo. Ciò non solleva alcun problema per quanto riguarda i corpi composti, la cui materia è già definita in modo complesso ed è una materia seconda che può perdere le caratteristiche che la determinano, ossia può corrompersi, ma la materia degli elementi è la materia prima, che non può corrompersi né generarsi e sarebbe un principio di natura diversa da ciò che da esso deriva. Tuttavia, si può affermare:

―materia prima apud eum (Aristotele), quae est materia propria istis corporibus, non est apud eum generabilis et corruptibilis, sed similis generationi et corruptioni, et (…) formae eorum sunt generabiles et corruptibiles, quia existunt in generabli et corruptibili‖31.

Ciò che garantisce validità al discorso aristotelico, per Averroè, è dunque il rapporto ‗analogico‘ che viene a instaurarsi tra principi ed elementi in virtù del fatto che proprio la combinazione di materia e forma (che d‘altra parte non potrebbero esistere separatamente e la cui ingenerablità e incorruttibilità è pertanto solo teorica), che produce i corpi soggetti al divenire.

I platonici, inoltre, sostengono che soltanto fuoco, aria e acqua possono trasfor- marsi l‘uno nell‘altro perché formati da triangoli simili, cioé da triangoli rettangoli con angoli di sessanta e trenta gradi, mentre la terra, che è formata da triangoli ret- tangoli isosceli con angoli di quarantacinque gradi, non muta in altro e quindi sa- rebbe ingenerabile e incorruttibile32

, ma questo è inaccettabile per lo Stagirita: ―neque enim rationabile est unum solum expers fieri transitionis, neque videtur secundum sensum, sed similiter omnia transmutari in sese invicem‖33

. Nel criticare i suoi predecessori, Aristotele si appella enfaticamente alla testimonianza dell‘esperienza sensibile e accusa i pitagorici e i platonici di non ‗salvare i fenomeni‘ in nome della convinzione di possedere la verità, convinzione tanto forte da farli giungere a conseguenze in aperto contrasto con la realtà, quando invece ―iudicare (oportet) ex iis, quae eveniunt, et maxime ex fine. Finis autem Effectivae quidem scientiae est opus ipsum, Naturalis vero id, quod (...) secundum sensum apparet‖34

. Aristotele nega poi che i corpi semplici abbiano figura, in quanto si può osservare che tutti gli elementi, in particolare l‘acqua e l‘aria, la ricevono dal luogo che li con- tiene. Averroè connette questa caratteristica dei due elementi alla loro capacità di essere facilmente terminabili da altro, capacità che, come vedremo, corrisponde alla definizione di umidità. Aggiunge inoltre che anche la terra, in certi casi, condivide

30 A

VERRROÈ, In De coelo, III,comm. 61, f 223B. 31 Ivi, f. 223C-D.

32 Cfr. PLATONE, Timeo, Mondadori, Milano 1994 [trad.it G. Lozza], p. 75 (54b-d). 33 A

RISTOTELE, De coelo, III,t. 61, f. 222B (De caelo, 306a 3-5). 34 Ivi, f. 222D (ivi, 306a 14-17).

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la medesima proprietà: ―terra vero non ita figuratur, quia non facile patitur, nisi sit pulverosa, scilicet cuius partes non retinenetur adinvicem‖35.

Che gli elementi siano privi di figura è anche conforme alla ragione secondo Ari- stotele:

―quemadmodum enim et in aliis sine specie et forma oportet subiectum ipsum esse (maxime enim sic poterit formari, quemadmodum in Timaeo scriptum est, id quod omnia suscipit) sic et elementa oportet putare ut materiam esse compositis. Quapropter et possunt transmutari in seinvicem separatis iis, quae secundum passiones, differentiis‖36.

Questo passo, oltre riconfermarci l‘assoluta indeterminatezza della materia prima descritta nella Physica e la sua parentela con la céwra del Timeo, ci suggerisce