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L E DUE DEFINIZIONI DI E NRICO

2.8 LA RIFLESSIONE DI ENRICO DI GAND

2.8.1 L E DUE DEFINIZIONI DI E NRICO

Secondo Decorte, la prima trattazione del tema della relazione è quella esposta nel Quodl., III, q. 4, un testo composto prima che Enrico conoscesse il commento di Simplicio. In questa prima trattazione è evidente l’influenza di Avicenna: il capitolo sui relativi (cap. 10) del Libro III della Metafisica del filosofo persiano viene citato ripetutamente nel corpo della questione. Enrico attribuisce ad Avicenna una distinzione tra relazione reale e relazione di ragione, che egli fa collimare con la distinzione aristotelico-boeziana di relativi “secundum esse” e relativi “secundum dici”. Egli interpreta la definizione del capitolo sui relativi di Avicenna come una definizione dei relativi “secundum esse”. Ritiene, inoltre, che a partire da tale definizione si debba concludere che la relazione è un mero modo di essere del fondamento, ossia il modo per cui qualcosa è diretto verso qualcos’altro (“esse ad”).

118 «Mit Heinrich von Gent wird die Debatte um den ontologischen Status der Relationen zu einer Kontroverse mit

Zeitgenossen. Vor den 1270er Jahren des 13. Jahrhunderts war das Statusproblem in gewisser Weise ein bloß abstraktes und im schlechten Sinne “scholastisches”. Man kannte nur vermittelt über Avicenna und seit den späten 60er Jahren über den Kategorien-Kommentar des Simplicius die antirealistische Stellungnahme der Stoiker. Was allenfalls kontrovers wrar, war der Begriff der Relation» (R. SCHÖNBERGER, Relation, 86-87).

119 Cf. J. DECORTE, Avicenna’s ontology, 206-210. Decorte avanza la tesi secondo cui non ci sarebbe una

sostanziale differenza in ciò che affermano le due definizioni proposte da Enrico di Gand – differentemente da quanto lamenta lo stesso Scoto, il quale ritiene invece che le due definizioni siano quasi contrarie l’una all’altra. Secondo la tesi concordista, la seconda formulazione della definizione non fa altro che riprendere il significato avicenniano della relazione esprimendolo con le parole di Simplicio.

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D’altra parte la relazione, oltre ad avere un “esse ad” ha anche un “esse in”, infatti, non c’è dubbio che Avicenna ritenga la relazione un accidente. Così Enrico ribadisce la visione secondo cui il fondamento è ciò in cui la relazione si trova120. Tuttavia, bisogna fare anche alcune precisazioni: l’“esse in” della relazione deriva dal fatto che il suo fondamento è un accidente. Così, l’“esse in” della relazione è in realtà l’“esse in” del suo fondamento. La relazione, infatti, da se stessa non può ricevere alcun modo di essere, essendo a sua volta il modo di essere di qualcos’altro, cioè del fondamento. Pertanto, la realtà della relazione deve essere risolta in quella del fondamento il quale, per il fatto di essere un accidente, ha un modo di essere “in”, mentre per il fatto di essere relato, ha un modo di essere “ad”.

Il duplice essere della relazione coincide con il doppio modo di essere del fondamento; la distinzione tra fondamento e relazione non è reale, ma solo intenzionale. Ne consegue che la relazione non è una “res” aggiunta alla “res” del fondamento, ma è semplicemente una “ratio” del fondamento. Da qui scaturisce la composizione di “res et ratio” sviluppata da Enrico per l’analisi dei relativi, speculare in qualche modo alla composizione di “esse et ratio” elaborata da Tommaso e rielaborata da Egidio di Roma in una forma terminologicamente molto più vicina a quella del gandavense (come Enrico, parla di “res et ratio”)121. Questa concezione – di derivazione largamente avicenniana – viene sinteticamente ben espressa dalla cosiddetta prima definizione presente nel Quodlibet, V, q. 2: la relazione è, per Enrico, una «res cui convenit in alio esse, non absolute sed in respectu ad aliud»122.

La seconda definizione, invece, risale a un periodo successivo, databile intorno al 1285, in cui Enrico mostra in maniera evidente il suo debito nei confronti dell’opera di Simplicio, tradotta in latino una ventina di anni prima. Non solo nelle opere di questo secondo periodo aumentano le citazioni tratte dall’opera di Simplicio, ma si nota anche l’assunzione di una nuova terminologia, conforme al linguaggio del commentatore neoplatonico. La relazione viene ora indicata come un “respectus characterizatus”.

Questa seconda definizione propone una diversa analisi dei relativi, distinguendo un duplice ruolo della “res” del relativo: mentre prima si metteva a fuoco soprattutto l’aspetto fondativo della “res”, adesso si evidenzia anche il suo ruolo “caratterizzante”. Il “respectus” non solo si

120 Come ha notato Krempel, la visione che vede nel fondamento un mero “in quo” della relazione è estranea al

pensiero di Tommaso d’Aquino, così come – tenendo conto di una diversa terminologia – al pensiero di Bonaventura. Infatti, il maestro francescano suole indicare con il fondamento con il termine “principium” o anche con il termine “causa”, a sottolineare che esso non è tanto un “in quo” per la relazione, ma un “a quo”.

121 La posizione di Tommaso d’Aquino esprime una dottrina del tutto diversa rispetto a quella di Enrico di Gand.

La nozione di “esse ut actus” in Tommaso è molto diversa dalla nozione di “res” in Enrico, e così pure il termine “ratio” in Tommaso non significa un “modus”, ma il contenuto espresso dalla definizione di una cosa; quindi la “ratio” per Tommaso va riconodotta alla quiddità stessa della cosa. Sulla differenza tra i due autori, veda anche: M.G. HENNINGER, Relations, 176-177.

122 Lect., II, 1, § 169, XVIII, 55. L’espressione è di Scoto, e come tale la riporta anche Decorte nel suo contributo:

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fonda in una “res”, ma trae anche da quella “res” la sua realtà, il suo essere qualcosa. In altri termini, se la relazione ha un contenuto intelligibile, ciò è dovuto alla “res” del fondamento. Le conseguenze principali di questa impostazione sono due: in primo luogo, la relazione si costituisce solo come il risultato della composizione di una “res” e di un “modus”; in secondo luogo, la relazione può essere considerata come un predicamento solo grazie alla “res” del fondamento, e non in virtù del suo modo specifico di essere, l’“esse ad”.

Tutti i predicamenti risultano dalla composizione di una “res” e di un “modus”, ma il nome che viene imposto ad essi denota la “res”, non il “modus”; la particolarità della relazione, secondo Enrico, sta nel fatto che il suo nome non designa la “res”, ma il “modus” e questo, però, solo in quanto viene caratterizzato dalla “res”. Se si escludesse dalla considerazione l’aspetto caratterizzante della “res”, volendo significare solo il “modus”, allora il termine “relatio” denoterebbe un’entità di ragione, ossia la referenzialità pura. “Habitudo” è il nome riservato da Enrico a questa relazionalità pura, del tutto indeterminata123.

La novità principale della seconda definizione della relazione consiste, dunque, nella diversa concezione del ruolo del fondamento. Esso non è più soltanto un “luogo” di inerenza, ma è anche causa intrinseca della realtà della relazione124.