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Due scenari: pluralismo temperato o pluralismo coordinato e cooperativo?

Nel documento Stampa: Rubbettino Print (pagine 97-101)

L’analisi delle tendenze in corso che alimentano lo scongelamento del sistema di rappresentanza porta a delineare due scenari diversi. Il primo, che potremmo definire come pluralismo temperato, è uno scenario di riduzione dell’impatto negativo di un

pluralismo a elevata forza organizzativa come quello italiano, realizzato soprattutto per i vincoli di finanza pubblica che impongono limiti sempre più forti, anche attraverso l’integrazione europea, al soddisfacimento di interessi di tipo particolaristico. Insomma, una riduzione forzosa dei difetti del passato. Il secondo scenario, che si potrebbe defi-nire pluralismo coordinato e cooperativo, è più difficile da realizzare, comporterebbe

invece un vero salto di qualità: non si tratterebbe solo di ridurre i danni possibili per la crescita del Paese di un pluralismo poco responsabile, ma di fare della rappresentanza uno strumento centrale dello sviluppo, spostando il baricentro dalla redistribuzione all’innovazione.

Il primo scenario è quello che si pone più in una linea di sostanziale continu-ità con gli assetti esistenti del sistema della rappresentanza. È uno scenario caratterizzato da un pluralismo meno frammentato, da un impatto meno particolari-stico sulle politiche pubbliche e da una maggiore continuità nelle relazioni industriali.

In questo quadro In sostanza, si potrebbe assumere che il processo di riaggregazione avviato con Rete Imprese Italia prosegua ma senza arrivare, almeno nel breve e medio termine, a una vera integrazione; e che neanche il processo di integrazione tra le tre confederazioni sindacali principali faccia passi avanti significativi. La riduzione dell’im-patto particolaristico sulle politiche, più che dipendere da un significativo calo della frammentazione (che comunque potrebbe procedere lentamente e avere qualche peso), sarebbe legata ai ben noti problemi di finanza pubblica e alla conseguente necessità dei governi di ridurre situazioni di privilegio non giustificate per singole cate-gorie (in quest’ottica la selva di incentivazioni e sgravi per le imprese, insieme costosa e inefficiente, subirebbe una riduzione).

Le relazioni industriali, per quanto investite da processi di riforma come quelli in corso con riferimento alle condizioni di accesso e di uscita e al trattamento della disoccupa-zione, si muoverebbero in una linea di continuità con la situazione precedente. Questo giudizio si può motivare con riferimento a un dato essenziale: la contrattazione collettiva resterebbe fondamentalmente ancorata a una dimensione redistributiva, cioè ai livelli salariali. È vero che, in linea anche con l’accordo tra Confindustria e sindacati del giugno 2011, crescerebbe ulteriormente il peso della contrattazione aziendale, e che questa toccherebbe aspetti legati alle condizioni di impiego del lavoro, ma la dimensione retri-butiva - anche in relazione all’andamento della produttività - resterebbe centrale, così come manterrebbe un ruolo non secondario il contratto nazionale di settore. Questo risultato permetterebbe comunque di gestire meglio la differenziazione degli interessi imprenditoriali, sempre meno contenibile nelle strettoie del contratto nazionale. In questo quadro ci si può anche aspettare un’ulteriore spinta alla crescita dei servizi offerti ai propri associati da parte delle organizzazioni e inoltre interventi, anche

signi-ficativi, di riorganizzazione interna delle associazioni di rappresentanza volti a ridurre duplicazioni e a risparmiare sui costi. Entrambe queste misure sono rese più probabili dalla necessità di rafforzare i rapporti con la base e di venire incontro a una domanda più esigente.

Nel complesso, questo scenario di continuità, potrebbe avere effetti positivi sulla cre-scita, perché sancirebbe un rapporto (forzoso) meno particolaristico con le politiche pubbliche e si accompagnerebbe a relazioni industriali meno conflittuali, favorevoli a una redistribuzione salariale più legata alla produttività. Come si è detto, questo è lo scenario maggiormente coerente con i condizionamenti della path-dependence, con

l’influenza del passato e quindi più probabile, ma non necessariamente è quello più efficace in termini di contributo alla crescita del paese.

Il secondo scenario di più difficile realizzazione, perché richiederebbe cambiamenti più radicali nel vecchio assetto della rappresentanza, sarebbe di maggiore impatto sulla crescita in termini di beni collettivi e di esternalità rispetto alle sfide della internaziona-lizzazione. Si tratta di uno scenario che potrebbe derivare da scelte indirizzate a una più drastica riduzione della frammentazione della rappresentanza sia sul versante datoriale che su quello sindacale, in modo da innalzare la capacità di internalizzare

i vantaggi di comportamenti ‘responsabili’, nel senso di azioni volte a produrre beni collettivi adeguati per la crescita. Uno scenario, in cui il baricentro della contrattazione collettiva (relazioni industriali) e di quella politica con le istituzioni pubbliche dovrebbe essere spostato dalla redistribuzione di risorse all’innovazione per accrescere produt-tività, competitività e buona occupazione.

Dal punto di vista della contrattazione collettiva uno scenario con queste caratteristi-che vuol dire non solo dare più spazio alla contrattazione aziendale (fermo restando il ruolo di cornice di garanzia del contratto nazionale), ma legare maggiormente la contrattazione decentrata nelle aziende all’incremento della produttività con forme di incentivazione dell’impegno attivo dei lavoratori e di coinvolgimento efficace nella distribuzione dei benefici.

Questo però non sarebbe sufficiente per costruire una rappresentanza funzionale alla crescita. Sempre di più, infatti, nelle attuali condizioni di organizzazione della produzio-ne e di globalizzazioproduzio-ne dei processi produttivi, la produttività aziendale dipende dalla disponibilità nel territorio -nell’ambiente in cui opera l’azienda- di infrastrutture e servizi collettivi che la singola azienda da sola non può produrre (specie quanto più è piccola), a differenza di quanto accadeva nel modello fordista.

Da qui l’opportunità di legare più strettamente la contrattazione aziendale a quella territoriale (non salariale) e quindi alle relazioni con le istituzioni pubbliche locali e regionali e di valorizzare particolarmente la contrattazione territoriale.

Se ciò non accade, c’è infatti il rischio che si carichi troppo sulle condizioni aziendali tutto il peso di un miglioramento della produttività, con conseguenze negative sulle condizioni retributive dei lavoratori per compensare il deficit del contesto (infrastrutture, servizi, ecc.). Un’altra possibilità - non alternativa alla precedente - è quella di richiedere incentivi e sgravi da parte delle istituzioni, sempre per compensare il deficit del

conte-99 capitolo 3 › la rappresentanza degli interessi e la crescita in italia

sto (si pensi per esempio alla situazione del Mezzogiorno, dove questo meccanismo perverso è più evidente).

In entrambi i casi, la risposta al problema della crescita della produttività e della compe-titività sarebbe però inefficiente perché non interverrebbe sulle cause a monte, relative alla qualificazione dell’ambiente. E sappiamo che tale qualificazione, legata alla crescita di economie esterne ben tarate sulle specializzazioni produttive locali, è oggi la garanzia principale per evitare processi delocalizzazione e per attrarre investimenti dall’esterno. Si tratterebbe insomma di legare in modo più istituzionalizzato la contrattazione azien-dale a quella territoriale, facendo di quest’ultima il luogo nel quale definire in modo trasparente i beni e servizi collettivi di cui c’è bisogno in un determinato contesto per accrescere la competitività.

Questo secondo scenario sposta dunque il baricentro della contrattazione tra organiz-zazioni datoriali e sindacali e dei rapporti tra organizorganiz-zazioni degli interessi e istituzioni pubbliche dalla redistribuzione all’innovazione e dal centro alla periferia (ma mante-nendo un coordinamento centrale). Non si tratterebbe solo di contribuire, in termini di beni collettivi, con la moderazione sindacale, a tenere bassa l’inflazione e con questo garantire automaticamente l’occupazione e lo stato sociale. Questo accadeva, com’è noto, nel classico scambio politico neo-corporativo degli anni ’70 e ’80, che peraltro da noi ha funzionato efficacemente solo in un momento molto limitato (nei primi anni ’90). Nelle nuove condizioni poste dall’internazionalizzazione e dal cambiamento post-fordista dei modelli produttivi, la moderazione salariale e la bassa inflazione sono sempre importanti, ma non bastano da sole a garantire la crescita: occorre sostenere attivamente l’innovazione, con beni collettivi dedicati e tarati sulle esigenze dei diversi contesti: formazione, rapporti con il mondo della ricerca, infrastrutture materiali e immateriali, credito per l’innovazione e servizi avanzati a sostegno dell’export, ecc. ecc. Senza il contributo di questi beni collettivi la stessa moderazione salariale non è sufficiente.

Si tratta allora di vedere se il sistema di rappresentanza sarà in grado non solo di favorire il maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle imprese come pre-condizione per la crescita della produttività, ma anche la produzione di quei beni collettivi che richiedono l’interazione con le istituzioni pubbliche per produrre le economie esterne di cui le imprese hanno bisogno (in questo quadro sarebbe anche valorizzata l’offerta di servizi da parte delle organizzazioni). Il contributo del sistema di rappresentanza alla crescita sarebbe in questo caso più incisivo e più adatto a creare le condizioni di una svolta per fare ripartire lo sviluppo e per coinvolgere attivamente il Mezzogiorno in un quadro di maggiore coesione sociale.

È vero che numerose condizioni possono ostacolare questo scenario, non solo la frammentazione del nostro sistema di rappresentanza, le divisioni di lunga durata, il peso ancora tropo forte di vecchie culture politiche, la bassa efficienza delle istituzioni politico-amministrative, ma anche alcuni fenomeni di portata più generale come gli effetti della globalizzazione, la mobilità delle imprese, l’indebolimento dei sindacati. Eppure, un paese come la Germania, con il quale condividiamo in Europa la

persi-stente specializzazione manifatturiera, è più vicino al modello di pluralismo coordinato e cooperativo richiamato in questo secondo scenario, e ne fa un elemento di forza anche nella crisi, piuttosto che di debolezza. È certo difficile realizzare in Italia la svolta che sarebbe necessaria per fare del sistema di rappresentanza non un freno - come è stato spesso in passato - ma un volano della crescita attraverso l’innovazione; difficile ma non impossibile, specie se si tiene conto della situazione di emergenza economica e sociale che potrebbe favorire da vari punti di vista l’innovazione istituzionale. Un presupposto essenziale è che sia forte in chi ha responsabilità di leadership nella rappresentanza la consapevolezza che in una società democratica basata sull’economia di mercato la rappresentanza economica si legittima quanto più è capace di legare la difesa della propria parte a un disegno di interesse generale. E questo richiede una visione più a lungo termine - una strategia - e la capacità di saper resistere alla tenta-zione di offerte particolaristiche da parte della politica che a più lungo termine finiscono per danneggiare gli interessi stessi della propria parte, oltre che quelli più generali della crescita del Paese.

Appendice

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