Quella crisi ha posto le nostre classi dirigenti di fronte a problemi (colpevolmente) irri-solti, problemi che continuano a pesare sul Paese come una zavorra. Le decisioni prese dalle istituzioni dell’Unione Europea tra il 2011 e il 2012 (come il Semestre Europeo, la revisione ancora più restrittiva del Patto di Stabilità e Crescita, i trattati che introducono il Meccanismo Europeo di Stabilità finanziaria e il Patto Fiscale), e soprattutto l’avvio della procedura parlamentare per trasformare il pareggio di bilancio in un requisito di natura costituzionale (come richiesto dall’Unione Europea), hanno modificato in modo sostanziale la struttura e la logica del bilancio pubblico. Oggi non c’è più il vincolo ester-no degli anni Novanta, oggi c’è un nuovo e più cogente vincolo interester-no, quale appunto
il pareggio di bilancio che abbiamo deciso di realizzare già nel 2013. Un vincolo che ci
siamo dati noi stessi per poter rimanere, non solamente nell’Unione Europea, ma tra i Paesi industriali affidabili internazionalmente.
A fronte delle sfide provenienti da tale ridefinizione senza precedenti della politica pub-blica nazionale (che ha, appunto, nella legge finanziaria la sua sintesi contabile), l’Italia si è trovata con troppi problemi irrisolti per rispondere a quelle sfide con efficacia ed equità. Basti pensare all’amministrazione pubblica ridondante e formalistica, a servizi pubblici spesso inefficienti, al carico fiscale eccessivo che pesa sulle imprese e sul lavoro, ad una evasione fiscale sconcertante per una moderna democrazia occidentale,
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ai settori della ricerca e dell’università divenuti in molti campi periferici nel contesto internazionale. Questi problemi sono rimasti irrisolti perché il Paese non è stato in grado di prendere decisioni, di investire sul lungo periodo, bloccato come è stato e continua ad essere dai veti derivanti appunto dalla frammentazione sia politica che funzionale. È difficile, se non impossibile, affrontare le sfide della globalizzazione e dell’integra-zione monetaria con tale infrastruttura istituzionale della rappresentanza. Infatti tra le leadership più responsabili delle associazioni è emersa la consapevolezza che il nostro pluralismo corporativizzato non può più funzionare. Anzi che occorre uscire dalle sue strettoie. Per superare stabilemente questa impasse, una volta che l’esperienza dei
tec-nici si sarà conclusa, diverse opzioni possono essere prese in considerazione: questo Rapporto ne suggerisce due.
La prima opzione è quella di dare vita ad un pluralismo temperato, come l’ha definito
Carlo Trigilia, o ad una razionalizzazione delle strutture associative che non intacchi le loro predisposizione storiche e identitarie, come ha rilevato Nadio Delai, ma che ne mitighi comunque le implicazioni divisive e particolaristiche. Un pluralismo, per dirla con Claudius Wagemann, che avrebbe le caratteristiche di quello britannico, assai più moderato e responsabilizzato rispetto al pluralismo disperso e competitivo statunitense. Si tratterebbe di una razionalizzazione da salutare con favore, in particolare se si dimo-strasse in grado di aggregare la frammentazione all’interno di policy communities, per
usare il caso britannico, cioè di comunità di interesse informalmente istituzionalizzate capaci di aggregare le associazioni coinvolte o interessate ad affrontare specifici pro-blemi di settori o di aree territoriali.
Tuttavia, se ciò che è stato riportato in questo Rapporto è plausibile, allora si potrebbe ritenere che che tale razionalizzazione, per quanto necessaria, potrebbe risultare non sufficiente. Di qui, la possibilità di considerare una seconda opzione, quella di una
riforma (non già di una razionalizzazione) della infrastruttura rappresentativa, così
da andare verso una governance responsabile, per dirla con Sergio Fabbrini, o un pluralismo cooperativo e coordinato, per dirla con Carlo Trigilia. Ciò richiederebbe
una drastica riduzione della frammentazione organizzativa sia sul versante datoriale che sindacale senza però cercare di imitare impossibili e improbabili modelli neo-corporativi.
Il neo-corporativismo (come è stato delineato da Claudius Wagemann) è infatti estra-neo alla vicenda italiana. Peraltro, la concertazione, che è la pratica propria di questi modelli, fu sperimentata nel nostro Paese, in senso proprio, solamente nel periodo ristretto del 1992-1993 quando occorreva affrontare l’urgenza drammatica della possibile bancarotta finanziaria della lira in presenza del crollo altrettanto drammatico del sistema di partito della Prima Repubblica. Va aggiunto che già allora i Paesi che avevano storicamente adottato il modello neo-corporativo avevano cominciato a de-centralizzarlo perché inadeguato ad organizzare la rappresentanza degli interessi di democrazie di mercato attraversate da inediti processi di globalizzazione che avevano messo in discussione il modello fordista di industrializzazione. Con gli anni Novanta del secolo scorso inizia una nuova era di organizzazione produttiva, caratterizzata da
de-localizzazione degli impianti, differenziazione delle produzioni, flessibilizzazione del lavoro, innovazione tecnologica e competizione sulla qualità dei prodotti. Si afferma cioè un modello produttivo che il neo-corporativismo non può disciplinare, in quanto sistema eccessivamente rigido, gerarchico e chiuso di relazioni tra gruppi d’interesse e autorità pubbliche. Per di più, la globalizzazione e l’integrazione, internazionalizzando le produzioni e le società, avevano finito per incrinare la ragione d’essere del neocor-porativismo, che aveva derivato la sua credibilità dalla capacità di proteggere il modello sociale nazionale.
La strategia di aggregazione del nostro pluralismo, dunque, dovrà avere caratteristiche necessariamente diverse dal neo-corporativismo. Ma di quest’ultimo dovrà condivi-dere una proprietà cruciale: spingere le rappresentanze economiche ad acquisire
dimensioni comportamentali tali da riuscire ad internalizzare i vantaggi di
comporta-menti responsabili, in quanto capaci di produrre beni collettivi. Per quanto difficile,
questa seconda opzione ha cominciato ad essere sperimentata in Italia. Ad esempio, nuovi comportamenti sono emersi sotto forma di aggregazioni tra associazioni o sotto forma di iniziative programmatiche comuni tra grandi associazioni economiche e finanziarie.
È il caso di Rete Imprese Italia promossa da Casartigiani, CNA, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti, ma altrettanto rilevante è quello della Costituente manageriale nata sotto l’impulso di Federmanager e Manageritalia, che riunisce le organizzazioni di rappresentanza del management pubblico e privato aderenti a Cida e Confedir-Mit, visto che interessa la rappresentanza delle alte professionalità le quali hanno una diretta responsabilità nel “generare” classe dirigente. Per avviare una governance responsabile, occorre avere leadership delle rappresentanze capaci
di distinguere tra beni particolari e beni collettivi, capaci di privilegiare l’innovazione alla redistribuzione, di favorire una interazione tra le leadership delle rappresentanze connotata dalle ricerca delle policies più adeguate e non già irrigidita dalle divisioni
sulla politics. Spetterà poi ai governi e alle loro maggioranze parlamentari prendere le
decisioni ultimative, ma tali decisioni dovranno essere l’esito di un confronto aperto,
argomentato e pubblico sulle policies da promuovere per produrre vantaggi e costi
condivisi per la soluzione dei nostri problemi irrisolti. La governance responsabile non
coincide con il rito delle consultazioni che, periodicamente, i governi e gli interessi economici fanno ad uso e costume delle telecamere. Né un gruppo d’interesse conta perché riesce finalmente a farsi invitare a Palazzo Chigi oppure perché riesce a sedere intorno al tavolo delle consultazioni del Ministero del Lavoro e del Welfa-re. La governance responsabile richiede aggregazioni di policy, si struttura intorno
a proposte programmatiche capaci di rappresentare interessi vasti, si legittima per la capacità di conciliare esigenze di parte con esigenze generali, si qualifica con la sostanza degli argomenti. Con la consapevolezza che dovrà poi essere il government
(sperabilmente riformato) ad assumersi il compito di interpretare l’esito del processo deliberativo tra le (cosiddette) parti sociali, in coerenza con le responsabilità che gli derivano dal suo mandato elettorale.
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