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Tra “politica” (politics) e “politiche” (policies)

Nel documento Stampa: Rubbettino Print (pagine 48-53)

Di fronte ad un government disarticolato e ad una governance frammentata, negli

ultimi anni sono però emerse nuove prospettive di riorganizzazione del nostro siste-ma di rappresentanza, relativamente ai rapporti tra società e politica, tra interessi e istituzioni. Queste prospettive prefigurano un nuovo modello di organizzazione della rappresentanza degli interessi, un modello definibile come quello della collaborazione responsabile. In qualche modo, il Manifesto delle cinque associazioni nazionali

impren-ditoriali reso pubblico il 25 settembre 2011 potrebbe essere il segnale di tale modello di rappresentanza degli interessi. Alla base di quel Manifesto c’era la presa d’atto che il government non era grado di aggregare le istanze di innovazione provenienti dalla

economia e dalla società, prigioniero come era dei veti reciproci interni alla sua stessa maggioranza parlamentare. Allo stesso tempo, c’era anche la presa d’atto che, nella crisi drammatica che il paese stava vivendo, non vi erano più le condizioni per conseguire benefici particolaristici a danno di un progetto generale di crescita. Così, le grandi asso-ciazioni imprenditoriali si sono poste direttamente il problema di individuare gli obiettivi di politica pubblica necessari per la ripresa economica del Paese, non delegando più ai partiti quel compito. Ma in questo modo, le associazioni di interessi particolari si sono poste anche il problema di coniugare direttamente questi ultimi con l’interesse generale. Si tratta di un segnala importante perché rende evidente il cambiamento che occorre introdurre nella logica della rappresentanza: non si tratta più di inviare alle

Commissioni Industria della Camera dei Deputati e del Senato le richieste specifiche dell’uno o dell’altro comparto industriale, lasciando ai membri di quelle commissioni il compito di mediare quelle richieste con altre provenienti dai sindacati dei lavoratori o da altre associazioni di categoria. Si tratta di assumersi la responsabilità di proporre vie d’uscita alla crisi del Paese. Un cambiamento di prospettiva che è necessario venga introdotto anche in tutte le grandi organizzazioni sindacali.

Box 2 - Politics e Policiers

Nella lingua italiana, la parola politica significa tante cose. Nella lingua inglese, invece, quelle diverse cose (che hanno a che fare con la politica) possono essere rappresentate con termini diversi. In particolare, politics rinvia alla politica come processo di discussione e confronto tra forze politiche, come attività di posizionamento nell’asse destra/sinistra. Mentre invece policy rinvia ai corsi di azione perseguiti per risolvere specifici problemi collettivi. Per questa ragione, sono costretto ad usare i termini inglesi per distinguere tra la politica come schieramento e orientamento (la politica dei partiti, la politica del Paese etc.) e le politiche pubbliche come elaborazione, decisione e implementazione di scelte per risolvere problemi specifici (la politica sociale, la politica economica, la politica industriale, la politica dell’occupazione etc.).

Nella governance responsabile, le associazioni di interesse si legittimano proprio per la

49 capitolo 1 › nuovi paradigmi politici

di traduzione delle proprie esigenze particolari in un programma generale che si può formare, all’interno delle associazioni di interesse particolare, una classe dirigente con una cultura generale (come Claudius Wagemann ci dice, nel suo capitolo, è avvenuto e sta avvenendo in altri Paesi europei). Questo è particolarmente necessario in un periodo storico in cui i partiti, che dovrebbero rappresentare gli interessi generali, si sono trasformati in agenzie di promozione di interessi particolari. Tale caratterizzazione in senso ‘generale’ della rappresentanza degli interessi sarà necessaria anche quando e qualora il Paese riuscirà a dotarsi di un governo efficiente e stabile, oltre che poli-ticamente controllato. Comunque sia, proprio perché riformato, il government avrà

bisogno di dialogare con la governance, anch’essa riformata. Cioè, di fronte a società e

ad economie in continua trasformazione, la politica, da sola, non riuscirà plausibilmente a sintetizzare le esigenze diffuse e nuove che emergono al loro esterno. Avrà bisogno della collaborazione responsabile delle grandi e piccole associazioni e rappresentanze

degli interessi, una collaborazione che dovrà svolgersi sulla base di una discussione e di un confronto, rigoroso e rispettoso, sulle priorità strategiche del Paese. Non si tratta di negare la differenza tra gli interessi e le condizioni delle varie organizzazioni e associazioni, ma di ricondurre il confronto tra di loro all’interno di una prospettiva generale. Nella governance responsabile nessun gruppo o organizzazione può dire:

‘a me interessano solo i miei interessi’, perché gli interessi di ogni gruppo o organiz-zazione dovranno essere commisurati ad una prospettiva generale. Insomma, il buon

government avrà bisogno di una buona governance.

Se così è o dovrebbe essere, allora non ha avuto senso accusare i promotori del Manifesto delle cinque associazioni nazionali imprenditoriali di ‘volere fare politicà. Si è trattato di un’accusa impropria, in quanto assume che, per poter influenzare le scelte nazionali di policy, occorre necessariamente divenire un attore politico della politics. È

piuttosto la manifestazione dell’affermazione di un nuovo paradigma politico il fatto che i leader delle maggiori rappresentanze degli interessi abbiano deciso di contribuire alla

governance, e non già al government, del Paese. La politica è cruciale, ma non può

pretendere il controllo del cancello di entrata al processo deliberativo nazionale, come è avvenuto nel passato. La politica deve avere il monopolio della decisione ultimativa, ma non può avere il monopolio del processo che conduce a quest’ultima. Anzi, più la società partecipa alla governance senza ambire ad entrare nel government e più gli

attori partitici che vogliono conseguire il controllo di quest’ultimo dovranno misurarsi con le grandi questioni nazionali e non già con i piccoli scambi micro-settoriali. Anche perché, oggi, molte competenze e conoscenze sono fuori dalla politica, ma all’interno delle imprese, delle grandi società finanziarie, delle accademie non corporative, delle istituzioni pubbliche che sono riuscite a proteggersi dalla colonizzazione partitica. Tra interessi organizzati e partiti politici deve poter svilupparsi una collaborazione anche competitiva, pur dentro la comune cifra della responsabilità verso il futuro del Paese. Ma, soprattutto, gli interessi organizzati che vogliono contribuire ad una governance

responsabile dovranno avere come riferimento le istituzioni dello stato, non già l’uno o l’altro partito. Anche il loro linguaggio dovrà esprimere questa differente prospettiva.

Essi, cioè, non dovranno rimanere prigionieri dei riti e delle mentalità proprie della politica, bensì debbono essere portatori di una mentalità che guarda ai problemi e

che propone soluzioni per risolverli. Come è incominciato ad avvenire con il governo dei tecnici presieduto da Mario Monti. Il dibattito pubblico dovrà acquisire una mag-giore valenza tecnica, così da neutralizzare il populismo che è prosperato nel modello politico-economico dello scambio e del dilettantismo nella gestione delle policies. Le

nuove classi dirigenti si legittimeranno se saranno capaci di realizzare uno spostamento epocale della nostra discussione nazionale, portandola dalla politics alla policy. Non si

tratta, va da sé, di abolire quest’ultima, ma di ridefinirla. Il compito della politics è quello

di indicare i grandi orientamenti che il Paese dovrebbe perseguire, non già litigare per chi mettere nel consiglio di amministrazione dell’una o dell’altra società pubblica. L’Italia unitaria (e non solo quella repubblicana) ha sempre avuto dei professionisti della politica specializzati nella prima (la politics) ma ignari della seconda (la policy). Il

dibattito pubblico ha sempre riguardato le grandi questioni di principio ma assai poco le più concrete questioni di come far funzionare un servizio in modo conveniente per chi lo utilizza. Così, incompetenti verso le policies, molti nostri leader politici hanno finito

per drammatizzare la politics. Così, la scelta tra stato e mercato nella fornitura di un

servizio non è stata ricondotta a criteri empirici (cosa poteva funzionare meglio in quel dato contesto), ma risolta attraverso opzioni di principio, di fede ideologica, oppure semplicemente di retorica. Dopo tutto, i rappresentanti politici sono stati e continuano ad essere dei generalisti (nella migliore delle ipotesi) ovvero dei costruttori di consenso elettorale. La loro consapevolezza di come affrontare e risolvere le tante questioni di

policy di una democrazia avanzata è generalmente scarsa. Tant’è che alcune grandi

questioni nazionali (basti pensare alla questione meridionale) sono ancora lì sul tavolo, pur dopo 150 anni di storia nazionale e almeno tre diversi regimi politici.

Non può stupire che, di fronte alle crisi, quei politici abbiano infine affidato ai tecnici la soluzione di problemi per loro difficilmente solubili. Quasi paradossalmente, negli ultimi vent’anni, l’alternanza che ha fatto la differenza è stata quella tra governi politici e governi tecnici, più che tra coalizioni di centro-sinistra e di centro-destra. Ecco perché la stessa logica dell’alternanza potrà svilupparsi più coerentemente se si baserà su pro-grammi alternativi di policies, se essa si svolgerà nel contesto di un dibattito pubblico

in cui le questioni di principio vengono sistematicamente commisurate alla soluzione di problemi concreti. Insomma, le rappresentanze degli interessi dovranno entrare nella

governance in quanto attori delle policies. E, contemporaneamente, i nuovi partiti o

le nuove coalizioni dovranno ridefinire la politics come il luogo di indirizzo di quelle policies.

51 capitolo 1 › nuovi paradigmi politici

Conclusione

La crescita del Paese richiede adeguate politiche di riforma della spesa pubblica e di rilancio delle esportazioni (come argomentato da Stefano Manzocchi nel suo capitolo), richiede cioè politiche coraggiose, efficaci ed eque da parte del governo e capacità di innovazione e leadership da parte delle rappresentanze territoriali (come argomentato da Nadio Delai nel suo capitolo). Tuttavia, la crescita del Paese non sarà promossa pienamente se non verrà ripensato in modo radicale il paradigma politico che è all’o-rigine del declino dell’Italia. La definizione di questo nuovo paradigma politico dovrà emergere da un confronto pubblico rigoroso e franco, sia tra i cittadini che all’interno della classe dirigente del Paese. Se questo confronto porterà all’affermazione di una nuova classe dirigente in grado di elaborare un’idea dell’Italia adeguata ai processi di

europeizzazione e internazionalizzazione che l’hanno coinvolta da tempo, allora un nuovo ciclo economico potrà riattivarsi. È improbabile che il Paese possa di nuovo cre-scere se non è sostenuto e guidato da una nuova classe dirigente capace di governare le trasformazioni epocali che lo attraversano. Una classe dirigente che potrà essere tale solamente se guidata da un’idea diversa, rispetto a quella intrattenuta dalla vec-chia classe dirigente, della relazione inestricabile che si creata tra l’Italia e gli altri stati membri dell’Unione Europea, della distinzione altrettanto irreversibile che si è imposta tra il government e la governance, dell’importanza strategica che ha assunto la policy

e della necessità di riformare la politics.

Tali cambiamenti epocali non coinvolgono solamente la rappresentanza politica, ma anche la rappresentanza funzionale e degli interessi economici e sociali. Nel nuovo contesto, la classe dirigente del futuro emergerà sempre di più dalle associazioni di rappresentanza, proprio perché lì vi sono competenze, conoscenze, risorse per affrontare le sfide delle policies. E se è vero che il processo di europeizzazione e

internazionalizzazione è cresciuto impetuosamente negli ultimi anni (basti pensare alle misure adottate per governare l’euro), allora anche tali associazioni d’interesse dovran-no accentuare la loro proiezione esterna, creando legami organici con le associazioni degli altri stati membri dell’Unione Europea, entrando con proposte di governance

nel processo deliberativo europeo e internazionale. L’Italia ha bisogno di una nuova infrastruttura istituzionale e cognitiva per affrontare la sfida della sua europeizzazione e internazionalizzazione, una sfida molto più complessa di quella per la nazionalizzazione del Paese che ha dovuto affrontare tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Per questo motivo sarebbe necessario dare vita ad una vero e proprio programma di alta formazione dei futuri leader delle categorie economiche e sociali, istituzionalizzan-do un Master su “Economia e politiche della rappresentanza” sostenuto dalle maggiori associazioni nazionali e organizzato all’interno di una struttura accademica che già svolge questi compiti come la Luiss School of Government. Insomma, per riportare il

Paese a crescere bisogna elaborare nuovi modi di pensare i problemi di una società e di un’economia avanzate, come le nostre, all’interno di uno storico processo di inte-grazione sovranazionale.

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capitolo 2 › nuovi paradigmi economici

nuovi paradigmi economici

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