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Trasformare il Paese tra vincoli esterni e caduta dell’occupazione

Nel documento Stampa: Rubbettino Print (pagine 53-56)

Premessa

La qualità e l’adeguatezza delle classi dirigenti e dei sistemi di rappresentanza di un Paese si misurano senz’altro anche dalla loro capacità di anticipare alcuni scenari del cambiamento e di immaginare una collocazione futura sia per il Paese nel suo complesso, sia per i propri rappresentati nell’ambito di questi scenari. Oggi che il tema in Italia - come già un ventennio fa - è quello di rincorrere il cambiamento in condizioni di emergenza, la questione del rinnovamento della forma mentis delle classi dirigenti e delle rappresentanze si intreccia con i nodi strutturali all’ordine del giorno del Paese.

Il sistema manifatturiero - bancario - la vera spina dorsale dell’eccezionale sviluppo economico e sociale italiano del dopoguerra - versa in condizioni di emergenza. È questa la priorità assoluta che le tutte classi dirigenti italiane devono assumere nei prossimi mesi ed anni, per sostenerlo ed aiutarlo ad evolvere perché da esso dipende la prosperità del Paese. Il tempo è una variabile fondamentale: se non si agisce con prontezza, l’Italia rischia di diventare sopratutto un importante mercato per le aziende estere, ed una sede dell’industria delle vacanze e tempo libero. Sotto le ceneri della crisi finanziaria, covano le braci di una competizione aspra tra sistemi economici nazionali, solo in piccola parte temperata dalla cooperazione multilaterale. In questo “Grande Gioco” del XXI secolo, la localizzazione delle attività manifatturiere e la stabilità ed il progresso del sistema bancario sono le poste in gioco più importanti per il nostro Paese. Tutte le componenti delle classi dirigenti e dei sistemi di rappresentanza devono essere consapevoli dell’irreversibilità di molti dei cambiamenti che si realizzeranno in * Ringrazio per la preziosa collaborazione di ricerca e per le simulazioni Cecilia Jona Lasinio (per il paragrafo 2.2) e Giovanna Vallanti (per il paragrafo 2.1). Il capitolo è stato chiuso con le informa-zioni disponibili al 14 febbraio 2012.

questo periodo: tutte devono essere pronte a fare concessioni, con equilibrio, per la loro stessa prosperità futura oltre che per quella altrui.

Dopo un decennio nel quale il debito dei paesi avanzati, in primo luogo gli Stati Uniti, ha consentito ritmi di crescita forse insostenibili per l’Occidente, dal 2007 le ricorrenti crisi debitorie (mutui Usa, banche anglosassoni e non, debiti sovrani) ed il conseguente processo di rientro delle leve finanziarie (il c.d. “deleveraging”) hanno dapprima ridotto il livello medio di produzione e occupazione nei paesi avanzati, e quindi abbassato i ritmi della crescita mondiale. In molti paesi emergenti, che ave-vano beneficiato dell’espansione trainata dal debito occidentale, si è nel frattempo innescato un processo di industrializzazione che ha sottratto milioni di persone dall’e-conomia di sussistenza, ne ha aumentato la produttività, e le ha immesse nel sistema globale degli scambi. Secondo le stime del Fondo Monetario, la crisi ha segnato uno spartiacque perché da allora gli emergenti contribuiscono almeno il doppio dei paesi di antica industrializzazione allo sviluppo economico planetario, e lo faranno almeno fino al 2016.

Quanto durerà il “deleveraging” occidentale, che riduce la spesa globale per investi-menti e consumi, e con quali altri sussulti e crisi, è difficile prevedere. Ne uscirà per certo un Mondo Nuovo (per riprendere il titolo del Rapporto GCD 2011) assai diverso da quello del XX secolo, dove la presenza nel sistema degli scambi internazionali dei paesi a medio-basso reddito e crescita sostenuta - per molti aspetti positiva - ha reso abbondante il fattore lavoro e ne ha ridotto il prezzo su scala globale. Le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (ICT) hanno per parte loro contribuito a questo processo, riducendo l’intensità media di lavoro di molti processi produttivi. La conseguenza è che l’offerta di lavoro è eccedente su scala mondiale, mentre la scarsità riguarda le materie prime, l’energia, le conoscenze, l’intelligenza dei processi.

Non a caso, la distribuzione del reddito e della ricchezza si sono andate polarizzando nell’ultimo venticinquennio, riportandosi verso una situazione antecedente le due guerre mondiali, anch’essa caratterizzata da una forte integrazione commerciale e finanziaria (il Gold Standard). Crisi così prolungate e profonde come quella attuale si accompagnano sempre a fasi di riassetto geo-economico epocale: dalla depressione degli anni ’20 e ’30 emerse l’egemonia Usa, da questa va configurandosi un mondo sempre più “Pacifico” e meno Atlantico. Nei prossimi anni, è comunque difficile imma-ginare un contesto di crescita globale come quello del 1995-2007.

Il tema del rilancio italiano, nell’ambito dei nuovi paradigmi economici, e del ruolo che possono svolgere le classi dirigenti anche mediante le rappresentanze sociali e politiche, va contestualizzato per delimitare bene i margini d’azione e le relative responsabilità. È chiaro che buona parte dei risultati di crescita italiana dipendono dal traino di scambi mondiali meno dinamici per conseguenza del “deleveraging” di cui abbiamo detto sopra. È altresì chiaro che in buona parte gli esiti italiani dipen-dono dalla situazione a livello europeo. In Europa, ed in particolare nell’area-euro, quel che pesa non è solo lo squilibrio dei debiti e deficit pubblici, ma lo squilibrio di competitività e delle bilance commerciali. C’è un sensibile differenziale di produttività

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(comunque misurata: costo del lavoro per addetto, produttività dei fattori, ecc.) e di competitività che separa gli andamenti tedeschi da quelli del resto d’Europa. Questo divario, che negli anni del boom mondiale finanziato dal debito non ha suscitato enormi tensioni, si è innestato dopo il 2007 in un contesto di crescita bassa e di riluttanza tedesca ad utilizzare la leva fiscale per rilanciare la domanda su scala con-tinentale. La conseguenza è che il surplus commerciale tedesco ha per i 2/3 una contropartita nei deficit di altri paesi europei, che il differenziale di produttività si traduce in dinamiche divergenti della produzione industriale, e che mentre la disoc-cupazione in Germania è oggi sotto il 7%, ai minimi degli ultimi 20 anni, nel resto dell’area-euro è in ascesa anche rapida.

Come nel caso del traino degli scambi mondiali, è chiaro dunque che la crescita italiana dipende in buona parte dall’orientamento dei principali partner europei in tema di poli-tica fiscale: più espansione in Germania e/o Francia, oppure un potenziamento della spesa comunitaria, avrebbero un immediato effetto positivo sull’economia italiana. Ma non c’è consenso ad oggi su come rilanciare la crescita in Europa. L’attuale leadership tedesca suggerisce una “cura dell’offerta” nei paesi periferici per ricondurre i salari orari reali in linea con la produttività, e un maggior controllo a livello Ue per mantenere le finanze pubbliche entro i vincoli del Trattato di Lisbona. Nei paesi dell’Europa meri-dionale, la leva fiscale è pressoché inutilizzabile per il rilancio dell’economia, stanti gli attuali vincoli posti dall’appartenenza alla moneta unica e dalle condizioni di rifinanzia-mento del settore pubblico e delle banche sui mercati. In mezzo, la posizione francese è divisa tra la riluttanza ad accettare una vera “comunitarizzazione” delle politiche fiscali, e l’esigenza di proteggere le banche nazionali e di contenere la disoccupazione. La divergenza delle congiunture economiche in Eurolandia ed il sostanziale default della Grecia hanno posto forti dubbi nel corso del 2011 circa il destino della moneta unica, sulla cui genesi imperfetta molto si è scritto in questi mesi. Le recenti scelte della BCE e del Consiglio Europeo hanno diradato le prospettive più fosche: sembra si possa faticosamente costruire un consenso per un’unione fiscale che indirizzi la spesa pubblica sia ad alleviare la disoccupazione nelle regioni europee più colpite da con-giunture avverse, sia a finanziare progetti di investimento in infrastrutture materiali ed immateriali su scala continentale. Dopo l’accordo UE del 30 gennaio in materia fiscale, appare più realistica una governance UE idonea a rilanciare la politica comunitaria in chiave anti-recessiva, ad esempio con lo scorporo delle spese per investimento dal computo del rapporto deficit-Pil o con la modulazione dei piani di rientro da debiti pubblici “eccessivi”.

Nonostante i segnali di rallentamento anche in Germania, lo scenario a breve termine ancor oggi più probabile è comunque quello di un governo tedesco che spera racco-gliere nelle elezioni del 2013 i frutti in termini di consenso di una condizione econo-mica abbastanza soddisfacente, battendo il tasto della disciplina fiscale comunitaria, mentre il resto d’Europa è in recessione o ristagna. E soprattutto che riafferma costan-temente di non voler gravare il contribuente tedesco dei costi degli sprechi pubblici nel Sud Europa. Questa divergenza congiunturale e l’assenza di meccanismi

compen-sativi consolidati sono fertile terreno di coltura per populismi di destra e sinistra che vedono nell’euro e nell’Unione la causa di tutti i mali, come argomentava Marc Lazar nel V Rapporto GCD. Nelle classi dirigenti europee si è tuttavia consolidata nel corso del 2011 la consapevolezza che la fine dell’euro ed il ritorno alle monete nazionali segnerebbero una caduta abissale di ricchezza e produzione in tutti i Paesi Membri, e probabilmente una disgregazione dell’Unione stessa che colpirebbero principalmente le classi sociali meno abbienti. Quindi, mentre è ragionevole chiedersi se e come l’euro si poteva concepire meglio, ed agire per rafforzare la governance e le politiche europee a sostegno dell’Unione, le elite nazionali hanno di fronte la responsabilità di un’opera di pedagogia e convincimento delle rispettive opinioni pubbliche rispetto agli sforzi da compiere per rafforzare la stabilità della moneta unica.

Oltre al “deleveraging” ed alle incongruenze dell’assetto economico europeo, c’è un altro vincolo che condiziona il rilancio dell’economia italiana, quello della concentrazio-ne del potere finanziario globale. Uno studio recente mostra come poche società finan-ziarie condizionano le dinamiche dei mercati, con un impatto forte sui tassi d’interesse e quindi sull’economia reale1. Sarà bene che tutta l’Europa continentale ponga rimedio a questo strapotere; ma oggi illudersi di poter eludere questi vincoli dopo mezzo secolo di deregolamentazione finanziaria è ingenuo, anche se una maggior credibilità ed un diverso protagonismo dell’Europa possono alleviarne il peso.

Il tema del rilancio della nostra economia, dunque, e del ruolo della classi dirigenti per la crescita va declinato dunque sullo stretto sentiero delimitato da questi vin-coli, imposti dai nuovi paradigmi che si sono affermati nel mondo ed in Europa nella fase attuale. “Il governo dei tecnici” è una risposta al deficit di credibilità delle nostre classi dirigenti rispetto al “come stare in Europa” e al come rapportarsi al Mondo Nuovo ed ai mercati finanziari. Ma è anche, nelle intenzioni, una risposta ai deficit di rappresentanza che si sono aggravati nel corso degli ultimi decenni in una società ingessata come quella italiana, ad esempio quello che riguarda gli outsider del mercato del lavoro, oppure i piccoli risparmiatori che non hanno le risorse o la cultura per proteggere i loro averi dalla speculazione, o le future generazioni gravate dal debito pubblico. Si tratta quindi di un governo nato per meglio rappresentarci nel mondo, e che nelle intenzioni si propone di rappresentare anche coloro che finora non lo erano.

Nel documento Stampa: Rubbettino Print (pagine 53-56)