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L’intreccio tra government e governance

Nel documento Stampa: Rubbettino Print (pagine 42-45)

Sarebbe improprio sostenere che le difficoltà a governare i processi di europeizza-zione e internazionalizzaeuropeizza-zione siano (o siano state) esclusivamente italiane. Ovun-que, il government, inteso come struttura verticale del decision-making pubblico, è

in affanno, se non in crisi. Tutti i sistemi di governo (presidenziale negli Stati Uniti, semipresidenziale in Francia, parlamentare nella generalità delle democrazie euro-pee, Fabbrini 2008) hanno manifestato un evidente difficoltà a fronteggiare una sfida come quella rappresentata dalla crisi finanziaria. Negli Stati Uniti, il governo diviso (tra un presidente democratico, una maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti ed un equilibrio al Senato tra conservatori e progressisti), coniu-gato con una polarizzazione politica senza precedenti, ha reso quasi impossibile la ricerca di un accordo tra l’esecutivo e il legislativo per ridurre l’alto deficit del bilancio pubblico. Anche nella solida Germania, le divisioni interne alla coalizione di maggioranza tra i Cristiano-democratici e i Cristiani sociali e il loro partner minore, il Partito liberal-democratico, hanno accentuato le incertezze dimostrate dal Cancelliere Merkel nell’affrontare la crisi dell’euro, visto che i primi erano su posizioni favorevoli ad una gestione comunitaria della crisi mentre il secondo ha cercato di dare voce all’euro-scetticismo di una parte dell’opinione pubblica. Se è indubbio che la Francia semipresidenziale abbia mostrato il tasso più alto di efficienza decisionale (così rie-quilibrando per via politica la forza economica della Germania), nondimeno anche in questo paese i vincoli europei si sono fatti sentire. Anche la Gran Bretagna del governo di coalizione (tra conservatori e liberal-democratici) ha mostrato incertezze sconosciute ai precedenti governi monopartitici, in particolare relativamente alla strategia da perseguire nei confronti della crisi dell’euro e della permanenza o meno nell’Unione Europea. Tuttavia, in nessuno di questi Paesi si è verificata una crisi della capacità di governare come in Italia.

La debolezza dei partiti e la fragilità delle basi politiche dei governi ha così portato, nel nostro Paese più che altrove, ad una vera e propria de-strutturazione del processo decisionale. La frammentazione sociale, che da tempo ci connota (Martinelli e Chiesi 2002), ha favorito un corporativismo sociale e professionale che si è sostituito, nei sin-goli settori, alla politica. In assenza sia di attori politici in grado di aggregare gli interessi che di istituzioni capaci di disciplinarne la rappresentazione politica, la differenziazione degli interessi indotta dai nuovi processi produttivi e tecnologici si è trasformata in una vera e propria corporativizzazione sociale. Ogni gruppo, anche il più piccolo, ha potuto utilizzare un potere di veto contro ogni decisione indesiderata, anche se tale potere di veto è stato giustificato talora sulla base di tradizionali ideologie classiste e talaltra sulla base di moderne ambizioni professionali. E, soprattutto, tali micro-interessi hanno individuato nell’organizzazione dello stato centrale e nelle sue articolazioni locali e regionali la fonte per acquisire risorse, riconoscimenti, benefici, protezioni. La persi-stenza sostanziale del debito pubblico negli ultimi vent’anni (leggermente diminuito durante i governi di centro-sinistra e altrettanto leggermente cresciuto durante i governi

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di centro-destra) costituisce l’epitome del modello politico-economico che ha tenuto in piedi l’Italia e che l’ha contemporaneamente soffocata.

Da questo punto di vista, si è registrata una continuità sostanziale con il sistema politico della Guerra Fredda, sistema che aveva creato quel debito pubblico in particolare negli anni Ottanta del secolo scorso, ma che il sistema politico successivo non è riuscito minimamente a scalfire (Salvati 2011). Con la differenza che, nel 1992, venne firmato il Trattato di Maastricht (Trattato a cui si è giunti anche grazie al contributo di italiani come Guido Carli che era allora ministro del Tesoro), cioè venne assunto l’impegno da parte del nostro Paese a ridurre il debito (al 60 per cento del Pil) e il deficit (al 3 per cento del Pil). La frammentazione delle rappresentanze sociali, funzionali, professionali, coniugata con la frammentazione del sistema partitico e infra-partitico, ha impedito che si affermasse una strategia che attraverso il rigore nei conti pubblici perseguisse la crescita economica del Paese. Il debito pubblico è aumentato senza alcun effetto keynesiano sulla crescita. Anzi, producendo il contrario, visto che quel debito copriva posizioni di rendita piuttosto che sostenere esigenze di sviluppo. Un gigantesco mecca-nismo di scambio si è così attivato tra i rappresentati dei vari micro-interessi funzionali e i rappresentanti dei vari micro-interessi politici. Come da tradizione nazionale, ogni finanziaria che voleva ridurre i costi pubblici aveva le sue deroghe. Ogni gruppo ha potuto ricevere le sue esenzioni, i suoi benefici, i suoi privilegi.

Se la governance, contrariamente al government, implica la formazione di un processo

decisionale orizzontale, l’Italia ha avuto sì una governance, ma altamente frantumata.

I vari particolarismi si sono inseriti nel processo decisionale delle istituzioni pubbliche senza alcuna mediazione, anzi hanno riversato sulle istituzioni le pretese unilaterali delle loro constituencies territoriali o funzionali. La democrazia italiana ha assistito ad

una sorta di sindacalizzazione del processo decisionale. Certamente, la concertazione

tra il governo Ciampi e le parti sociali nel 1993, preceduta dalle trattative già avviate dal precedente governo presieduto da Giuliano Amato, consentì di creare le condizioni per il salvataggio del Paese che era allora in condizioni di vera e propria bancarotta finanziaria. Ma da allora, il processo di frantumazione delle rappresentanze è andato molto avanti, mettendo in seria discussione la strategia di raccogliere intorno ad un tavolo le varie ‘espressioni’ della società civile ed economica. Per di più, occorre tenere presente che tale corporativizzazione del Paese ha finito per preservare le posizioni e gli interessi ‘di chi è dentro’, escludendo di considerare gli interessi e le aspettative di coloro ‘che stanno fuori’ il processo decisionale (come i giovani o le donne) (Boeri e Garibaldi 2011; Ferrera 2008).

Gli ordini professionali si preoccupano di difendere gli interessi di coloro che sono di già entrati in una professione, i sindacati si preoccupano di difendere gli interessi di coloro che hanno già un lavoro o una pensione, le associazioni datoriali si preoccupano di difendere gli interessi di coloro che hanno già conquistato una posizione nel mercato, le associazioni territoriali si preoccupano di difendere gli interessi di coloro che hanno le risorse (generalmente elettorali) per farsi ascoltare, la corporazione dei professori si preoccupa di difendere gli interessi di questi ultimi. Che poi la difesa di questi vari

interessi si sia rivelata abbondantemente in contrasto con le esigenze di apertura del mercato del lavoro, di promozione della mobilità sociale, di sostegno all’innovazione, tutto ciò non è mai entrato nello schema culturale delle nostre corporazioni. È come se l’Italia non si fosse mai liberata dalle gilde del passato. Comunque, chi ha rappresentato (e rappresenta) coloro che non hanno (avuto) le risorse o le posizioni per farsi rappre-sentare? Sotto la superficie della società balcanizzata si è affermata una fondamentale divisione o frattura: quella tra chi è dentro e chi è fuori lo spazio della decisione. Le vecchie fratture sociali (di classe, di ceto, di territorio) si sono venute ad intrecciare con una nuova e più profonda frattura tra generazioni e tra generi. Non può stupire che una società corporativa abbia finito per produrre diseguaglianze sociali inedite per l’Italia successiva al boom economico degli anni Sessanta del secolo scorso. Diseguaglianze di reddito ma soprattutto di opportunità: perché il nuovo sistema ha avvantaggiato i vecchi piuttosto che i giovani, gli uomini piuttosto che le donne, i rent-seekers piuttosto che

gli innovatori, coloro che conoscono ‘chi conta’ non già chi ha una competenza ‘che può contare’, i difensori dello status quo che agiscono nel mercato interno protetto

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