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L’Italia in Europa: la strategia

Nel documento Stampa: Rubbettino Print (pagine 36-39)

Discutiamo ora l’altra domanda: quale strategia dovrebbe perseguire l’Italia nell’Unione Europea? Occorre precisare subito che una strategia europea del Paese, per essere credibile, deve (o dovrà) avere una base domestica solida. Cioè deve (o dovrà) essere sostenuta da un sistema politico adeguato. Negli ultimi vent’anni, nonostante milioni di parole sprecate sulla necessità di una riforma delle istituzioni e della politica, non è stato fatto nulla per adeguare la democrazia italiana alla logica del sistema politico europeo. Continuiamo ad avere politici che sono professionisti della “mobilitazione dei pregiudizi degli elettori”3, che sanno costruire consenso attraverso la sensibilizzazione dei mal di pancia degli elettori, ma incapaci a pensare che la rappresentanza politica è l’altra faccia della necessità decisionale, che non si può avere l’una senza l’altra. Diciamocelo: durante la crisi dell’euro, ci hanno governato gli altri (i nostri maggiori partner europei) perché noi non sapevamo come governare noi stessi. Abbiamo un sistema politico e una cultura pubblica che continuano ad essere drammaticamente eccentriche rispetto alle esigenze di funzionamento della governance europea. E abbiamo dovuto ricorrere

ad un ‘anormale’ (per la democrazia) governo dei tecnici per poter agire come una ‘normale’ democrazia (europea). Ma fino a quando potrà durare questa soluzione?

Box 1 - Governance e government

I termini di governance e di government non sono equivalenti. La governance rinvia ad una modalità di prendere decisioni politiche basata sul confronto orizzontale tra istituzioni pubbliche e gruppi privati, all’interno di arene non necessariamente formalizzate. Il government, invece, rinvia ad una modalità di prendere decisioni politiche basata sul confronto verticale all’interno di istituzioni pubbliche costituzionali. Il government è dunque il governo in quanto sistema istituzionale per prendere decisioni (e si connota per il rapporto tra legislativo ed esecutivo che può essere diverso nei diversi sistemi di governo), mentre la governance è un sistema aperto e generalmente non formalizzato per arrivare alle decisioni a valenza pubblica, a cui partecipano non solo attori politici ma anche sociali, economici, civili, se non addirittura singoli individui. Naturalmente, nella realtà concreta, il confine tra i due (government e governance) è incerto, al punto che l’uno può intrecciarsi con l’altro

Se la classe dirigente italiana riuscisse a pensare l’Europa in modo adeguato, se fosse in grado di aprire una discussione pubblica su come promuovere gli interessi del nostro Paese all’interno dell’Unione Europea, se la smettesse di usare quest’ultima come un capro espiatorio delle proprie incapacità, se facesse ciò allora sarebbe possibile definire una strategia europea adeguata alle trasformazioni radicali che stanno avvenendo all’in-terno del sistema comunitario. Eppure, da quando è esplosa la crisi dell’euro e fino alla

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formazione del governo Monti, l’Italia è stata del tutto assente dal dibattito europeo sulla risposta da dare alle sfide provenienti da una contradditoria integrazione monetaria. Sono state la Germania e la Francia a discutere di un problema così cruciale, mentre la nostra classe politica continuava ad essere abbacinata dalle sue rivalità interne e personali. Ma il problema è ancora lo stesso, come ha dimostrato di capire il tecnico Monti: non si risolvono i problemi dell’Italia senza promuovere soluzioni europee. E allora: a noi vanno

bene i trattati intergovernativi decisi nelle riunioni del Consiglio Europeo dell’anno scorso? A noi va bene che il processo decisionale della politica finanziaria sia confinato in due istituzioni preminentemente intergovernative come (appunto) il Consiglio Europeo e il Consiglio dei ministri? A noi va bene che il modello tedesco (di austerità finanziaria) e il modello francese (di ‘governo economico’ dell’euro costituito primariamente dai leader degli stati membri più forti) si impongano sull’intera Unione Europea?

Insomma, se il processo decisionale è trattenuto all’interno degli accordi volontari tra i governi, come ci si può stupire che alcuni governi pesino più di altri? E se il coordina-mento della politica in questione è volontario, come ci si può stupire che alcuni governi,

in determinate circostanze, decidano di non rispettare l’accordo preso volontariamente con gli altri governi (un comportamento che ha contraddistinto oggi la Grecia ma ieri la Francia e la Germania, quando trovarono non conveniente rispettare il patto di stabilità nel 2003)? Il cosiddetto metodo intergovernativo per prendere le decisioni può essere

congeniale ad alcuni paesi, ma certamente non è congeniale all’Italia, che continua ad essere strutturalmente (nonostante le pretese di qualche leader politico del passato che pensava all’Italia come una grande potenza) “il più piccolo dei grandi anche se è il più grande dei piccoli”.

Per questo motivo, il governo dei tecnici è stata una condizione necessaria per evitare la completa marginalizzazione del paese all’interno dell’Unione Europea. Ma non può esse-re una soluzione sufficiente per riportarci in quest’ultima con una capacità di influenza corrispondente agli interessi che dobbiamo proteggere o promuovere. Se l’Italia dovrà riformare (e dovrà farlo in fretta) il proprio modello politico per arrivare al Consiglio Euro-peo con un governo politicamente autorevole e tecnicamente capace, allo stesso tempo l’Italia dovrebbe entrare di forza nella discussione sulla riforma del Trattato di Lisbona con una prospettiva finalizzata a bilanciare il ruolo del Consiglio Europeo con un Parlamento Europeo dotato di formidabili strumenti di controllo e con una Commissione rafforzata nella sua autonomia funzionale. L’Italia deve ritrovare la capacità (che ha avuto sin dalle origini del processo di integrazione) di promuovere la necessaria coalizione di stati mem-bri e di istituzioni affinché i due trattati intergovernativi (ESM e Fiscal Compact) facciano

proprio il sistema istituzionale multilaterale dell’Unione Europea sovranazionale, con un ruolo importante del Parlamento Europeo e della Commissione ed una supervisione giu-diziaria degli accordi presi da parte della Corte Europea di Giustizia. Solamente un siffatto sistema multilaterale può giustificare decisioni di penalizzazione degli stati membri che non rispettino gli accordi presi (sia che esse abbiano la forma di una severa multa o di una esclusione dalla distribuzione delle risorse delle politiche di coesione). È questo che dovrebbe fare un Paese non (più) chiuso nel suo paradigma dell’introversione.

Non si tratta, dunque, di difendere una sovranità inesistente, ma di lavorare per pro-muovere una sovranità condivisa che sia in grado di propro-muovere, allo stesso tempo, politiche fiscali, di bilancio e finanziarie coerenti con le nostre possibilità domestiche e legittime sul piano democratico. Ciò vuole dire operare per riportare i due trattati intergovernativi all’interno del Trattato di Lisbona? Oppure vuole dire promuovere una differenziazione controllata all’interno dell’Unione Europea, tra l’Europa del mercato unico e l’Europa della moneta unica, utilizzando lo strumento delle cooperazione raf-forzate di già presente nel Trattato di Lisbona? È di queste cose che dovrebbe discutere una classe dirigente degna di un moderno paese europeo.

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