È certamente necessario che l’Italia si doti (e si doti in fretta) di un sistema di governo e di un sistema di partito adeguati ad uno stato membro dell’Unione Europea. Tuttavia, i cambiamenti radicali e strutturali intervenuti nella società italiana negli ultimi vent’anni non potranno essere adeguatamente fronteggiati solamente con una riforma delle nostre istituzioni governative. È improbabile che l’Italia possa acquisire un sistema istitu-zionale ad alto tasso di efficienza come quello francese o ad alto tasso di responsabilità come quello tedesco. Non ci sono modelli da imitare ma prospettive di riorganizzazio-ne da perseguire, teriorganizzazio-nendo presenti ‘i mattoni di cui disponiamo per costruire la nuova casa’. La nostra rappresentanza parlamentare darebbe un segnale di intelligenza politica se utilizzasse il periodo di sospensione della competizione politica (quello del governo tecnico) per mettere mano ad una riforma elettorale e istituzionale che restituisse all’I-talia una capacità di governo ragionevole dei processi di europeizzazione. Le cose da fare per rafforzare il nostro government sono abbastanza note e abbastanza chiare: una
riforma elettorale che incentivi una competizione matura tra le due maggiori coalizioni, ognuna di loro collocata coerentemente nel sistema dei due maggiori partiti europei; il superamento del bicameralismo simmetrico e il ridimensionamento quantitativo dei parlamentari così da accrescerne l’efficienza qualitativa; una strutturazione partitica all’interno del legislativo che proibisca la formazione di gruppi ristretti o comunque di gruppi che non si erano presentati alle elezioni; un governo del primo ministro che attraverso la sfiducia costruttiva si possa proteggere dal fuoco amico; un drastico ridi-mensionamento dei costi sostenuti dallo stato per finanziare l’attività politica affidando invece ai cittadini questo compito;una semplificazione degli apparati burocratici centrali e periferici; una razionalizzazione del sistema di organizzazione degli enti territoriali. Naturalmente, è ragionevole ipotizzare che i parlamentari non vorranno tagliare il ramo su cui sono seduti, tuttavia è altrettanto ragionevole assumere che i più responsabili tra di loro non possono non sapere che la difesa ostinata di un sistema indifendibile potrebbe condurre ad un rifiuto anti-politico che coinvolgerebbe tutti loro.
Ma se è necessario lavorare sul government, ciò non è sufficiente. L’Italia, in particolare
la sua classe dirigente, deve anche mutare il paradigma con cui ha finora concepito la governance. Occorre cioè pensare in modo radicalmente diverso dal passato il
rap-porto tra politica e interessi, tra rappresentanze politiche e rappresentanze funzionali, tra stato e società. Ed è qui che i leader dei grandi interessi organizzati (a partire dalla Confindustria fino a giungere ai sindacati federali) hanno una responsabilità storica da assolvere. Finora, nel nostro Paese, si sono sperimentati due modelli alternativi di organizzazione dei rapporti tra partiti e gruppi d’interesse, tra i vari possibili modelli sperimentati altrove (Mattina 2010). Il primo è quello della subordinazione, il secondo
quello dello scambio. Vediamo meglio, cominciando dal primo. Per buona parte
dell’I-talia post-bellica (almeno fino alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso), i partiti politici sono stati i veri e propri controllori della politica nazionale. Fieramente con-trapposti sul piano ideologico, altamente organizzati sul piano territoriale, rigidamente
collocati nello schema della politica parlamentare, i partiti politici di quel periodo sono stati i veri e propri gate keepers (i controllori del cancello) per entrare nel processo
decisionale. Per i gruppi di interesse non c’era molto da fare se non accettare questa situazione di dominio partitocratico, beneficiandone se possibile anch’essi. Per loro, si trattava di scegliere il loro partito di riferimento, mettendogli a disposizione risorse organizzative, consenso elettorale, personale politico. Nel modello della subordinazio-ne i gruppi contavano, cioè riuscivano a difendere o a promuovere gli interessi dei loro
iscritti, solamente se instauravano rapporti privilegiati con partiti che avevano peso nel governo o nel parlamento, ovvero con fazioni di quei partiti, che a loro volta ricam-biavano il sostegno ricevuto con provvedimenti legislativi o decisioni amministrative favorevoli ai loro sostenitori. Come abbiamo visto, questo modello della subordinazio-ne si è consumato con il declino della politica ideologica. Un declino che, in Italia, ha
avuto le caratteristiche di un vero e proprio disfacimento organizzativo e culturale dei ‘controllori dello stato’.
Dopo la parentesi della concertazione dei primi anni Novanta (un vero e proprio miracolo di responsabilità collettiva), la frammentazione sia del sistema partitico che delle rappresentanze sociali ha portato alla pratica di un nuovo modello di relazioni tra politica e interessi, quello dello scambio. Se i nuovi partiti non si dimostravano più in
grado di aggregare le domande sociali in una (relativamente) coerente prospettiva di governo, tale aggregazione delle domande sociali non poteva essere fatta propria nep-pure dalle grandi organizzazione di rappresentanza funzionale. Non solo perché molti gruppi hanno capito che il loro potere di veto era più alto se gestito individualmente. Ma anche perché le trasformazioni strutturali dell’economia indotte dal processo di glo-balizzazione hanno creato nuove attività ed interessi che non riuscivano a riconoscersi nella struttura ereditata dal passato delle rappresentanze funzionali. Cioè una struttura di rappresentanza costruita nel contesto di un capitalismo industriale, di uno stato nazionale e di una società protetta. Così, i cambiamenti intervenuti hanno finito per indebolire quelle stesse organizzazioni di interesse che avevano contribuito a salvare l’Italia con la concertazione dei primi anni Novanta, riempiendo il vuoto decisionale allora lasciato dal tracollo improvviso del sistema dei partiti gate-keepers, come spiega
Carlo Trigilia nel suo capitolo.
In assenza di partiti aggreganti e con le grandi organizzazioni di interesse indebolite, si è così sviluppato un modello di relazioni tra micro-interessi e micro-partiti basato sullo scambio di breve periodo. Scambio in cui i primi hanno fornito risorse (finanziarie ed elettorali) ai secondi e quest’ultimi hanno ricambiato con benefici particolaristici. Di nuovo, il paradigma alla base dello scambio è stato quello tradizionale: l’uso della spesa pubblica a fini di consenso elettorale e sociale, nonostante i vincoli europei. Questo
scambio è stato forse ancora più accentuato in periferia, nei comuni e nelle regioni, attraverso la costruzione di un sistema di agenzie pubbliche (con il compito di gestire i vari servizi di interesse collettivo) che i micro-partiti hanno utilizzato per costruire rela-zioni di simbiosi con i micro-interessi locali. Il modello politico-economico noto come
47 capitolo 1 › nuovi paradigmi politici
statale della società si è registrata (negli ultimi vent’anni e in molte aree del paese) una colonizzazione delle istituzioni pubbliche da parte di gruppi delle varie società locali. È inutile aggiungere che, in alcuni ma significativi casi, tale colonizzazione del sistema pubblico da parte della società ha avuto l’effetto di rafforzare (e legittimare) vere e proprie società criminali. D’altra parte, non si potrebbe spiegare come sia possibile che ben i 4/5 delle società municipali di erogazione dei servizi continuino ad essere in con-dizioni di defìcit di bilancio permanente. Si è così creata, nell’Italia degli ultimi vent’anni, una cultura diffusa della irresponsabilità, con ogni gruppo (partitico e professionale) preoccupato esclusivamente del proprio particulare, in coerenza (da questo punto di