La prima vittima della crisi finanziaria è stato il mito della sovranità nazionale. Parlo del mito, non già della realtà. Perché la realtà è molto, ma molto, diversa (Walker 2006). Eppure, larga parte dei nostri rappresentanti politici e d’interesse continuano a pensare che il Paese sia davvero sovrano, che il Parlamento può controllare le princi-pali variabili monetarie, economiche e sociali, che l’Unione Europea è esclusivamente un’arena di coordinamento tra governi nazionali che rimangono però sostanzialmente indipendenti l’uno dall’altro2. Anzi, nei passaggi più drammatici della crisi, segretari di partito, consiglieri politici di varia natura, esponenti parlamentari, leader di organizza-zioni professionali e di interesse, non hanno avuto remore nell’alzare la voce contro “i
diktat della Germania e della Francia”, diktat che si riteneva ferissero il nostro orgoglio
nazionale. Da sinistra e da destra si è assistito ad un fiorire di dichiarazioni a difesa della sovranità del nostro Parlamento, dichiarazioni sostenute con convinzione da studiosi di varia provenienza disciplinare (dalla storia economica al diritto costituzionale), tutti uniti nel respingere l’arroganza degli europei del nord. Naturalmente, questo rigurgito di nazionalismo è arrivato fino ai talk shows televisivi, in concorrenza l’uno con l’altro
per dimostrare le proprie credenziali nazional-popolari.
Ciò che emerge da questa crisi è dunque una visione dualistica della situazione: da
un lato c’è l’Italia e dall’altro lato c’è l’Europa (raramente si dice Unione Europea). La sovranità è concepita (continua ad essere concepita) come un oggetto unitario, in
coerenza con la tradizione formalistica italiana, divenuta per molti aspetti un senso comune all’interno dei nostri rappresentanti politici e funzionali (molti dei quali hanno ricevuto una formazione giuridica o economica sulla base di teorie elaborate subito dopo la seconda guerra mondiale, se non prima). Se la sovranità c’è o non c’è, e se
si pensa alla sovranità all’interno di uno schema binario (loro e noi), allora non può
stupire l’incapacità a capire cosa è avvenuto. In realtà, la sovranità non è un oggetto unitario, bensì può essere spacchettata in modo diverso, nelle diverse politiche pub-bliche in cui generalmente si esercita l’azione dell’autorità pubblica (Cowles, Caporaso e Risse-Kappen 2001). Per di più, anche se molti non se ne erano accorti, questo spacchettamento è iniziato da tempo, sul piano finanziario-monetario sin dal Trattato di Maastricht del 1992 e più generalmente sul piano economico dal Trattato di Parigi del 1951 e dai Trattati di Roma del 1957 che sono all’origine dell’attuale Unione Europea. Non solo, l’Italia è stata un paese decisivo per avviare il processo di integrazione agli inizi degli anni Cinquanta, per imporre l’elezione diretta del Parlamento Europeo nel 1979 che ha rafforzato la legittimità democratica di quel processo, per fare approvare sia l’Atto Unico Europeo del 1986 che ha introdotto il principio del voto di maggioranza anche nel Consiglio dei ministri (ora chiamato solamente Consiglio) che il Trattato di 2. La letteratura che ha messo in discussione l’interpretazione dell’Unione Europea come
un’organiz-zazione internazionale è vasta e da tempo consolidata. Per quanto mi riguarda, rinvio a Fabbrini (2002) e Fabbrini e Morata (2002).
Maastricht che ha avviato l’Unione monetaria europea sulle cui basi si è sviluppata la moneta comune (l’euro) (Fabbrini e Piattoni 2008).
Per dirla nel modo più semplice possibile: in Europa da molto tempo non esistono più gli stati nazionali ma esistono gli stati membri dell’Unione Europea (Sbragia 1992). E l’Unione Europea non è un sistema distinto dagli stati membri che la costituiscono, come si potrebbe pensare sulla base della logica dualistica. Al contrario, l’Unione Europea è un sistema composito, cioè un sistema politico ed economico nel quale
le istituzioni comunitarie di Bruxelles e quelle degli stati membri condividono pezzi di sovranità, mentre altri pezzi sono controllati principalmente o dalle seconde o dalle prime (Fabbrini 2010). Insomma, l’Europa è andata oltre Westfalia da molto tempo, anche se non pochi non se ne sono ancora accorti. L’Europa che nel 1648 aveva inven-tato lo sinven-tato territoriale per risolvere il problema della pace interna alle singole unità, nel 1951 ha dovuto inventare l’unione di stati e di cittadini per risolvere il problema della pace esterna che Wesfalia aveva drammaticamente fatto esplodere con le due guerre civili europee (poi chiamate guerre mondiali) (Caporaso 2000). Ma ben presto la formazione di un mercato comune si è dimostrata una condizione, non solamente della pacificazione europea, ma anche dello sviluppo economico e civile dell’intero continente. Nessuno stato nazionale europeo, da solo, avrebbe mai potuto risolvere il
problema della pace politica (e quindi della democrazia) e dello sviluppo economico (e quindi della crescita civile e della solidarietà sociale).
Con la decisione di partecipare alla moneta comune, l’euro, che oggi è utilizzata da buona parte dell’Europa continentale (sono 17 gli stati membri dell’Unione Europea che aderiscono all’Unione economica e monetaria), l’Italia ha ulteriormente accentuato la propria integrazione nel sistema composito che organizza i processi decisionali all’in-terno dell’Unione Europea. In un sistema composito a sovranità monetaria condivisa,
ognuno è responsabile per gli altri, nel senso che le scelte di bilancio e più
general-mente fiscali di uno stato membro hanno inevitabili conseguenze finanziarie sugli altri stati membri. Eppure, anche in questo caso, abbiamo dovuto ascoltare, nel corso della crisi del governo Berlusconi nell’autunno del 2011, dichiarazioni di importanti leader politici o rappresentanti di gruppi professionali sui vantaggi della lira, qualcuno ha addi-rittura sollecitato il ritorno alla vecchia moneta ‘quando era possibile fare ciò che vole-vamo’ (ovvero sostenere la nostra economia andando da una svalutazione all’altra). La superficialità di queste dichiarazioni non concerneva solamente la leggerezza con cui non venivano neppure valutati i costi di un’eventuale uscita dall’euro, ma concerneva principalmente l’accondiscendenza verso le nostre attitudini ad agire in modo irre-sponsabile verso la spesa pubblica, ‘tanto poi qualcuno rimedierà’. Se fossimo davvero ritornati alla lira, uscendo dall’Unione economica e monetaria, ci saremmo condannati ad una condizione di protettorato permanente da parte dei paesi forti e responsabili dell’Europa (senza nessuna possibilità di influenza sulle loro scelte). La risposta data dal Consiglio Europeo (l’organismo politico dell’Unione Europea in quanto costituito dei capi di stato e di governo degli stati membri di quest’ultima) alla crisi dell’euro ha ulteriormente accentuato l’integrazione tra gli stati membri dell’Unione economica e
33 capitolo 1 › nuovi paradigmi politici
monetaria. Il Trattato intergovernativo sulla stabilità finanziaria (o ESM, che si è deciso di istituire nella riunione del Consiglio Europeo del luglio 2011) e il Trattato intergover-nativo sull’unione fiscale (o Fiscal Compact, che si è deciso di istituire nella riunione
del Consiglio Europeo del dicembre 2011) avranno l’effetto di sottoporre al controllo di comuni autorità europee le politiche di bilancio e fiscali degli stati membri (tra cui l’Italia) che hanno aderito a quei trattati (solamente la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca non hanno voluto sottoscrivere il Trattato sul Fiscal Compact). Così, uno degli
ultimi baluardi della sovranità nazionale (l’autonomia della politica di bilancio) è crollato rumorosamente sotto la pressione della crisi finanziaria.